Nel medium dell’intrattenimento attuale, a cui – lentamente – ci stiamo abituando con qualche fatica durante questi ultimi anni, si sono formate una sorta di regole tacite a cui, in qualche modo, bisogna sottostare.
In particolare per quel che concerne la sfera ludica, il passo che separa il successo dal fallimento è diventato spaventosamente breve, anche a causa di un’autoproclamazione a esperti videoludici e critici del settore non esattamente sempre a fuoco da parte di fin troppe persone, un “nuovo” modo di approcciarsi al nuovo che avanza che, di fatto, non ha giovato e non sta giovando a tutta l’industria. Un prodotto, buono, mediocre o scadente che sia, passa dunque – inevitabilmente – sotto il torchio di forse troppe mani diverse, che nella maggior parte dei casi riescono ad alterare il giudizio della comunità o, comunque, centrano quel poco invidiabile bersaglio di caricare di aspettative (future, presenti o mancate) anche ciò che avrebbe in realtà ricoperto un ruolo fondamentalmente minore nell’ecosistema di appartenenza.
È chiaro, in ogni caso, quanto tutto questo sia legato all’importanza mediatica del brand – o dei brand – nello specifico, la cui diversa risonanza ha, da sempre, rivestito un ruolo predominante nella comunicazione e automaticamente nella sempre più longeva e diffusa pratica del “lasciateci parlare”. E, in tutta onestà, se c’è un brand capace di far parlare di sé quello è sicuramente Fallout che, andando ad analizzare gli ultimi anni di questa generazione di console, non ha di certo saputo fare incetta di encomi.
La motivazione è molto facile da individuare e si racchiude non soltanto nel mezzo passo falso compiuto con Fallout 4 (ma qui andiamo più indietro con gli anni) ma anche e soprattutto con quello che, almeno fin ad oggi, è considerato uno dei buchi nell’acqua più profondi di Bethesda: Fallout 76.
Il sottoscritto, invero, all’epoca, ha trascorso in Appalachia tanto tempo, forse troppo, in qualche modo convinto che qualcosa di buono in mezzo a un mare di niente ci fosse, eccome, rimanendo però con questa sensazione, divenuta velocemente soltanto una fulgida speranza, che via via ha iniziato a sbiadire sempre di più, portando ad un abbandono praticamente definitivo della produzione.
La voglia latente di tornare per la strade contaminate della nuova location, cornice perfetta – ma mai veramente sfruttata a dovere – di un nuovo che avanza incapace di affermarsi appieno e soprattutto di convincere il prossimo, non si è spenta del tutto e, anzi, una piccola fiammella, di quelle che non vedi e non senti, ha saputo resistere alle intemperie, rimanendo miracolosamente accesa, al netto di tutto.
Perché, diciamoci la verità, Fallout 76, pur dimostrando anche nei periodi più “bui” di avere molto più da dire di quanto sembrasse, non ce l’ha fatta, diventando rapidamente uno dei peggiori esponenti di una generazione che di passi falsi – di dimensioni diverse – ne ha visti parecchi.
Per questo motivo, l’arrivo di Wastelanders, ci ha subito suscitato una voglia irrefrenabile di tornare a dare una possibilità al gioco, consapevoli però che un’eventuale (nuovo) passo falso, avrebbe distrutto definitivamente un progetto ambizioso ma mai veramente in grado di tenere fede alle aspettative. Wastelanders, per chi non lo sapesse, è una sorta di giuramento d’amore di Bethesda nei confronti della sua creatura e soprattutto nei confronti dei fan, rimasti sin troppo delusi da una formula ludica, sperimentata appunto proprio con il capitolo non canonico, sin troppo lontana dai dogmi sacri di una serie che nel corso degli anni ha saputo ergersi con forza come baluardo dei giochi di ruolo di stampo occidentale.
Con Wastelanders, infatti, Bethesda compie fondamentalmente un gigantesco passo indietro sulle proprie intenzioni, abbracciando, o per meglio dire riabbracciando, uno stilema ludico molto più familiare sia per se stessa sia e soprattutto per i fan (ma anche per gli addetti ai lavori, non necessariamente due cose separate, s’intende) e lo ha fatto partendo dalla base, ossia riscrivendo praticamente in toto la struttura e la scrittura del gioco al fine di introdurre quello che tutti chiedevano a gran voce: gli NPC.
Sì, proprio loro, perché parliamoci chiaro, per quanto affascinante e innovativa potesse sembrare sulle prime, la mancanza totale di personaggi non giocanti con i quali rapportarsi, in un gioco simile, ha saputo farsi sentire in maniera continua e fastidiosa, un po’ come il gocciolio dell’acqua di un rubinetto stretto male, costringendo a tante metaforiche notti insonni anche il più accanito (ci viene da dire “sordo”, in questo caso) dei sostenitori.
Non è dunque un mistero se la rinascita del gioco passa proprio da qui, dall’abbandono quasi totale di una formula audace ma mai veramente apprezzata e soprattutto a fuoco a quella più classica e familiare, e lasciatelo dire sin da subito: Bethesda, con Wastelanders, sotto questo punto di vista ha fatto un centro bello pieno, cercando di venire incontro – a nostro modo di vedere riuscendoci – sia alle esigenze dei veterani sia a quelle dei nuovi arrivati.
Per poter giudicare al meglio quanto detto sopra, ci siamo calati sia nei panni dei nuovi arrivati in Appalachia (creando un nuovo personaggio e, dunque, rivivendo tutta la storia sin dal principio) sia continuando una partita già avviata, quella appunto, di cui vi abbiamo parlato in apertura, che vanta all’attivo centinaia di ore di gioco.
Proprio ripartendo da zero, ci siamo accorti in modo ancor più veritiero di quanto il gioco sia mutato, di quanto abbia giovato di una rivisitazione totale – o quasi – di quella che è l’infrastruttura generale, a partire dall’elemento più rilevante, ossia la costruzione di una storyline basata proprio sullo scambio lessicale con persone in carne e ossa. Le battute iniziali ci hanno sin da subito travolti per la qualità con la quale Bethesda ha saputo introdurre missioni e soprattutto personaggi non giocanti intriganti, ben realizzati, che ci hanno subito ricordato perché sentivamo così tanto la mancanza di una simile concezione di un videogioco, indipendentemente dal genere di appartenenza.
Vagare per l’Appalachia per conto di Duchessa alla ricerca di un tesoro nascosto (e soprattutto di cui non si conosce nemmeno la reale esistenza), scontrandosi con una fazione di sanguinosi banditi con cui è possibile anche collaborare e allearsi, ci ha velocemente riportati indietro nel tempo, ma ci ha anche fatto sorgere spontanea nella nostra mente una domanda ben precisa: perché non fare tutto questo sin dall’inizio?
Inutile dire che la risposta ha un sapore agrodolce, giacché proprio le sensazioni positive scaturite da quello che, a conti fatti, è un semplice ritorno alle origini e non una rivoluzione hanno saputo dare alla produzione un peso specifico nettamente diverso, e soprattutto più in linea con le aspettative della vigilia. Ciò si respira a pieni polmoni (nonostante il momento non sia dei migliori, ricordatevi la mascherina) sia, come dicevamo poc’anzi, ripartendo da zero sia rispolverando il nostro vecchio abitante in esodo dal Vault, a cui Bethesda ha saputo dedicare una questline corposa e curata, degna dei bei tempi.
La linea di missioni in questione, dalla buona longevità e soprattutto sorretta da una scrittura finalmente all’altezza della fama della serie, ha il merito di portare su schermo dei momenti di puro godimento mai fini a se stessi, ma anzi impreziositi da un forte senso di appagamento dovuto in larga parte al modo in cui esse si collegano sia al personaggio da noi creato sia al vero e proprio “endgame”, una delle altre note dolenti della produzione.
I nuovi abitanti dell’Appalachia, infatti, con cui entreremo in contatto proprio grazie alla storyline coniata apposta per Wastelanders, diventeranno parte integrante della nostra vita quotidiana nella zona contaminata, con missioni e attività giornaliere capaci, in qualche modo, di tenere incollati allo schermo anche una volta raggiunti i titoli di coda. Ma non soltanto: in base alle nostre risposte e alle nostre peculiarità, il tutto può assumere forme e dimensioni diverse, con linee di dialogo che si generano in modo sempre diverso in base alle risposte, con ovvie conseguenze su tutto ciò che ne consegue anche in termini di endgame e di progressione complessiva. È proprio sotto questo aspetto che Wastelanders riesce a vincere su tutta la linea, ossia riuscendo a ridare a Fallout 76 quella potenza mediatica che fino a quel momento ha sì ricevuto, ma per ben altre ragioni.
Siamo, dunque, di fronte ad una svolta totale? La risposta, stavolta, è negativa, seppur non del tutto. I dogmi dell’infrastruttura generale del gioco, quei tratti da gioco survival e incentrato violentemente sul crafting e sulla ricerca ossessiva di materiali e oggettistica varia, non vengono messi da parte con l’arrivo di Wastelanders ma, anzi, si riversano anche nell’oceano di novità con cui Bethesda è riuscita a risollevare, anche se non totalmente, una produzione spaventosamente avviata verso un baratro tanto profondo quanto inatteso.
Rimane quindi quel gunplay lento e macchinoso, rimane quella fastidiosa tendenza a imbastire con troppa frequenza fetch quest sin troppo vistose e utili soltanto in termini numerici, e rimangono anche i dubbi su come verrà mantenuto il tanto agognato equilibrio una volta completata la campagna.
Per fortuna, però, le buone notizie non sono ancora finite. Bethesda, infatti, non si è “limitata” a ritoccare la struttura generale del gioco, ma ha anche messo pesantemente mano al comparto tecnico e grafico del gioco, funestato in passato da una moltitudine di problematiche di diversa natura. Pur rimanendo ancorato ad un motore grafico pesantemente inadeguato coi tempi correnti, l’Appalachia rimodellata per Wastelanders è decisamente più bella, più “pulita” e con meno problemi sotto il profilo della stabilità generale, riuscendo anche sotto questo aspetto a donare al gioco una seconda vita.
Molto buono è anche il doppiaggio italiano dei nuovi NPC: la resa degli attori scelti è sicuramente molto gradevole e a fuoco ma non riesce a sfuggire alla dura legge del pareggio che sembra accompagnare la produzione sin dai suoi albori. Il missaggio audio è infatti tutt’altro che idilliaco e in alcuni passaggi le tracce vocali sono completamente inascoltabili. Niente di grave, certo, e soprattutto nulla che possa in qualche modo compromettere il mezzo miracolo compiuto da Bethesda, capace, da buon necromante, di resuscitare qualcosa di morto, o quasi. Ma attenzione: la strada è ancora lunga e per poter finalmente uscire dal tunnel Fallout 76 ha bisogno di ancora parecchia luce.
INFO UTILIHo provato la corposa espansione Wastelanders su Xbox One X, riprendendo sia la mia vecchia partita sia creando un nuovo personaggio per rigiocare le fasi iniziali col nuovo aggiornamento del gioco.
Durata- Quindici ore circa per completare la nuova questline
- Endgame ancor più ricco che in passato, capace di aumentare enormemente la longevità del titolo
Struttura- Il ritorno alle "origini" della serie dona al gioco una progressione più lineare e conosciuta ma non per questo meno interessante, tutt'altro.
Collezionabili e Extra- Nuovi trofei, obiettivi e achievements legati alle novità introdotte
Scheda Gioco- Nome gioco: Fallout 76
- Data d uscita: 14 Novembre 2018
- Piattaforme: PC, PlayStation 4, Xbox One
- Lingua doppiaggio:
- Lingua testi:
Per fortuna, comunque, il percorso intrapreso sembra essere quello giusto e Wastelanders potrebbe essere soltanto il primo step verso una risalita ormai insperata.
Seppur ancor flagellato da un motore grafico non al passo coi tempi, il lavoro di restyling sul fronte tecnico, almeno su One X, si fa sentire tutto.
Molto buono, come al solito, il comparto sonoro, a metà tra musiche memorabili e un doppiaggio (anche in lingua italiana) espressivo e funzionale. Peccato per qualche svarione sul fronte del missaggio, ma nulla di clamoroso.
Gli NPC e le nuove questline donano una profondità ludica nettamente diverse alla produzione, ancora però troppo legata a meccaniche discutibili e da un gameplay (soprattutto il gunplay) lento e ingessato. Le premesse ci sono, insomma, ma ne riparleremo più avanti!
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