C’era una volta un tempo in cui il mercato dei servizi di streaming era dominato da un unico nome, lasciato quasi a sé stante perché pioniere di un modo di fruire l’intrattenimento ancora poco compreso dall’industria. La situazione non poteva ovviamente durare a lungo; nell’imminente guerra a colpi di esclusive, serie originali e contenuti su licenza, Apple, Amazon, Netflix, Disney e Warner Bros/HBO si sfidano su un campo di battaglia dai risultati tutto meno che scontati.
In questa prospettiva, Amazon con Prime Video sembra puntare il tutto per tutto su qualità e fidelizzazione, approfittando della maggiore accessibilità vantata dalla sua piattaforma. Good Omens, Homecoming, American Gods, The Man in the High Castle, la mossa audace (ma avventata e messa subito da parte) di Too Old to Die Young e il più recente The Boys sono la maggiore dimostrazione dell’impegno costante della compagnia di Bezos nel voler coprire il fertile sbocco della serialità on demand che tanto abbraccia un’utenza vasta ed eterogenea. In questa offerta sempre più competitiva e sorprendente si inserisce quindi Carnival Row, una produzione che fa dell’impegno sociale e politico la sua rampa di lancio per sovvertire il genere fantasy in un twist specchiante il contemporaneo.
Laddove certo i nomi del cast di questa nuova creatura di Amazon – Orlando Bloom e Cara Delavigne, tra questi – potrebbero essere fattore essenziale nell’attrarre un folto pubblico, è l’immaginario messo in piedi a rubare la scena, un mondo che forse sarebbe stato ancora più valorizzato con una scrittura più fresca e libera dai dettami dei successi del genere.
Ribadiamo, Carnival Row è una produzione che fa del world building il suo nucleo centrale. Ci troviamo nella Repubblica di Burgue, o meglio, nella sua omonima capitale; in un costante parallelismo con realtà storiche recenti, le prime battute della sceneggiatura – tratta dallo script non commissionato A Killing on Carnival Row di Travis Beacham – illustrano sempre in maniera indiretta come la guerra tra la Repubblica di Burgue e le forze del Patto abbia finito per distruggere ogni residuo equilibrio geopolitico nel mondo della serie. Sconfitte le forze repubblicane, il Patto prende quindi possesso di Tirnanoc, un continente abitato da fate e creature fantastiche, obbligandole ad un esodo forzato per sopravvivere all’imminente sterminio.
Nel tentativo di risultare attuale Carnival Row sfocia spesso in una disamina caustica del panorama contemporaneo
Da questa premessa si muove quindi l’immaginario di Carnival Row, nome questo del quartiere più malfamato della città di Burgue, colmo di rifugiati come fate, fauni (qui chiamati puck), centauri e così via, visti con sdegno dalla popolazione umana e confinati a ruoli infimi nella scala sociale. Tutto questo vi ricorda qualcosa? Nel tentativo – riuscito – di risultare attuale, l’opera di Rene Echevarria e Travis Beacham sfocia non a caso spesso in una disamina caustica di un panorama quantomai reale, usando quanto di fantasy presentato come mezzo per portare su schermo temi impegnati e di forte dibattito politico.
Allo scopo dunque di coprire in maniera quanto più organica possibile un insieme quasi esplosivo di personaggi, ruoli ed ambienti sociali, Carnival Row sceglie non di concentrarsi esclusivamente sui due protagonisti, ma di espandersi a molteplici linee narrative e livelli di racconto, ognuno focalizzato ad una mira di esposizione diversa e tuttavia in qualche modo interconnesso ad un intreccio generale.
Il primo sostrato narrativo, nemmeno a dirlo, è quello della storia d’amore tra Vignette Stonemoss (Cara Delavigne di Suicide Squad) e Rycroft Philostrate (Orlando Bloom de I Pirati dei Caraibi e Il Signore degli Anelli), la prima fata di Tirnanoc, il secondo prima soldato durante la guerra con il Patto, poi ispettore una volta reduce. L’evoluzione della coppia – a cui è interamente dedicato in flashback un episodio su otto – non appare nulla di particolarmente originale, un po’ Paolo e Francesca dal V canto della Divina Commedia nella scintilla della relazione, un po’ Romeo e Giulietta nell’escamotage del sentimento impossibile, apparendo spesso per di più melensa (un momento nello specifico) e ridondante. Fortunatamente le interpretazioni di Delavigne e Bloom appaiono decisamente solide, se si tralasciano momenti di eccessivo istrionismo risalenti proprio all’episodio flashback, probabilmente il peggiore del pacchetto.
Su un piano parallelo per importanza troviamo l’avvicendarsi del turbinio politico in seno alla Repubblica, sull’orlo del collasso a causa di pericolosi sotterfugi di palazzo e della crescente tensione dovuta alla xenofobia degli abitanti verso i rifugiati. L’immenso Jared Harris (lo avete visto di recente come Legasov in Chernobyl) con una grande performance prende le vesti di Absalom Breakspear, cancelliere del regime parlamentare della Repubblica di Burgue e leader della fazione liberale della camera. Indira Varma interpreta invece Piety Breakspear, ruolo molto simile a quanto da lei già affrontato come Ellaria Sand in Game of Thrones. Prole dei due è il ribelle e indolente Jonah (Arty Froushan), che insieme alla affascinante Sophie Longerbane (Caroline Ford), figlia del leader dell’opposizione conservatrice, andrà a delineare le battute finali e le premesse della prossima stagione.
Agreus riassume in sé l’intero nucleo tematico e problematico della serie
Per ultima forse la sezione più riuscita (ma anche più didascalica), quella che vede centrali Imogen (Tamzin Merchant) ed Ezra Spurnrose (Andrew Gower), due nobili estremamente discriminanti verso il diverso costretti a trovarsi alle prese con il ricchissimo Agreus (David Gyasi), un puck (fauno) arricchito che si erge a riassumere in sé stesso l’intero nucleo tematico della serie. Come in verità l’intera scrittura della serie sempre ribadisce, presentando spesso punti di vista speculari, questioni come integrazione sociale, esodi, disparità economiche, xenofobia, estremismo religioso ed affini non possono essere riassunte in non contraddittori banali ed immediatamente risolutivi, ma solo in ottiche di ampio respiro che magari puntino il dito verso comuni nemici (impegno bellico e colonialismo) senza tuttavia incolpare esclusivamente l’ignoranza della massa. Agreus, nella sua crescita caratterizzata in parallelo a quella di Imogen, ribadisce a più riprese questa lezione dettata da una prospettiva smaliziata e distaccata, figlia di un’esistenza sofferta dove viene necessario strizzare un occhio al male.
Il dark fantasy della serie si piega ad un racconto intriso di colpi di scena e capovolgimenti di ogni tipo
Tornando però ora all’intreccio complessivo di Carnival Row, come dicevamo, questi tre macroinsiemi rilevano sul lungo periodo diversi collegamenti reciproci, per la maggior parte legati al principale mistero che tesse le fondamenta del motore degli eventi: una serie di omicidi terribili dove alla magia nera si avvicina l’intrigo politico e il dramma personale. A questo riguardo, nell’imitazione anche eccessiva di Game of Thrones (alcuni passaggi sono identici) e di quella particolare tipologia di produzione, il dark fantasy (molte volte intelligente) della serie si piega ad un racconto intriso di colpi di scena e capovolgimenti di ogni tipo, alcuni purtroppo ad un occhio attento ben prevedibili fin dagli episodi iniziali, non lesinando nemmeno sul sesso e sul macabro, qui entrambi presenti in grande abbondanza.
Manca, se questa era l’intenzione, la capacità di imitare quanto fatto dall’opera HBO nell’appassionare ai saliscendi di una politica fittizia, nel colpire di continuo lo spettatore e le sue aspettative nei confronti di personaggi fluidi sullo scacchiere del potere. Già a metà delle puntate infatti, se non prima, viene semplice ed immediato comprendere molte delle direzioni – tutte derivative e poco originali – dove il racconto andrà a parare. In più, andando a tendere un filo sempre più complesso attraverso i molteplici eventi, Carnival Row dimentica all’improvviso frammenti di storyline oppure ne rende alcuni in toto sconclusionati, dimostrando un passo più lungo della gamba nella stesura cerebrale di un’architettura tuttavia promettente in vista della futura stagione.
Al contrario quindi di questi pallidi tentativi di imitazione (compreso un timido sussulto di metanarrazione), Carnival Row in conclusione vince proprio quando vive di essenza propria, un’essenza disposta ad esplorare i meandri più torbidi, problematici e contraddittori del momento contemporaneo, per poi trasporli e trasfigurarli senza semplificazione attraverso una lente neo-noir che trasuda dark fantasy, estetica vittoriana e tracce steampunk.
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