Non tutti i Pesci d’Aprile si rivelano fasulli. Ecco quindi che, qualche giorno dopo la fatidica data di inizio mese, Ron Gilbert rivela di essere effettivamente al lavoro su un sequel diretto della saga Monkey Island con protagonista l’aspirante pirata Guybrush Threepwood. Ponendosi come timeline alternativa ai capitoli usciti negli ultimi 30 anni, questo Return to Monkey Island sarà ambientato immediatamente dopo la fine di Monkey Island 2.
Il motivo che ha smosso i cuori di tanti appassionati di vecchia data è che, per la prima volta dal 1992, si riunirà buona parte del team di sviluppo originale: oltre al già citato Ron Gilbert, storico game director, ritorna anche lo scrittore Dave Grossman, mentre mancherà l’ultimo del terzetto, Tim Schafer, autore della serie Psyconauts.
Tuttavia, mettendo da parte l’aspetto emotivo di chi si è avvicinato ai videogiochi anche grazie alle storiche avventure grafiche di inizio anni ’90, è giusto chiedersi dove si colloca Monkey Island nell’universo videoludico contemporaneo: vediamo di ragionarci assieme.
Attualmente siamo in un periodo di sovraffollamento di open-world, impegnativi dal punto di vista dell’investimento di tempo. Quest’attenzione alla quantità più che alla qualità, che si manifesta sotto le spoglie di quest ripetitive piuttosto che di mondi dalle dimensioni esagerate, è paradossalmente terreno fertile per un ritorno dei giochi più contenuti, focalizzati sulla brillantezza della scrittura e sulla caratterizzazione di personaggi e luoghi.
Non sarebbe pertanto astruso, se Monkey Island riuscisse a fare breccia nel mercato di chi cerca un gioco per intrattenersi una decina di ore, senza dover impegnare tutte le sere di una settimana per dei mesi.
D’altra parte, il gameplay non sembra essere in grado di trovare un compromesso fra la sua natura immutabile ed i gusti del giocatore odierno. L’ultimo gioco di Ron Gilbert, Thimbleweed Park del 2017, presentava infatti un’interfaccia ed un sistema di comandi pressoché identico a quelli dei Monkey Island, come se oltre 25 anni non fossero mai passati. Naturalmente non si tratta di una critica, quanto della presa di coscienza di un fatto: è improbabile, sebbene non tecnicamente impossibile, che la nuova avventura di Guybrush Threepwood sia revisionista della propria formula di gioco.
Tra l’altro, essendo le principali meccaniche del gioco legate al motore grafico, una revisione delle suddette comporterebbe un serio lavoro di rinnovamento del comparto tecnico che potrebbe essere oltre le intenzioni di Return to Monkey Island. Infatti, fin dallo storico SCUMM Engine, scritto originariamente per Maniac Mansion nel 1987, il sistema delle azioni (“prendi”, “esamina”, “usa”, …) è un elemento intrinseco del gioco e, a meno di utilizzi particolarmente fantasiosi, si tratta di un sistema abbastanza statico. Non siamo dispiaciuti, ma non ha senso avere aspettative esagerate a riguardo.
L’attenzione ad alcuni elementi del game design potrebbe aiutare Monkey Island a spiccare persino nel panorama odierno. Ad esempio, è noto che la filosofia di Ron Gilbert e colleghi non preveda la morte del protagonista. Quest’ultima viene vista infatti come un fallimento di design, ovvero una situazione che si può risolvere solamente chiedendo al giocatore di rifare le cose in maniera differente.
Un altro elemento che può essere soggetto di una rilettura moderna è il combattimento sulla base di insulti. Questa meccanica iconica del primo capitolo, in cui una delle tre prove per divenire pirata è proprio sconfiggere il Maestro della Spada, potrebbe rappresentare una variante sul tema ignota o quasi ai videogiocatori “medi” degli ultimi venti anni. In altre parole, Monkey Island ha la possibilità di riproporre alcuni dei suoi cavalli di battaglia ad un pubblico nuovo, ambendo ad ottenere la stessa reazione entusiasta che ebbe tanti anni fa con noi.
Un punto decisamente controverso delle avventure grafiche di accezione classica è la possibilità di rimanere bloccati su enigmi per giorni e settimane. Terminare i Monkey Island senza sbirciare delle soluzioni è, senza mezzi termini, un’impresa difficile e ciò potrebbe tenere alla larga i potenziali nuovi adepti oppure i giocatori “bulimici” alla ricerca della massima soddisfazione col minimo tempo e sforzo. D’altra parte, limitare complessità e fantasia degli enigmi sarebbe sia uno smacco agli affezionati di lunga data, sia un indebolimento strutturale dello scheletro delle avventure grafiche in cui risolvere indovinelli rappresenta il gameplay loop basilare. La speranza è quella che gli autori riescano a trovare delle soluzioni ludo-narrative scanzonate e bislacche, in grado di catturare l’attenzione di vecchi e nuovi fan.
Rimanere bloccati per giorni era parte integrante delle avventure grafiche, ma oggi sarebbe accettata questa difficoltà?
Sarebbe naturalmente fantastico se Return to Monkey Island avesse una rivisitazione moderna dell’iconico tema del titolo. A far ben sperare, c’è la notizia che il team di compositori originale fa parte anch’esso dello sviluppo di questo sequel dal pedigree impeccabile. Sarebbe altrettanto entusiasmante se il nuovo titolo integrasse il parco personaggi della saga, oppure mostrasse altre scene iconiche con protagonisti folgoranti quali Stan il venditore, il cattivissimo Lechuck oppure la signora esperta di Voodoo.
Siamo tutti entusiasti di Return to Monkey Island perché non abbiamo nulla da perdere. Se, come si spera, si trattasse di una brillante riproposizione di una vecchia gloria, avremmo un altro bel gioco da giocare. Nel caso contrario, potrebbe trattarsi di un’ottima scusa per riscoprire gli storici primi due capitoli.
L’aspettativa è quella di un prodotto ben pensato e non semplicemente nostalgico ed autoreferenziale: il world building non deve ricominciare da zero, ma il gioco deve funzionare sulle sue gambe perché sono passati quasi trent’anni e, a dispetto delle nostre migliori intenzioni, noi giocatori siamo cambiati molto. Speriamo bene.
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