In un futuro non molto lontano, la Terra è flagellata da misteriose tempeste elettromagnetiche che stanno mettendo in ginocchio l’umanità intera. Rintracciata la potenziale origine della minaccia nell’orbita di Nettuno, il freddo e cinico astronauta Roy McBride (Brad Pitt) si mette in viaggio per salvare il mondo e rintracciare il padre che, creduto scomparso durante la ricerca di forme di vita aliene, sembra essere invece connesso alla catastrofe in atto.
Ad Astra è senza ombra di dubbio il progetto più ambizioso di James Gray, regista e sceneggiatore noto da tempo ai grandi Festival internazionali, e apprezzato per lavori quali Little Odessa, I Padroni della Notte e Civiltà Perduta. Discostandosi totalmente dalle sue opere precedenti, questa volta Gray sceglie lo spazio profondo come scenario per interrogarsi sulla vita e proporre allo spettatore un incredibile numero di spunti di riflessione. La spedizione ai confini della galassia è infatti un puro pretesto narrativo per mettere in scena un viaggio che è personale, intimo e introspettivo con le fattezze di un eccelso, ancora una volta, Brad Pitt.
Nelle oltre due ore che compongono la pellicola trovano spazio diverse tematiche che spaziano dal rapporto padre-figlio, al confronto con le cicatrici del passato; dal nostro ruolo nell’universo, alla critica del progressismo scientifico; dall’importanza degli affetti personali, al sacrificio per un bene superiore o individuale.
Arthur C. Clarke, autore del romanzo di 2001: Odissea nello Spazio, dice che: “Esistono due sole possibilità. O siamo soli nell’universo, oppure non lo siamo. Entrambe sono terrificanti” ma, aggiungeremo noi dopo il film – “siamo sicuri ce ne dovrebbe importare realmente?”
Gray sembra voler lanciare un messaggio anti-progressista che invita gli spettatori a cercare le risposte negli affetti e nelle cose che spesso si hanno inconsapevolmente accanto
Il film di Gray sembra essere infatti animato da una vena “anti”: anti-progressista, anti-spettacolare, anti-eroica. Nonostante Roy esplori l’universo a miliardi di chilometri dal nostro pianeta, il regista sembra voler invitare lo spettatore a fare l’opposto e a restare con i piedi ancorati a Terra, prestando attenzione a ciò che lo circonda e riscoprendo il valore dei rapporti umani e dell’amore. Parafrasando una delle battute conclusive della pellicola: le risposte che cerchiamo potrebbero essere appena fuori dalla nostra portata.
A conferma della volontà di Gray di scoraggiarci dal rivolgere lo sguardo alle stelle, lo spazio ci viene mostrato come un luogo desolato, lugubre, sterile, tutt’altro che affascinante o stimolante. Il viaggio del Maggiore McBride non è ammantato di epicità ed eroismo, ma è un fardello oneroso e sofferto, portato a compimento per puro senso del dovere.
Lo stesso protagonista è lungi dall’essere un principe azzurro spaziale, tipico paladino a stelle e strisce. Tutt’altro, Roy è cinico, apatico e freddo come lo spazio che esplora. Un uomo solo, un uomo che ha sacrificato affetti e amori sull’altare della patria, per perseguire obiettivi non suoi. La sua missione parte in doloroso silenzio: in caso di successo o fallimento, non verrà né pianto né applaudito.
Brad Pitt si conferma essere dotato di una versatilità e plasticità attoriale con pochi rivali al mondo, risultando credibile e solido in un enorme ventaglio di ruoli diversi
La curiosa scelta di connotare l’astronauta in questa maniera è molto più realistica di quanto possa sembrare. Il regista ha infatti dichiarato di essersi ispirato alle procedure di selezione del personale per i viaggi spaziali, dove vengono generalmente preferite personalità schizoidi, affinché l’operazione non venga compromessa da reazioni emotive. E proprio nell’interpretare questo complesso essere umano, Brad Pitt si conferma essere dotato di una versatilità e plasticità attoriale con pochi rivali al mondo, risultando credibile e solido in un enorme ventaglio di ruoli diversi. Le prolungate inquadrature sul volto dell’attore trasmettono tutto il cinismo e la freddezza siderale del protagonista, tanto da far dubitare lo spettatore della stessa natura umana di Roy. Non ci stupirebbe vedere l’attore in corsa per la statuetta dell’Academy.
Oltre a un cast di indiscusso spessore che può vantare anche il nome del premio oscar Tommy Lee Jones, per questo film Gray ha voluto riunire attorno a sé un team di tecnici d’eccezione. La punta di diamante è rappresentata dal direttore della fotografia, quel Van Hoytema che negli ultimi anni ha collaborato con Nolan a Interstellar e Dunkirk, oltre ad aver lavorato a titoli come 007: Spectre e Her. La sua ricerca sull’uso dei colori si conferma, anche in questo caso, particolarmente ispirata, mettendo in scena una stupefacente alternanza tra le gelide tinte del cosmo e le luci più calde degli interni.
Chiude il cerchio Max Richter alla colonna sonora, compositore noto per quel piccolo capolavoro di Perfect Sense, che interiorizza e riproduce con le sue note il desiderio di anti-epicità inseguito dal regista.
Al netto del valore artistico della pellicola e di una performance “stellare”, Ad Astra non ci ha convinti fino in fondo. Ma prima di spiegare le ragioni della nostra insoddisfazione, vi invitiamo a riflettere su una spinosa questione: il cinema deve essere per tutti? O è più corretto si rivolga a un pubblico elitario in grado, si presume, di seguire gli arrovellamenti cerebrali del suo creatore? Mettendolo in altri termini: Gray avrebbe dovuto tendere la mano a Tarkovsky o a Nolan?
Gli evidenti inciampi della pellicola non rovinano l’opera nel suo complesso, così come il tentativo del regista di rendere il film accessibile a un pubblico eterogeneo resta lodevole
La questione non è banale, perché nel caso specifico di Ad Astra è evidente lo sforzo compiuto dal regista nel tentativo di rendere il suo film e le sue riflessioni digeribili anche al grande pubblico. Questa scelta, condivisibile o meno, ha però generato collateralmente, e forse inevitabilmente, alcune criticità che hanno minato in parte l’efficacia della pellicola. Ad Astra risulta infatti essere eccessivamente didascalico, anche laddove molte spiegazioni non sarebbero state necessarie, e – palesando apertamente i suoi intenti – pecca talvolta di originalità e pretenziosità, rovinando così la magia che spesso il “non detto” porta con sé. Più riusciti, anche se stonati per qualcuno, gli improvvisi cambi di ritmo della pellicola, con un paio di sequenze particolarmente adrenaliniche dove l’introspezione cede il passo all’azione dal taglio videoludico, quasi a voler richiamare l’attenzione dello spettatore meno attento.
Soprassedendo infine su alcune ingenuità della sceneggiatura, ci sentiamo comunque di promuovere la pellicola e lodare il tentativo di Gray di rendere la sua indagine filosofica accessibile a una platea il più vasta ed eterogenea possibile. E’ vero, così facendo il film finisce forse per non soddisfare completamente nessuno, né il cinefilo più snob, né lo spettatore occasionale, ma gli intenti sono da premiare, almeno a nostro modo di vedere e intendere l’arte. Appurato questo, Ad Astra resta un’opera riuscita sul piano visivo e stimolante su quello concettuale, capace di riverberare nelle cortecce frontali degli spettatori anche una volta abbandonata la sala, oltre a rappresentare una testimonianza inconfutabile del talento cristallino di un attore multiforme.
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Così a pelle questo film mi è del tutto indifferente, non saprei neanche spiegarne il motivo, tuttavia il buon vecchio Mr. Pitt è un attore che apprezzo davvero tanto… Immagino che prima o poi lo guarderò, ma non credo in sala. 😉🍻