L’essere umano, secondo Aristotele, è “un animale intrinsecamente sociale in tutte le attività che lo coinvolgono”. Nella sua epoca, i seguaci dei filosofi si riunivano nelle piazze per ascoltare le orazioni e discutere attivamente tutti insieme sulle riflessioni che hanno fatto la storia della filosofia, ma se ciò fosse avvenuto al giorno d’oggi, all’interno delle bacheche social, Aristotele avrebbe sicuramente aggiunto alla sua definizione la postilla “incluse quelle negli spazi digitali, purtroppo”. Andando di qualche secolo un po’ più avanti fino agli albori di internet, quando ancora pochi pionieri utilizzavano i compatti computer dei laboratori universitari o delle biblioteche per accedervi, la propensione dell’utenza era quella di aggregarsi in comunità virtuali attraverso zone che, nel corso della storia, si sono evolute dai forum e chat testuali a Reddit, 4chan e social di ogni tipo dei giorni nostri. Eppure, perfino nei primi esperimenti comunitari era già presente la classica “serpe in seno” che ancora colpisce molti ambienti online, soprattutto appartenenti al mondo videoludico: l’atteggiamento negativo che viene chiamato “tossicità”.
Al principio si trattava di alcuni sporadici utenti, giocatori o semplici provocatori che per frustrazione o per perverso godimento avevano un atteggiamento negativo che spaziava tra insulti, estremismi e ironia eccessivamente piccata contro il prossimo, specialmente se appartenente a minoranze e categorie “deboli”. Negli ambienti chiusi come i forum era semplice identificarli in meri disturbatori della quiete pubblica o in avventori disinteressati che volevano solamente vedere le reazioni a provocazioni e ingiurie. Con il passare del tempo però, il concetto della tossicità si è evoluto, diffondendosi a macchia d’olio in tutti i possibili canali. Ciò ha portato a una sorta di sentimento senza una precisa identificazione, il quale può scaturire perfino da persone insospettabili in contesti altrettanto innocenti. Parte della ragione di questa mutazione è senza dubbio dovuta all’accessibilità maggiore che gli ultimi anni hanno concesso alla rete, creando più utenti e voci che, volenti o nolenti, finiscono per amplificare qualsiasi tonalità presente nel cyberspazio, soprattutto se negativa. Nel mondo dei videogiochi lo abbiamo visto succedere chiaramente attraverso le finestre delle tantissime community che prima erano interne ai vari portali di riferimento e poi si sono trasformate in gruppi Facebook e Server di Discord. Ed è anche innegabile che ci siano alcuni giochi, come League of Legends, che siano dei veri e propri focolai di negatività virulenta, pronti a esplodere e a coinvolgere il pubblico a livelli mai visti, come è successo con la clamorosa quanto tragica situazione di Tyler1 o nelle diverse dimostrazioni di mancanza di tatto da parte degli stessi sviluppatori.
La sensazione che deriva dall’osservazione di queste dinamiche è che, in alcuni ambienti, venga implicitamente incoraggiato un atteggiamento aggressivo e, per quanto strano possa sembrare, in certi casi arriva anche a essere la ragione d’esistenza del gruppo. Secondo alcuni studi nel campo dall’amministrazione/creazione di community virtuali, tra cui quelli elencati nel libro “Building Succesful Online Communities” di Robert E. Kraut e Paul Resnick, la causa maggiore di questa crescita esponenziale di tossicità è derivata proprio da una percezione sbagliata di ciò che è socialmente accettabile o meno all’interno della rete. Ad esempio, alcuni degli scandali più recenti che hanno coinvolto le più note piattaforme di streaming riguardano alcune personalità famose che sono state punite dall’opinione pubblica per aver usato slang di pessimo gusto durante le loro dirette. Parole come “nigga”, “faggot” e altri derivati come l’italianissimo “ricchione” sono delle ingiurie che nella cultura popolare sono considerate “accettabili” solo perché diverse persone le usano, così tanto da renderle quasi un’esclamazione comune deprivata della connotazione maligna. La realtà dei fatti è che in qualche modo queste parole non hanno affatto perso il loro potenziale offensivo, soprattutto quando il contesto è totalmente estraneo al loro significato. Eppure, una volta iniziata la diffusione massiccia orale/scritta, sempre più persone lo troveranno ammissibile e non si porranno minimamente il problema che non lo sia, una mentalità da gregge in piena regola che è così tanto solida da credere che in realtà sia folle chi li invita a moderarsi. In ambienti cosmopoliti come i giochi online questa idea si amplifica a dismisura per via della pura mole di persone con cui si viene in contatto, nonché per i molti canali in cui è possibile esprimersi (testuali o vocali).
Allo stesso modo, i comportamenti tossici o aggressivi, che hanno avuto una vera e propria esplosione nel boom dei cosiddetti “troll di internet”, si sono normalizzati ancora di più proprio perché nella prospettiva distorta della rete ci si iniziava a spalleggiare a vicenda. In sostanza, una massa silenziosa decise che quel modo di comportarsi fosse “la normalità” che tutti dovevano seguire e che non ci fosse nessuno spazio per chi la pensasse in maniera differente. Di conseguenza, adesso è diventato comune lo scenario in cui un nuovo giocatore di, per esempio, League of Legends, dopo aver vissuto un po’ di partite in cui viene insultato per aver fatto delle mosse sbagliate, si trovi in dovere di insultare il proprio compagno di squadra in virtù della collettiva caccia alle streghe che tutti fanno in ogni partita, sia sul titolo di Riot Games che su DOTA, Counter Strike e altri ambienti scarsamente positivi. Molti, compresi gli studi di sviluppo, hanno tentato di ovviare a questo fenomeno attraverso meccanismi di gioco che premiano i giocatori più positivi. Ciò è particolarmente riuscito all’interno di Overwatch, il quale ha ricevuto un abbassamento della tossicità considerevole negli ultimi anni, almeno secondo quanto dichiara Blizzard. Tuttavia, anche con queste contromisure è evidente che il fenomeno venga solamente attenuato.
Ma se all’interno dei videogiochi vengono immesse barriere e regole ferree, fuori da essi rimane una terra di nessuno composta da thread di Reddit e milizie di Twitter “anti-buonismo”. Qui, in questi lidi virtuali, c’è un terreno fertile che ha più volte unito movimenti estremizzanti di stampo politico/sociale alla comunità dei giocatori, portando a fenomeni disturbanti come il Gamergate e al razzismo più becero. La giurisdizione in questi campi è labile e i team di community manager delle varie case cercano di creare le proprie isole felici moderando a più non posso, soprattutto su Twitch. Un simile escapismo è però quasi un’ammissione arrendevole, un sogno cdi poter vivere felici cercando di chiudere fuori le voci più tossiche.
Ed è in tutti questi campi digitali che ogni giorno si svolgono dibattiti e discussioni su quello che sia giusto o meno per i giocatori. Questa categoria è indubbiamente una delle più conservazioniste: oltre a essere estremamente restia al cambiamento, quando si cerca di divergere dai canoni del passato per favorire molteplici rappresentazioni culturali si prodiga addirittura in veri e propri movimenti di protesta contro queste iniziative, dando sfoggio ancora una volta di crociate contro la multiculturalità. Il già citato Gamergate è un esempio lampante di come la parte peggiore della comunità videoludica si sia ampiamente mobilitata per smontare il fronte femminista e, in generale, la figura femminile, sia essa all’interno dei giochi sia nelle quote rosa degli studi di sviluppo.
Sia ben chiaro, però, che anche il fronte opposto abbia commesso degli errori in alcuni precisi momenti, ma è necessario discernere la libertà di critica, che deve essere utile e costruttiva, dall’aggressività virtuale che spesso viene utilizzata senza remore, sfociando in abusi verbali e in situazioni al limite del paradossale solo per appartenenza a un determinato costrutto sociale.
Le donne e le minoranze etniche sono proprio i bersagli più gettonati e, nonostante le conquiste nel corso degli ultimi anni, ancora oggi subiscono continui attacchi che spesso passano nel silenzio generale per evitare di irretire la “maggioranza” dei giocatori, i cosiddetti “hardcore” che pensano di essere l’equivalente della razza ariana dei mondi poligonali. Recentemente mi sono imbattuto in un caso piuttosto rappresentativo di quanto affermato: la “denuncia” di una ragazza su Reddit che ha deciso di giocare a Fallout 76 con la chat vocale attiva (ricordiamo che al momento della scrittura di questo articolo non c’è la possibilità di usare il “Premi per Parlare”) e si è ritrovata a convivere con un aberrante schiera di idioti – perché solo così possono essere chiamati – che hanno iniziato a dirle, a voce, cose come “se questo fosse un altro gioco, ti avrei stuprata”, “stai giocando nuda?”, “quanto ce le hai grosse?” e altri tantissimi esempi del perché perfino in una strada virtuale post apocalittica una donna non possa evitare di ricevere attenzioni non volute. Il tutto è stato scaturito semplicemente dalla voce femminile della giocatrice, elemento sufficiente per dare a queste persone il diritto di disturbarla e offenderla per via del fatto che ancora oggi, da molta gente senza un minimo di rispetto, è socialmente accettabile esprimere questa tipologia di pensieri alla prima sconosciuta che capita a tiro. Soprattutto, è interessante sottolineare come altri giocatori che passavano di lì non abbiano affatto difeso la ragazza, anzi hanno spalleggiato i molestatori diventando dei veri e propri gruppi che la seguivano costantemente. Come evitare questa cosa dunque? Quali saranno stati i suggerimenti datele sotto il post? Il più gettonato è “disattiva la chat vocale” e a dirlo sono altre ragazze che hanno subito lo stesso trattamento in questo e in altri giochi. Ormai rassegnate, disgustate, così tanto consce della radicalità di questo fenomeno che si sono arrese a togliersi un elemento fondamentale dell’esperienza di gioco pur di avere una chance di giocarlo, magari mentendo sul proprio sesso o nascondendosi dalla community generale.
Questo perché, soprattutto online, chi interagisce in modo aggressivo/offensivo lo fa per via di un fenomeno chiamato “depersonalizzazione”, ovvero il non saper riconoscere che dietro quell’avatar virtuale, o quel profilo su Facebook, ci sia una persona in carne ossa solamente perché non si può avere un confronto diretto tra interlocutori. La dimostrazione visiva di questo concetto, così radicato ma quasi invisibile alla massa, è il recente meme dell’NPC che spesso viene utilizzato da frange di internauti per denigrare le posizioni dei “Social Justice Warrior” o di qualsiasi altro pensiero non sia affine all’agenda.
Il fatto che venga preso un meccanismo videoludico come l’interazione e il codice degli NPC per questa ironia al vetriolo è piuttosto significativo di come il mondo delle community dei giocatori siano un fertile campo per questa tipologia di “propaganda”, specialmente se fa comodo alle politiche degli estremisti. Non è certo la prima volta che vediamo il meme utilizzato in maniera quasi impropria, ma in questo caso avvalora proprio il punto di questo articolo: abbiamo smesso di trattare le persone come tali. Con l’esplosione dei social network e dell’internet 3.0, alcuni di noi stanno pian piano dimenticando quei valori umani che tutti dovrebbero possedere. E attraverso la delegittimazione delle argomentazioni dell’avversario, coltivando pian piano nelle masse l’idea che si tratta di discorsi senza senso e senza valore utilizzando ogni mezzo possibile, si continuerà a promuovere l’accettazione della tossicità e del naturale estremismo che ne consegue. Razzismo, omofobia, discriminazione contro la donna e molti altri mali che ci vogliono far passare come lontani dall’idilliaco paradisiaco dei videogiochi sono in realtà ben più vicini di quanto si possa pensare: veri e propri mostri astratti che ogni giorno inghiottono le voci più deboli a favore di quelle che strillano e insultano di più. Ma se tali comportamenti continueranno a essere giustificati come “libertà d’espressione” (che guarda caso però non vale mai per quelle dell’altro schieramento) e “sono solo memini”, allora non riusciremo mai a sradicare questo male, specialmente se esistono figure e personalità che macinano denaro promuovendo la tossicità, mentre i media – del settore e non – evitano di esporsi troppo per non rischiare di perdere click.