Qualche mese fa tra le pagine di Gameplay Café si era già parlato dell’astinenza da PS5 e di come questa rappresentasse un’occasione di aprire le proprie vedute nei confronti dell’abbondante line-up della generazione corrente (link all’articolo qui).
Vista la penuria di semiconduttori ancora in atto e la strategia inoppugnabile dei rivenditori di videogiochi, che si ostinano a proporre bundle fantasiosi e costosi, ho dovuto mettere alla prova la teoria dei miei stimati co-redattori. E dal momento che PS5 non si trova, ecco che cosa ho giocato in attesa, raschiando il fondo del proverbiale barile.
Capitolo finale dell’ultima trilogia dell’Agente 47, giocato senza il contesto dei precedenti. A dispetto di questa modesta premessa, il gioco mi ha offerto svariate ore divertenti in cui ho avuto una razione di stealth curato, seppure non creativo, imperfetto ed imprevedibile come quello di un immersive sim. I livelli di gioco sono generalmente impressionanti per vastità e densità di popolazione, tuttavia solo alcuni riescono a spiccare dando al giocatore un sottofondo narrativo a cui aggrapparsi per costruire il proprio piano di infiltrazione, ad esempio la villa della signora Carlisle e della sua simpaticissima famiglia.
A dispetto del fattore rigiocabilità, ovviamente altissimo ma che, personalmente, non trovo molto interessante, Hitman 3 scivola via piacevolmente ma rapidamente, come una serie tv ad 8 episodi a stagione. Sospetto che questa sensazione si attenui guardando in blocco all’intera trilogia di IO Interactive, cosa che consiglio di fare, tuttavia il buon Agente 47 non è stato in grado di soddisfare a pieno la mia nostalgia da stealth.
A oggi, quest’ultimo risulta infatti uno dei generi più ostici da sviluppare e rari da giocare, ed è quasi sempre limitato a sezioni di giochi che usano altro come meccanica principale.
Gioco fortemente improntato alla narrativa, il dialogo e la giapponesità. Essendo io favorevole a tutte e tre le cose, mi sono divertita non poco a portare a termine le 5 investigazioni a disposizione. Nei panni di un giovane studente di legge del Paese del Sol Levante, ci imbattiamo in una concatenazione di eventi che culminano ogni volta in veri e propri processi in aula oppure fasi prolungate di investigazione in cui dobbiamo portare a galla la verità esaminando luoghi e parlando con le persone. Il gameplay risulta molto semplice, essendo limitato ad opzioni multiple di dialogo e scelta di oggetti dall’inventario delle prove.
Tuttavia il livello di sfida non è trascurabile: come il baseball funziona a strike, il gioco concede un numero pre-fissato di errori al giocatore, ad esempio presentare la prova sbagliata nel contesto sbagliato. Esaurite queste possibilità, il nostro personaggio sarà considerato un ciarlatano dalla corte. Consiglierei Ace Attorney con le stesse modalità del caffè, ossia in dosi moderate affinché mantenga il suo effetto benefico. Si tratta infatti di un valido intermezzo più che un gioco da esplorare da inizio a fine, senza sosta.
Alla luce dell’annuncio graditissimo di Alan Wake 2, il DLC di Control, AWE, assume formalmente il ruolo di ponte fra l’universo di cui è protagonista Jesse Faden e quello del tormentato e affascinante scrittore. Si tratta meramente di un’abbozzata premessa che non aggiunge nulla alla formula già eccellente del gioco principale. Eppure, mi sono ancora divertita a lanciare oggetti in aria e svolazzare per le stanze della Oldest House: il gameplay di Control ha, a mio avviso, il raro pregio di dare una sensazione di appagamento anche quando non ci sono più nuove meccaniche da scoprire.
Chiaramente, questo DLC è un passatempo destinato a durare assai poco e lasciare poca traccia di se. Privo dei guizzi narrativi ed artistici, che pure sarebbero stati nelle corde del team di sviluppo Remedy, AWE non ha particolari meriti oltre all’essere l’allungamento di un buon brodo.
Avevo giocato e finito TLoU parte 2 all’uscita. Ho resistito poco meno di un anno e mezzo prima di rigiocarlo. Sebbene siano molti i momenti che mi erano rimasti impressi, la durata dell’avventura è tale che non sono mancati sorprese e stupore in alcune circostanze. La fluidità e naturalezza delle animazioni riescono a “vendere” la realtà di Joel ed Ellie, mentre la dinamicità del gameplay rappresenta un loop rifinissimo e sempre appagante (medesima osservazione fatta poc’anzi per Control).
Anche ad un anno dall’inizio di una nuova generazione, TLoU parte 2 non è paragonabile a null’altro sul mercato
Sebbene dal punto di vista ludico il gioco non rappresenti la nascita di un genere o concetto del tutto originale, non si può neanche relegare l’opera a mero miglioramento incrementale del suo predecessore. Anche ad un anno dall’inizio di una nuova generazione, TLoU parte 2 non è paragonabile a null’altro sul mercato e, oserei dire, ciò risulta ancora più evidente al secondo play through, in cui la storia non monopolizza più l’attenzione.
Ricordo distintamente di essermi commossa quanto la prima volta (se non di più) dopo aver finito TLoU parte 1 per la seconda volta. L’evoluzione di Joel e di Ellie rispecchia i sentimenti del giocatore alla perfezione, creando una sensazione di immedesimazione che rappresenta il fattore-chiave della riuscita del gioco.
The Last of Us Parte 2, invece, funziona più razionalmente che emotivamente: non offre un avatar emotivo in cui possiamo proiettare il nostro punto di vista, perché ogni personaggio segue la sua agenda. Si lascia giocare con grande ammirazione per la cura con cui è confezionato, ma manca della semplice efficacia del primo capitolo.
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Per fortuna sono riuscito a comprarmela a Giugno, anche ho tanti giochi da recuperare.