Ci avviciniamo ormai a un anno esatto da quando l’emergenza coronavirus ha trasformato il mondo. Dodici mesi nei quali le nostre abitudini più radicate sono state messe in discussione. Dallo smart working per gli impiegati alla didattica a distanza per gli studenti, dalla rinuncia ai momenti di interazione con amici e parenti alla perdita delle serate a cinema, teatro o concerti. Per molti di noi, l’unica finestra sul mondo è stata rappresentata dal mondo digitale. Computer, smartphone e console per videogiochi hanno consentito di rimanere in contatto con i conoscenti e di evadere da una realtà che ci teneva chiusi in casa e ci bombardava di notizie preoccupanti.
Come riportato da più fonti, anche il tempo dedicato ai videogiochi è cresciuto in modo sensibile. Diverse classifiche e resoconti hanno indicato un aumento delle vendite digitali e della quantità di ore trascorse davanti alle console e al PC. Una tendenza che si affianca a quella legata alla fruizione di serie TV, o in generale alla permanenza sui social network, ma sulla quale il New York Times ha deciso di puntare il dito con uno speciale. In particolare, l’articolo pubblicato un paio di giorni fa tira in causa bambini e ragazzi, i quali avrebbero aumentato a dismisura il tempo riservato alla vita digitale, a discapito delle relazioni e delle attività fisiche.
Il fenomeno si spiega da solo, ma l’articolo porta come esempio quello di alcuni genitori preoccupati per le tendenze dei propri figli. Sembra che molte delle regole e delle restrizioni imposte all’uso di console e smartphone siano state allentate nel corso dei vari lockdown e che per molti si sia raggiunto un punto di non ritorno. Gli stessi psicologi intervistati dal New York Times avvertono che il cervello dei più giovani è in continua evoluzione e adattamento. Tornare ai ritmi lenti della vita reale dopo essersi assuefatti alla frenesia e al continuo sistema di ricompensa dei videogiochi potrebbe rappresentare un ostacolo insormontabile.
Si arriva pertanto a suggerire di spegnere il Wi-Fi dopo le ore di didattica a distanza, per eliminare la tentazione di attaccarsi a telefono o PC/console. Si arriva persino a negare, anzi a demonizzare, la funzione catartica del videogioco, quando questo viene usato come mezzo di evasione per superare momenti di difficoltà o di stress. Le conseguenze che si paventano sono le stesse di cui si è sentito parlare spesso in passato: ansia, depressione, obesità e aggressività. Oltre alla vera e propria dipendenza, s’intende.
Senza entrare nel merito, in quanto non possiamo sostituirci agli psicologi, possiamo comunque porre alcune obiezioni. Fermo restando che un ricorso al mondo digitale è quanto meno comprensibile, viste le restrizioni che sono in atto in tutto il mondo e che hanno colpito in modo particolare i più giovani, evitarne l’abuso farebbe parte del ruolo dei genitori. Allentare i controlli sul tempo concesso al gioco e ai social non significa abolirli del tutto, ma esiste sempre una via di mezzo. L’impressione è quella che, come avviene spesso, si cerchi di demonizzare i videogiochi in modo pregiudiziale. Sarebbe interessante, infatti, analizzare il tempo dedicato dagli adulti ai social network e ai vari servizi di streaming video e capire se anche questo non potrebbe sfociare in una dipendenza.
La discussione resta aperta e probabilmente non avrà mai un esito definitivo. Esito che ci auguriamo possa arrivare per la pandemia mondiale, in modo che tutti possano tornare a incontrare persone reali e possano riservare i videogiochi per semplici momenti di svago. Che tanto, lo sappiamo, verranno criticati comunque…