Mentiremmo se dicessimo di aver apprezzato cinque anni fa l’intenzione dietro la costruzione del primo capitolo di Maleficent. Tra i primi frutti dell’operazione ben poco virtuosa di remake dei grandi classici Disney, Maleficent si allontanava in realtà almeno in parte dalla radice de La Bella Addormentata, nel tentativo di aggiornare il racconto rendendo più sfaccettata la sua nemesi, qui protagonista. Ecco quindi che Malefica ne esce non come una monodimensionale strega, ma come una nobile creatura tradita, infine redenta nella sublimazione del ruolo di madre. É un concept interessante, quello alla base del film del 2014, che non trovava tuttavia un reale sbocco di intreccio, e tantomeno di messa in scena, visto il suo reggersi esclusivamente sulla performance di Angelina Jolie, sugli effetti visivi e gli stupendi costumi.
Lo stesso può tranquillamente dirsi dunque di questo sequel, Maleficent: Signora del Male, nei cinema da oggi 17 ottobre e alle fondamenta riproposizione di quanto fatto dal primo film di Robert Stromberg. Non c’è tuttavia particolare scintilla creativa, in questa seconda iterazione, che si limita a ripercorrere cliché e topos consolidati per accennare a tematiche di ampio spettro, di portata sociale come individuale, dalla maternità alla complessa integrazione delle minoranze, passando per il corrotto approccio pragmatista dietro allo sfruttamento delle risorse.
Laddove però Maleficent: Signora del Male estende i propri tentacoli su riflessioni multiple, fallisce nel dare la corretta compattezza all’architettura generale, risultando quindi un lungometraggio privo di qualsiasi merito sia su un piano narrativo, sia da un’ottica artistica, se appunto esclusa l’ottima qualità dei costumi.
Maleficent: Signora del Male prende direttamente piede dal precedente epilogo, con la rigogliosa e magica brughiera sotto il controllo dell’ormai cresciuta Aurora (Elle Fanning), ormai considerata come una vera e propria figlia da Malefica (Angelina Jolie). La quiete viene però interrotta dalla decisione della famiglia del già conosciuto principe Filippo (Harris Dickinson), regnante sulla regione di Ulstead, di organizzare un matrimonio tra la sovrana della brughiera e il ragazzo, in modo da unire una volta per tutte i due territori. Nonostante la buona disposizione della protettiva Malefica, gli eventi alla fine prendono – come ovvio – il verso sbagliato, risultato di una trappola insidiosa che rivelerà le sue carte fin dalle prime battute.
Al centro di tutto ciò il personaggio insidioso della istrionica Michelle Pfeiffer, la Regina Ingrith, antagonista interamente caratterizzata su un singolo tono, senza mai uscire da una costruzione da macchietta che svilisce l’ottima performance dell’attrice (sullo stesso livello di quella della Jolie). Dall’inizio alla fine, la Regina risulta odiabile e priva di contraddittorio, in opposizione completa dunque rispetto a quella operazione – certo poco approfondita – del capovolgimento della figura del villain affrontata con la Malefica tradizionale; quella de La Bella Addormentata, per intenderci.
Maleficent è una fiaba vuotata di ogni elemento problematico
Per il resto, il nuovo film Disney si limita a fare quello in cui un qualsiasi remake della immensa casa di Topolino riesce meglio: aderire ad un certo standard produttivo, per poi correlarlo ed intrecciarlo al tessuto degli eventi del contemporaneo. La trama scorre via velocemente, senza grossi impedimenti o colpi di scena, cercando di approfondire il background della protagonista e della sua specie, tra continui paralleli con la corrente questione relativa ai fenomeni migratori ed ai conseguenti processi di integrazione. E’ una fiaba vuotata di ogni elemento problematico, condensata in una morale estremamente piatta e svilita, per di più lanciata in faccia allo spettatore con assenza di particolari convenevoli.
Il personaggio di Chiwetel Ejiofor (una creatura della stessa specie di Malefica) è immagine di un violento cambio di focus del film, che mette dunque per lo più da parte il tema della maternità (comunque presente) per abbracciare discussioni sentite di carattere sociale. Troviamo dunque di nuovo – come detto sopra – questa necessità dei remake Disney di nascere e morire in funzione dell’unica necessità di uscire dal medium per trasmettere un messaggio, mai elaborato, semplicemente per partecipare ad un dibattito che forse potrebbe adattarsi agli occhi dei più piccoli, lasciando però nient’altro che già visto sterile tra il pubblico adulto.
A confronto con la peculiarità de Il Re Leone su un livello tecnico, o quella di Dumbo su quello estetico, o quella ancora su quello tecnico di Aladdin (ci riferiamo agli sprazzi di Guy Ritchie), entrambi gli episodi di Maleficent sono semplicemente vuotati di un’anima, e crediamo fermamente che diversi valori qui comunicati siano in realtà da trovare, ricchi e rinnovati, in ben altri lidi (pure e soprattutto in casa Disney).
Per concludere infine, una veloce quadra sulla messa in scena di Joachim Rønning (precedentemente co-regista dell’ultimo capitolo di Pirati dei Caraibi), che non va oltre una prospettiva da mestierante, con scene d’azione scorrevoli ma vergini di guizzi o architetture in qualche modo distinguibili; persino la computer grafica appare qui posticcia e forzatamente rarefatta, in un ibridato poco funzionante di artificio ed artigianale.