La premessa di una missione banale, non poi diversa dalle tante già affrontate da Isaac Clarke, ingegnere al servizio della Concordance Extraction Corporation. Quando usciamo dall’iperspazio in prossimità di Aegis VII, ecco che la USG Ishimura appare davanti ai nostri occhi attoniti, in tutta la sua massiccia e monolitica imponenza. La nave mineraria non comunica con l’esterno da un po’ di tempo, e la diagnosi sembra proprio indicare un guasto di qualche tipo all’impianto energetico. Nulla che non si possa risolvere nel giro di qualche ora. E invece un malfunzionamento fa si che il radiofaro della nave prenda con forza brutale il nostro piccolo cargo, facendolo schiantare da tutt’altra parte rispetto al sito dell’incidente. Da lì a poco l’incontro con una creatura abominevole, la separazione dal resto dei compagni di avventura sopravvissuti allo schianto, e la fuga disperata per scongiurare il peggio.
Questo è uno dei ricordi più vividi che mi ha regalato la scorsa generazione di console.
Sono pochi i titoli che sono riusciti a ricreare un’atmosfera così suggestiva e credibile come quella generata dal primo Dead Space. Nel primo capitolo di quella che sarebbe presto diventata una trilogia, coesistono elementi e caratteristiche diverse, ognuna in un rapporto di simbiosi ed equilibrio reciproco, al punto che si può seriamente parlare di un lavoro certosino, quasi chirurgico. Una formula decisamente azzeccata che ha reso Dead Space uno dei piccoli-capolavori horror degli ultimi dieci anni. Il primo ingrediente di questo riuscitissimo cocktail è il terrore: un massiccio, spietato, e costante senso di oppressione e pericolo. Ogni griglia del sistema di areazione, ogni botola sul soffitto ed ogni parete, virtualmente, poteva rappresentare la rampa di lancio della prossima minaccia omicida. In Dead Space non c’erano safe zone, momenti di rilassamento, compagni pronti ad aiutarci facendoci sentire meno soli nella Ishimura, o, ancora, livelli all’aperto e con il favore della luce del sole. Abbassare la guardia, in qualsiasi momento, anche in quelli solo apparentemente più innocui? Un atto incosciente che ci avrebbe portato a morte certa. Peraltro saltuariamente poteva accadere che, perfino dopo aver fatto accesso ad uno dei vari punti per potenziare l’armatura di Isaac, una volta terminato l’upgrade e cliccato B per tornare al gioco, qualche necromorfo facesse la sua comparsa per sviscerarci in mille pezzi . Impossibile non essere colti alla sprovvista. Impossibile non gridare come una femminuccia, ogni singola volta. Un gioco sadico? Senz’altro. Ma piacevolmente sadico.
Ma più delle creature disgustose, dei continui agguati, dell’ansia data dalla scarsità generale di qualsiasi mezzo idoneo alla sopravvivenza – dalle munizioni, per arrivare all’ossigeno necessario a non morire di asfissia durante le nostre scampagnate a gravità zero nello spazio – faceva l’assenza di tutto questo: il silenzio assordante sporcato solo da saltuarie interferenze, da gridi disperati forse vicini, o forse distantissimi e provenienti da aree remote della Ishimura ancora inesplorate. Accenni inquietanti che ci facevano domandare costantemente quanto potessero essere estesi gli orrori gelosamente custoditi dalla nave, e con quante atrocità ci saremmo ancora dovuti confrontare. E a fare compagnia al silenzio, la solitudine. Una solitudine spezzata esclusivamente dagli incontri sporadici con i membri superstiti dell’equipaggio della Ishimura: involucri ormai svuotati da qualsiasi parvenza di lucida umanità, raminghi distrutti da traumi a noi inimmaginabili, poveri diavoli ormai prede dei deliri più neri; tutti incontrati da Isaac nei loro ultimi momenti di vita, pronti a biascicare qualche preziosa informazioni che ci potesse aiutare a comprendere contro quale male stessimo combattendo, subito prima di cavarsi gli occhi o tagliarsi la gola da soli – nel disperato tentativo di sfuggire da quell’inferno che aveva deciso di mettere le sue radici nella nave mineraria Ishimura.
Ma all’amaro del terrore più puro rispondeva la dolcezza di un gameplay riuscitissimo: man mano che si proseguiva nell’avventura – avendo i cosìddetti di andare a caccia dei “nodi” necessari per farlo- era possibile regalare ad Isaac e alla sua possente armatura tutta una serie di migliore fondamentali per non diventare carne da macello nelle fasi di gioco più concitate: upgrade alla vita, alla quantità di ossigeno trasportabile, alla velocità dell’ingegnere o alla durata della stasi con cui era possibile bloccare per poco tempo i gruppi di nemici. Raggiungendo un certo numero di crediti si poteva addirittura passare ad una tuta RIG di classe successiva – e credetemi, nella vita sono poche le gioie capaci di regalare una soddisfazione grande come quella di vedere Isaac entrare all’interno delle cabine di upgrade per uscirne con un’armatura molto meno rottame e molto più panzer da guerra asfalta-necromorfi. E poi l’arsenale: nel corso della disavventura al plasma cutter presto si aggiungono arpioni, lanciafiamme, mitragliatori blaster e perfino spara lame rotanti. Ecco che così, a fare compagnia a quella paura, a quel costante senso di lotta darwiniana per la sopravvivenza – per non vedere il corpo del povero ingegnere vilipeso dagli abomini spaziali – si aggiungeva un sentimento che sfociava nell’onnipotenza più totale. Senso ad ogni modo sapientemente bilanciato da strategie di gameplay estremamente coerenti con l’impianto sci-fi/horror del titolo: l’armatura di Isaac era anche la sua prigione, così i movimenti dell’ingegnere appaiono sempre impacciati, lenti e inadeguati ad affrontare gli attacchi dei necromorfi più famelici e frenetici. E il potenziale letale dell’arsenale, data la precarietà delle risorse presenti sul terreno di gioco, veniva infine frenato dalla necessità di dosare ogni colpo con rigore e perizia.
Il risultato di tutto ciò? Una ricetta riuscita, con un gusto agrodolce, dove i sapori non si sovrappongono mai reciprocamente. Paura, azione, ansia, adrenalina. Sempre tutto presente, sempre tutto magistralmente bilanciato e in equilibrio.
Nel 2011 arriva il secondo capitolo, questa volta Isaac non viene spedito sulla Ishimura ma in un ambiente tutto sommato simile e altrettanto “infestato”, la Sprawl, massiccia colonia mineraria situata su una delle lune di Saturno. Ad Isaac Clarke viene fatto “dono della parola”, dopo il suggestivo e carismatico mutismo del primo capitolo. Questo comunque non pregiudica la possibilità di immersione totale, in parte alimentata nell’episodio precedente da questo espediente, che anzi, semmai viene incrementata grazie ad un processo di umanizzazione del protagonista tutto sommato gradito e ben riuscito. Ma iniziano i primi problemi per la saga: le tinte horror non spariscono, ma vengono tuttavia smussate in favore di un maggiore accento sui sapori squisitamente action. Ed ecco che quel cocktail sapientemente bilanciato che era Dead Space – per quanto ben lungi dal diventare un intruglio imbevibile – comincia a farsi meno sofisticato, e leggermente meno intrigante di quanto avesse già dimostrato di poter essere. A questo si aggiunge la decisione di inserire una modalità online assolutamente dimenticabile – ma del resto erano gli anni in cui andava di moda inserire il multiplayer un po’ ovunque e a casaccio. “Aumenta le vendite”, dicevano. E invece non è proprio così. Prova ne è che Dead Space 2 non fu un fallimento, ma nemmeno un successo. Il sequel si ferma sulla soglia delle 4 milioni di copie vendute, a fronte di una spesa di oltre 60 milioni di dollari per il solo sviluppo.
Non un flop per gli standard di chi scrive, ma nemmeno abbastanza per dare un senso finanziario all’operazione. Tuttavia il publisher aveva già investito parecchio nel franchise e di mollare tutto non se ne parla: così, nel 2013 esce Dead Space 3. Qua la formula si spezza ulteriormente, e viene data una virata decisamente action alla serie, tra sessioni cooperative e sequenze all’aperto nel ghiacciato (e poco o nulla claustrofobico) pianeta Tau Volantis. Morale? Ennesimo franchise che passa da survival ad action horror su pressione del publisher, ed ennesima volta che questa strategia non funziona: anche in questo caso l’ambizioso obiettivo di vendita, fissato a 5 milioni di copie, non viene raggiunto e la serie viene congelata a tempo indeterminato. Insomma, l’ultima volta che abbiamo giocato in compagnia di Isaac Clarke è stata cinque anni fa. Un’eternità che comincia a farci soffrire, e non poco.
E proprio ad ottobre dell’anno scorso arriva un’ulteriore pugnalata al cuore: EA decide di chiudere Visceral Games, verosimilmente escludendo, una volta per tutte, l’ipotesi di un ritorno del franchise nell’immediato. I papà di Dead Space e di Dante’s Inferno diventano, così , il dodicesimo studio chiuso dal publisher nell’arco di un decennio abbandonate. Nel frattempo, in tutti questi anni non siamo rimasti completamente a digiuno di esperienze orrorifiche, alcune delle quali, per giunta, pure ambientate nello spazio. Senza scomodare il prolifico mondo delle case indipendenti, ad esempio nel 2014 Tango Software ci faceva dono del primo The Evil Within, esperienza puramente horror con indubbi pregi, a partire dall’aver creato un immaginario, per quanto facendo largo uso di espedienti narrativi e situazioni già viste nel ricco repertorio di giochi e film di genere, tutto sommato originale. Mentre nel 2015 usciva l’interessante Dying Light, che poneva la sua originalità, più che sul bestiario di minacce da affrontare – siamo sempre nel ridondante contesto dell’apocalisse zombie –, su meccaniche peculiari, in grado di fornire una delle ricostruzioni videoludiche più convincenti di quel senso di precarietà e corsa alla sopravvivenza che serie come la trilogia di Romero o lo stesso The Walking Dead ci hanno sempre suscitato. Ma è chiaramente “Alien: Isolation” ad averci fatto provare più di tutti un certo senso di deja vu – se non altro perché è proprio Alien, assieme ad altri cult del genere come “Punto di non ritorno”, ad aver rappresentato una delle maggiori influenze del titolo di Visceral Games.
Ma Dead Space non è solo il terrore in quello spazio profondo dove nessuno può sentirti gridare, non è esclusivamente una presenza aliena e predatoria nel contesto di una nave angusta e dotata di una propria anima squisitamente malvagia (tra pannelli di controllo che smettono di funzionare, luci che saltano nel momento giusto, porte che si chiudono e si aprono a piacere, quasi come se facesse tutto parte di uno schema calcolato e a noi ostile). No, Dead Space è riuscito a costruirsi una sua identità. Una di quelle forti, e che va ben oltre l’essere una semplice somma delle influenze che hanno ispirato il team di sviluppo. Nei tre capitoli assistiamo ad una narrazione che poggia su un sotto testo fatto di una realtà suggestiva e credibile: il pazzesco bestiario di xenomorfi, il culto suggestivo e morboso di Unitology, l’estetica squisita degli insediamenti umani sparsi per la galassia, degli attrezzi trasformati, per necessità, in armi letali, a partire dalla tuta R.I.G. Ma anche una giocabilità irresistibile, un third person shooter horror che va oltre il semplice ed inflazionato “spara alla testa dello zombie, ricarica e ripeti”: dove ogni xenomorfo è un bersaglio frenetico da vivisezionare, squartare e sbudellare; dove o si coordinava il plasma cutter alle abilità di Isaac, a partire dalla stasi, e si faceva tutto questo sfruttando in modo ottimale l’ambiente circostante o si crepava, e pure in malomodo. Tutte cose che ci mancano alla follia. Ma mai dire mai: Visceral Games è morta, ma l’IP rimane nelle mani di Electronic Arts. Chi sa, magari in futuro l’ormai iconico casco di Isaac Clarke farà la sua comparsa in un teaser, direttamente dal palco di una E3 del futuro. Se così sarà, cara EA, lascia stare gli stravolgimenti puramente action del terzo. Regalaci nuovamente un titolo che abbia tanta azione quanto è la paura. Oggi giocare a qualcosa del genere è sempre più difficile, ed è un gran peccato.
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