Nonostante ci siano stati esperimenti in quel senso già prima, con Duke Nukem e Doom, è nel 1999 che avviene la codificazione degli sparatutto online competitivi per come siamo abituati ad intenderli ancora oggi. Un anno che fu scosso da ben due titoli di alto profilo, laddove anche solo uno di questi sarebbe stato sufficiente a ridefinire il modo di approcciarsi a questo genere videoludico, nella fattispecie Quake 3 Arena di ID Software e Unreal Tournament di Epic Games (si, gli stessi che oggi fanno Fortnite Battle Royale).
Entrambi i giochi hanno praticamente delineato il genere degli sparatutto Arena, ovvero un sotto categoria ben precisa, con le sue regole. Gli Arena infatti si basano su di un’armamentario predefinito, disponibile in partenza per chiunque. Questa è una delle caratteristiche più importanti, dato che l’utente non deve accumulare punti esperienza per sbloccare cose, potendo decidere sin da subito in che modo preferisce giocare.
Le armi sono infatti sono reperibili lungo la mappa o selezionabili in partenza, inoltre queste non hanno perk o accessori da montare, risultando quindi uguali per tutti. Un aspetto infatti molto discusso ogni volta che esce uno sparatutto online, è il bilanciamento delle armi. Negli Arena il bilanciamento è decisamente più semplice da raggiungere, in quanto ogni arma è presente in una sola configurazione, pertanto si può trovare il giusto equilibrio per fare sì che l’intero arsenale possa risultare letale. La differenza la fa la bravura del giocatore, il quale non può rivendicare un abbattimento come causa di una configurazione più forte di quella di cui lui dispone, dato che parte dalle stesse basi e armi del suo avversario. L’argomentazione “mi ha battuto perché la sua arma aveva il perk che aumentava il danno di fuoco, mentre io no” qui non è utilizzabile. Al massimo si può riscontrare una maggiore o minore difficoltà sfidandosi in sparatoria con armi diverse dell’arsenale, ma riagganciandoci al discorso di prima sul bilanciamento, in uno scenario senza perk, la differenza tra queste è meno marcata e l’incidenza rimane al 90% in mano al giocatore.
L’altra grande caratteristica è la velocità che contraddistingue le partite. Gli FPS Arena infatti si basano su di un’accelerazione del ritmo di gioco per favorire la dinamicità delle partite e mantenerle sempre attive, senza rischi di staticità o abuso di camping. La mancanza di recupero automatico dell’energia (presente in tanti, ma non in tutti) inoltre incentiva ulteriormente questo stile, in quanto il giocatore è costretto ad andare a raccogliere i kit vita che compaiono regolarmente lungo la mappa, così come per accaparrarsi armi particolari.
Queste ultime infatti compaiono su determinati punti della mappa ad intervalli di tempo, scoraggiando ancora di più a stare fermi e aggiungendo un pizzico di complessità al tutto. La comparsa di un’arma particolarmente forte avviene solo ogni tot decine di secondi in una zona precisa, pertanto cogliere l’attimo e calcolare i tempi è utile, ma anche gestire come squadra il punto caldo è importante. Qualora manchino pochi secondi al rientro, è opportuno non partire svantaggiati nella corsa a chi raccoglie prima la “power weapon” o avere fuoco di copertura durante questo processo. La comparsa di questi strumenti, insomma, modifica le regole stesse di una partita, creando delle sotto-dinamiche interne che ne alterano lo scorrimento per quella manciata di secondi che ne precede l’arrivo.
La struttura delle mappe inoltre è piuttosto stratificata, costruita su livelli ad altezze molto differenti, tale da rendere ogni stanza una specie di “arena dentro l’arena“, costruita per inscenare una tipologia di gioco diversa o su misura di una specifica arma o manovra. Il movimento ritorna quindi protagonista anche per via di come viene volutamente amplificato, per ragioni diverse.
La prima è che la mobilità può servire per battere in ritirata, opzione quasi assente negli FPS realistici, per salvarsi da uno scontro a fuoco partito male, mentre la seconda verte sul far diventare salti e corse una parte stessa dell’attacco.
Quest’ultimo punto può sembrare un’ipotesi assurda a chi è abituato a giocare soltanto con gli FPS attuali, magari quelli militari, mentre potrebbe capirne il senso chi invece si dedica a Titanfall. Potendo contare su salti amplificati o movimenti più rapidi, questi possono essere usati per rendere i propri attacchi più efficaci. Un esempio sono i cosidetti “jumper”, che servono per lanciare un personaggio velocemente al piano successivo di una mappa o far superare un fossato. Sparando durante la fase aerea però si rende un semplice spostamento più incisivo in attacco. Questa manovra ha infatti trovato espressione in modi disparati, dimostrando come i giocatori più bravi non conoscessero limiti, arrivando ad usare l’equivalente di un fucile da cecchino (la Railgun di Quake 3) durante un salto, oppure usando il “rocket jump”, il boost ulteriore al salto creato dall’esplosione di un razzo (difficilissimo, in quanto richiede la calibrazione al millimetro e mette a rischio l’energia stessa del personaggio per via del fuoco amico). Il risultato è quindi più frenetico e con un tasso di ingaggi e abbattimenti al secondo più elevato. In questo scenario è quindi più facile uccidere o essere uccisi, ma al tempo stesso viene offerto anche più spazio per migliorare, in quanto alzare l’asticella della propria prestazione ripaga all’interno del gioco.
Con l’introduzione di perk e modificatori ai valori (come il rateo di fuoco, il danno, la dispersione) sono aumentate esponenzialmente anche le possibili interazioni, creando quindi non pochi problemi nel tentativo di evitare combinazioni troppo forti, tali da prevalere su altre in modo netto, rovinando l’esperienza generale con armi eccessivamente potenti e altre eccessivamente scarse.
Da un lato quindi il passaggio agli FPS militari (uso volontariamente il termine in senso largo, per indicare la categoria contemporanea che si è identificata attraverso il filone realistico) ha introdotto la possibilità di personalizzare il proprio armamento, portando quindi anche a possibili squilibri. L’implementazione dei perk (ovvero le abilità speciali) inoltre ha aggiunto un’ulteriore variante a complicare il tutto, modificando troppo alcune capacità delle armi o del personaggio stesso. Basti pensare al lancio automatico di una granata (Martirio) a disposizione anche dai cecchini in Modern Warfare 1, oppure nel suo stesso seguito, che per quanto celebrato aveva parecchi aspetti da limare sotto questo punto. Citiamo l’Akimbo (un’arma per ciascuna mano, devastante se usato con le doppiette) o combinazioni tra la corsa rapida e il raggio d’azione della coltellata aumentato (con gente che giocava intere partite senza bisogno neppure di sparare, accumulando kill solo su coltellate, per poi chiamare il raid dell’elicottero e via, ripetere).
Treyarch, nei suoi capitoli di Call of Duty, ha offerto una soluzione piuttosto valida per risolvere la questione, con il sistema Pick10, il quale consiste nell’assegnare ad ogni arma o perk un valore numerico che ne identifica “il peso”, segnando un massimale di dieci per l’intera configurazione. A conti fatti si può notare dunque che le combinazioni tra perk e armi più potenti sono effettivamente ristrette, migliorando molto l’esperienza di gioco laddove il Pick10 è inserito.
Il bilanciamento delle armi rimane quindi l’unico problema irrisolto, tuttavia ciò avviene per motivi collaterali. Se da un lato gli sviluppatori ora hanno più pratica in materia, dall’altro la serializzazione di molti sparatutto ha letteralmente strozzato i tempi di sviluppo, andando a ridurre lo spazio da dedicare al beta testing. Questa pratica un tempo era un punto centrale che accompagnava la produzione, dato che si poteva fare meno ricorso alle patch e agli aggiornamenti. Ora purtroppo è troppo sovente delegata agli utenti che acquistano i giochi al lancio. Il risultato quindi è cambiato di poco, ma per motivi più tecnici e non tanto per una questione di esperienza degli studi.
La grande differenza introdotta è anche il sistema di sblocchi, legato all’accumulo di punti esperienza o compiti specifici. Questa scelta di game design è uno spartiacque totale rispetto gli FPS Arena, perché va ad incidere sulle prestazioni di gioco e sul modo con cui approcciarsi per ragioni slegate però dalla visione autoriale videoludica. Nell’era delle console connesse e in HD infatti iniziavano ad essere già diffuse le grandi catene di rivendita di giochi usati, mentre le funzioni online e multigiocatore deincentivavano a modificare le console per usufruire della pirateria.
In questo scenario quindi parecchi giocatori abbandonavano i giochi copiati illegalmente, per spostarsi verso le copie usate (non tutti infatti compravano il nuovo, permutando l’usato, mentre altri compravano altro usato, per risparmiare ulteriormente), le quali non portano alcun tipo di utile nelle casse delle software house e degli sviluppatori. Una copia usata venduta produce infatti utili solo per il rivenditore/utente privato, sottraendo un acquisto di copia nuova su cui invece gli editori possono trarre guadagno. Già nel 2007 Mark Rein di Epic Games lamentava di come le catene di rivenditori di usato fossero potenzialmente dannose per loro in modo simile ai venditori di copie pirata, in quanto in entrambi i casi loro non vedevano un centesimo. Da lì abbiamo assistito ad una vera guerra al mercato dell’usato, passata dall’uso sempre maggiore di DLC, microtransazioni, online pass, ma anche attraverso meccanismi volti a tenere gli utenti incollati al videogioco quanto più a lungo possibile.
Infatti i primi mesi di messa in commercio sono i più delicati, perché sono quelli su cui gli sviluppatori traggono il maggior profitto vendendo le copie a prezzo pieno e anche perché per loro è utile rientrare il prima possibile degli investimenti multimilionari necessari allo sviluppo (esistono anche i cosidetti slow-seller, che continuano a vendere stabilmente dopo un anno o due, ma non tutte le software house possono permettersi di aspettare di fronte a grosse cifre anticipate in fase di produzione). Pertanto uno dei metodi utilizzati è stato anche rendere più lunghe e complicate le funzioni per sbloccare determinate armi o abilità, in modo tale da tenere attivo sul gioco l’utente per più tempo possibile e posticipare il momento in cui quell’utente magari si stuferà del gioco e lo rivenderà, immettendo in circolo una copia usata che statisticamente cancellerà una o più vendite di giochi nuovi, a seconda di quante volte verrà rivenduta a sua volta.
Chi legge questa rubrica probabilmente è un giocatore assiduo, uno di quelli che nel giro di una settimana ha già raggiunto la prima classe di prestigio in qualsiasi sparatutto, tuttavia per molti utenti occasionali raggiungere l’agognato livello massimo su cui si ha accesso a tutto l’armamentario è un obiettivo che può tenere occupati anche un mese o oltre. E per gli sviluppatori quel mese diventa essenziale per asciugare il numero di copie usate in circolo e costringere chi è interessato a rivolgersi al nuovo. Pertanto la diffusione di sistemi di sblocchi spesso sempre più farraginosi dentro gli FPS è una scelta di game design che ha poco a che vedere con una visione autoriale.
Esistono altri casi e motivazioni, come complicare gli sblocchi e procrastinare l’abbandono per far sì che rimangano più utenti attivi ed evitare si svuotino troppo presto i server, qualora parliamo di titoli minori. Ma per i grandi titoli, la motivazione era di natura più economica.
Un’altra differenza è l’approccio alla sparatoria. Mentre negli FPS Arena è essenziale muoversi e cercare l’ingaggio contro il nemico, negli FPS militari si assiste alla diffusione del cosiddetto camping, derivato dalla pratica di accamparsi, “piantare le tende” in un punto e sfruttarlo per accumulare uccisioni.
Inoltre diventa più importante la scelta dell’equipaggiamento; usare il fucile da cecchino nel punto giusto o un fucile d’assalto o mitraglietta con i giusti perk di rateo/danno non lascia scampo all’avversario. Il gioco premia quindi il posizionamento e la scelta dell’armamento, rispetto la gestione della sparatoria centrale degli fps arena.
Tuttavia la svolta degli FPS moderni è soltanto negativa? Non proprio. Se da un lato si sono accantonati diversi punti positivi che gli FPS Arena offrivano, dall’altro qualche pregio viene mantenuto comunque. Giocare ad alto livello rimane tutt’ora un’impresa che premia la bravura e l’allenamento e anzi, non bisogna stupirsi che Black Ops 3 e Infinite Warfare (tanto bistrattati dal pubblico occasionale) siano stati apprezzati nel circuito dei tornei, dimostrando che i giochi che riprendevano alcuni aspetti tipici degli Arena come l’ipermobilità, abbiano invece rivitalizzato la scena Pro di Call of Duty in un momento di stanchezza.
L’ampiezza delle mappe e l’introduzione di modalità ad obiettivo molto specifiche, ha reso più importante l’interazione tra giocatori. Vincere una partita di Operazioni in Battlefield, oppure una di Cerca&Distruggi in Call of Duty richiede un lavoro ben più complesso del semplice sparare. Difendere gli accessi a zone con obiettivi è parte necessaria per vincere una partita di Dominio, dando a ciascun giocatore un ruolo ben specifico. In questo aspetto si trova quindi un maggior spazio per differenziare i compiti di ciascuno, centralizzando il ruolo della squadra e la sua gestione con maggiore profondità rispetto gli Arena. L’esempio massimo si ritrova in Counter Strike, diventato emblema nella scena esport basata sul gioco di squadra, grazie all’elevato grado di complessità raggiunto.
Un altro grande salto si è visto negli ultimi anni con i cosidetti Hero Shooter. Avevamo già visto titoli incentrati sulla selezione di una classe con abilità e ruoli specifici per dare maggiore spessore al multigiocatore e possiamo citare ad esempio Team Fortress 2, Killzone, lo stesso Battlefield, tuttavia una specializzazione ulteriore crea una categoria a parte con questo nuovo filone. L’idea si basa sul caratterizzare ciascuna classe con una personalità, ma anche nel rendere le sue meccaniche talmente specifiche da fare sì che un’intera squadra non possa selezionare tutta lo stesso personaggio, pena ritrovarsi sfornita di qualcuno in grado di soddisfare un requisito essenziale all’interno della partita. Inoltre diventa spesso utile cambiare personaggio a partita in corsa, per soddisfare nuove esigenze dettate dall’evolversi dell’incontro. Per fare un esempio Overwatch è uno dei casi più eclatanti e in cui le sinergie sono implementate meglio.
Volendo concludere è doveroso citare il fenomeno Battle Royale. Questi giochi vertono su di una gara di sopravvivenza su di un’unica gigantesca mappa, dove cento contendenti devono (da soli, o in squadra) restare in vita per ultimi. Il motivo per cui si stanno affermando risiede nella loro formula innovativa, che per quanto possa aver già saturato qualcuno a causa dell’invasività che lo status di sovraesposizione dettata dalla moda comporta, è indubbiamente un punto di forza. Giocare un Battle Royale è un’esperienza molto differente dagli sparatutto competitivi precedenti, in quanto richiede di muoversi lungo la mappa in modo meno frenetico e adattandosi a conformazioni geografiche varie, che differenziano in modo radicale l’approccio al combattimento, specialmente a seconda di quanti giocatori siano presenti in quel momento. Da una collina ad uno spazio pianeggiante, da una casupola isolata ad un piccolo borgo, oppure un ponte, il punto critico in cui affrontare i nemici può essere uno qualunque e non tutti si prestano ad essere affrontati allo stesso modo o con le stesse armi. I ritmi e le tempistiche inoltre sono estremamente elastici in quanto si passa da da una sparatoria furiosa tra anche tre o quattro contendenti in mezzo ad una cittadina, a persino minuti dedicati allo spostamento, all’esplorazione e la ricerca di munizioni o equipaggiamento. Inoltre il tanto amato (e vituperato al tempo stesso) Fortnite, ha come elemento del suo successo anche una caratteristica tipica di altre produzioni firmate Epic Games: ovvero proprio quell’aspetto “skill based”. La creazione di pareti o altre strutture ad uso difensivo, nelle partite torneistiche raggiunge picchi di velocità e utilizzo che riescono a ridefinire situazioni che per altri giocatori avrebbero una conclusione molto più banale e scontata. Riassumendo: Fortnite Battle Royale concede spazio per mettere in scena giocate difficili, ma spettacolari, che premiano i giocatori di alto livello in base alla loro perizia. E questo tratto pare proprio imprescindibile dallo stile con cui Epic crea le sue esperienze multigiocatore, non a caso tutti loro titoli precedenti ne erano forniti e hanno avuto molto da dire nelle scene esport (Unreal Tournament e Gears of War).
Gli sparatutto online hanno quindi attraversato molteplici iterazioni, ciascuna caratterizzata da aspetti assai diversi. Nonostante ciò ogni categoria riesce ad offrire un suo stile unico, solleticando le corde dei giocatori in modi estremamente vari e mettendo in scena esperienze ludiche non sovrapponibili o sostituibili tra loro, pur ritrovandosi sotto la stessa etichetta.