Editoriale di gmg215
Esprimere un giudizio sui giochi della software house Quantic Dream è estremamente complicato: non affondano le loro radici in alcun genere videoludico in particolare e, allo stesso tempo, non hanno indotto un’affannosa corsa all’imitazione, così come è stato invece per i giochi Souls.
Sono prodotti autoreferenziali per eccesso di originalità e, come spesso accade in questi casi, sono la materializzazione priva di filtri della visione di un autore, David Cage.
La recentissima uscita di Detroit: Become Human ha riacceso i riflettori su Quantic Dream: il nostro Antonio Fucito ha pubblicato qui su Gameplay Cafe la sua recensione. Mi preme dunque chiarire, fin da subito, che questo articolo non ambisce a sovrapporsi a quest’ultima: non esprimerò un altro (l’ennesimo) giudizio in termini assoluti sulla storia della convivenza fra uomini e androidi. Piuttosto, parlerò in termini esclusivamente relativi: traccerò un parallelo fra Detroit e Heavy Rain, esprimendo ed argomentando i motivi per cui, secondo me, il secondo rimane un gioco superiore sotto quasi tutti gli aspetti, ad eccezione di quelli strettamente tecnici. L’articolo, dagli intenti quanto più lontani possibili dal fare polemica (ribadiamolo, ma è scontato), analizza singolarmente alcuni aspetti di gioco, evidenziando somiglianze e diversità.
Narrativa: stessa struttura, diversa scala
All’epoca della sua uscita, nel 2010 su Playstation 3, Heavy Rain regalò immediatamente le luci della ribalta a Quantic Dream: per struttura e conduzione narrativa, rappresentava una novità assoluta. Il gioco, infatti, presentava l’intreccio delle vicende di quattro personaggi coinvolti, a titoli differenti, nella caccia al killer dell’origami: un assassino seriale di bambini.
La caratteristica più peculiare era indubbiamente la possibilità di evoluzioni molto differenti nella storia di ciascun personaggio e, di conseguenza, la presenza di un cospicuo numero di finali alternativi. Drasticamente alternativi: a seconda delle azioni del giocatore, alcuni protagonisti potevano morire (anche ampiamente prima della fine del gioco), oppure il killer poteva svignarsela a piede libero mentre un innocente veniva imprigionato al suo posto. Insomma, un’autentica storia interattiva dove il libero arbitrio veniva integrato nelle meccaniche di gioco.
Detroit costruisce su queste fondamenta: ci racconta le vicende di tre androidi, Connor, Markus e Kara, in un futuro prossimo in cui la convivenza tra uomini e macchine si rivela complicata assai. Anche in questo caso, è la volontà del giocatore a sterzare la storia in direzioni molto differenti fra loro: tale flessibilità dell’impianto narrativo viene formalizzata attraverso le flowchart. Presenti alla fine di ciascun capitolo, questi diagrammi riportano tutte le possibili ramificazioni degli eventi, segnalando le decisioni gerarchicamente più importanti e riportando il percorso ottenuto dal giocatore.
Sebbene la narrazione segua in ambo i casi la medesima formula, ovvero un intreccio di storie apparentemente slegate che iniziano ad orbitare verso un punto di interesse comune, la scala narrativa non potrebbe essere più diversa. Heavy Rain racconta il microcosmo di un padre che cerca suo figlio scomparso, Detroit dipinge il macrocosmo della dualità fra creatori e creati.Nel primo caso, al netto di un incipit alquanto familiare, non vi sono particolari riferimenti culturali da scomodare, mentre nel secondo vi è l’intero filone della letteratura (e della cinematografia) fantascientifica a fungere da riferimento e paragone. L’eventualità che una specie sintetica sviluppi una sorta di coscienza collettiva, come parte naturale della sua evoluzione, è una tematica classica della fantascienza. Anche nei videogiochi vi è un precedente: nella serie Mass Effect la razza dei Quarian deve affrontare la ribellione dei Geth, macchine da loro create.
La sceneggiatura di Detroit affronta queste grandi tematiche con una certa superficialità e, in parte, soccombe sotto il peso della sua ambizione: i soli dialoghi e le poche prime pagine di giornale, da leggere in mezzo alle scene, non sono uno spazio sufficiente per sviluppare riflessioni complesse, come la fantascienza richiederebbe.
Sicuramente, anche Heavy Rain non è esente da difetti di tipo narrativo: in molti hanno segnalato la presenza di qualche situazione improbabile, oppure di un particolare “buco” che interrompe momentaneamente la sequenza logica degli eventi. Tuttavia, si tratta di carenze circoscritte, non criticità sistematiche: le prime avrebbero potuto essere limate in fase di sviluppo, le seconde avrebbero richiesto un radicale ripensamento della sceneggiatura (e anche questo, forse, non sarebbe bastato).
Ambientazione: soggettivo contro oggettivo
Heavy Rain non si confronta con questioni di portata globale: l’attenzione viene posta sulla psicologia interiore dei personaggi. Il mondo di gioco viene filtrato attraverso la percezione sensoriale dei protagonisti: si tratta perciò di una rappresentazione altamente soggettiva. Ad esempio, se Ethan (uno dei protagonisti, padre del bambino scomparso) ha paura o è nervoso, le sue opzioni di dialogo appaiono tremolanti.
La narrazione, pertanto, risulta molto incisiva poiché non solo proietta il giocatore in mezzo all’azione, ma lo accoglie nella psiche dei personaggi.
In Detroit, la commistione fra percezione ed ambientazione è meno viscerale e, di conseguenza, per lunghi tratti la narrazione pende verso l’oggettività. Ciò è assolutamente coerente con la premessa che i protagonisti siano androidi: come tali, essi “ricevono” il mondo sotto forma di input da elaborare e reagiscono secondo pattern comportamentali pre-implementati.
Inevitabilmente, risulta più difficile individuare una cifra stilistica chiara in Detroit: sono attenuati i toni cupi e noir di Heavy Rain ma, allo stesso tempo, l’ambizione all’epicità non trova riscontro nella sceneggiatura, come sottolineato in precedenza.
Questo dualismo fra soggettivo ed oggettivo si materializza anche nelle meccaniche di gameplay: in Heavy Rain era possibile avere accesso in ogni momento ai pensieri dei personaggi, per decidere il corso di azioni da adottare; in Detroit è possibile scannerizzare l’area in cerca di indizi ed oggetti (peraltro debitamente indicati, nella maggior parte dei casi a scapito della suspence).
Ritmo: frenesia contro lenta progressione
Abbiamo ribadito che la scacchiera di Detroit è molto più vasta di quella di Heavy Rain: muovere le pedine, perciò, richiede più tempo. La storia si espande su un numero cospicuo di capitoli e, fra questi, ve ne sono alcuni in cui il livello di tensione si abbassa e consente al giocatore di rifiatare. Heavy Rain, d’altro canto, è una corsa contro il tempo: i bambini vittima del killer dell’origami vengono trovati morti a distanza di pochissimi giorni dalla scomparsa, pertanto la caccia all’assassino si consuma con frenesia. Quasi ogni scenario, ad eccezione di quelli antecedenti al rapimento, è pervaso dalle sensazioni di angoscia e pericolo. Ciò è accentuato dalla presenza di moltissimi orologi, disseminati nel mondo di gioco: tali oggetti sono fondamentali perché alcune scene sono cronometrate. In tali situazioni, il giocatore può osservare le lancette e, o scegliere il momento esatto in cui compiere un’azione, oppure capire quanto tempo gli rimanga prima che un altro evento porti la scena a conclusione. Al limite, il gioco accetta anche un atteggiamento completamente passivo da parte del giocatore: si può scegliere (anche se è fortemente sconsigliato) di far passare il tempo senza fare nulla e la storia proseguirà comunque (con esiti diversi, ovviamente).
Tale inglobamento del tempo effettivo di gioco nel gameplay (al di fuori dei filmati interattivi) risulta, a mio parere, una caratteristica fantastica dei giochi Quantic Dream che, tuttavia, viene sfruttata solo parzialmente in Detroit.
Personaggi: gerarchia contro uguaglianza
Tra le tre storie di androidi, è probabilmente quella di Kara ad assomigliare maggiormente ad Heavy Rain. Tuttavia, il suo filone narrativo risulta periferico rispetto al cuore narrativo di Detroit: nell’economia globale del gioco, Kara può essere ritenuta una pedina sacrificabile e ciò permette agli sviluppatori di porla in situazioni di pericolo pressoché ininterrotto.
La medesima cosa non può essere detta di Markus, personaggio vitale per il compimento della storia: egli non è sacrificabile, pertanto non vi sono minacce sostanziali nel suo cammino e la sua storia ha un ritmo più pacato. In questo senso, la storia di Connor, che indubbiamente gode della migliore sceneggiatura dell’intero gioco, si pone nel mezzo: non posso dettagliare oltre senza incappare in spoiler rovinosi, pertanto non aggiungo altro.
Risulta quindi evidente la struttura gerarchica dei personaggi di Detroit: essa scaturisce come effetto collaterale del fatto che il gioco abbia un finale, per molti aspetti, prestabilito. Precisiamo: non finale inteso come esito, quello dipende sempre dalle scelte del giocatore, bensì come scenario al quale si arriva nonostante tutto.
Ciò non è altrettanto vero per Heavy Rain: essendo il finale più aperto di quello di Detroit (e potenzialmente meno soddisfacente!), vi è più margine per trattare tutti i protagonisti in maniera egalitaria e per accettare l’imprevedibilità delle loro azioni.
Comparto tecnico: grafica e sistema di controllo
Dal punto di vista strettamente tecnico, Detroit segna un notevole passo avanti rispetto ad Heavy Rain. Non solamente la grafica è all’avanguardia, e ciò è comprensibile considerando i quasi otto anni di distanza ed il cambio di piattaforma, ma il sistema di controllo e di gestione delle telecamere risulta notevolmente migliorato. Si è fortunatamente superata la legnosità del titolo PlayStation 3, che risultava francamente fastidiosa, vista anche la natura frenetica delle scene di cui si è parlato poc’anzi.
Non estenderò il mio paragone al comparto musicale, semplicemente perché da sempre è un punto di eccellenza dei titoli Quantic Dream.
In conclusione
Come premesso fin dal titolo, a mio avviso Heavy Rain esce vincitore dal confronto con il suo successore. Si tratta si un gioco più coeso: narrativamente e stilisticamente più incisivo. Indubbiamente Detroit è un’opera più ambiziosa, ma la sua vocazione viene parzialmente tradita dalla sceneggiatura e, soprattutto, non si sposa alla perfezione con le peculiarità delle meccaniche di gioco proposte.
Detto questo, non posso che esprimere apprezzamento per l’originalità di Quantic Dream: sia Detroit che Heavy Rain sono giochi che non dovrebbero mancare nella libreria dei possessori di Playstation 4.