Autore di grandi lungometraggi come Il sesto senso, ma anche di produzione mediocri come After Earth e L’ultimo dominatore dell’aria, M. Night Shyamalan si staglia senza ombra di dubbio come uno dei registi più divisivi dell’ultimo ventennio. Nonostante un successo decisamente altalenante e riscontri di critica spesso ben lontani dall’essere stellari, le pellicole di Shyamalan sono riuscite a ritagliarsi nel tempo un certo spazio all’interno dell’industria, complice una direzione atipica e sempre infarcita di incredibili colpi di scena.
Tre anni fa chi avrebbe potuto prevedere, dopotutto, l’enorme colpo di scena sul finale di Split? Un lungometraggio che avrebbe potuto tranquillamente confermarsi un thriller psicologico si rivelava invece cinecomic, andando ad inserirsi nello stesso universo narrativo di quella piccola perla visionaria e profetica che nel lontano 2000 era stato Unbreakable.
Un’inaspettata trilogia avviata quasi venti anni fa si conclude dunque oggi con Glass, terminando quello che possiamo a tutti gli effetti considerare uno dei progetti sperimentali più interessanti della recente storia del cinema. Mr. Glass (Samuel L. Jackson), David Dunn (Bruce Willis) e l’inquietante Kevin Wendell Crumb/Orda (James McAvoy) si trovano finalmente riuniti in un esperimento cinematografico pretenzioso ed impegnativo, purtroppo riuscito a metà nel tentativo forzoso di sintetizzare le formule antitetiche dei due capitoli precedenti. Prima di iniziare, vi ricordiamo che Glass sarà nelle sale italiane dal 17 gennaio.
Ambientato immediatamente dopo i fatti di Split e quindici anni dopo quelli di Unbreakable, Glass parte quasi in medias res, introducendo dopo pochi minuti il primo scontro tra Kevin (o meglio, la Bestia, una delle sue personalità n.d.r.) e David, con il secondo alla ricerca del primo a seguito del rapimento di altre quattro ragazze – ricorderete che tre furono rapite in Split, di cui due sbranate. Distratti dall’intenso combattimento, i due vengono infine arrestati dalle autorità e isolati nello stesso ospedale psichiatrico dove è rinchiuso in T.S.O. anche Elijah Price, AKA Mr.Glass. La situazione – innocua come una scatola di dinamite accanto ad un fiammifero – precipita velocemente e lo scontro tra i due nemici e l’eroe diventa inevitabile.
Glass risulta essere un’analisi psicologica estremamente sfaccettata della figura dei supereroi e delle loro convinzioni
Mantenendoci da ora su toni generali per evitare di fare spoiler, Glass risulta essere un’analisi psicologica estremamente sfaccettata della figura dei supereroi e delle loro convinzioni, giocando sulle loro origini – razionali o meno che siano – e confondendo lo spettatore con capovolgimenti di prospettiva continui e disorientanti. Se c’è una cosa difatti in cui Glass eccelle a pieno titolo, quella è proprio il suo continuo ingannare il pubblico, rendendolo partecipe della psiche dei tre protagonisti e facendolo dubitare delle proprie convinzioni, per poi stupirlo con potenti colpi di scena ben piazzati.
In ogni caso, sebbene la sceneggiatura si presti a moltissime forzature e metta a dura prova la sottile sospensione dell’incredulità, non è possibile affermare che Glass non stupisca o non intrattenga, pur rimanendo per lo più statico nella sua impostazione e molto meno action di quanto si possa pensare. L’introspezione di Unbreakable e la sottile riflessione sulla sofferenza di Split confluiscono qui in un messaggio finale stupendo, che tuttavia – bisogna ammetterlo – passa per soluzioni spesso pacchiane, assurde o palesemente forzate e non giustificate in scrittura. Inoltre, ad eccezione del finale, il ritmo fa fatica a decollare e l’azione raggiunge con difficoltà il suo climax, non trovando mai il giusto equilibrio tra linguaggi eterogenei che finiscono per cozzare l’uno con l’altro.
A dare vita al fitto intreccio sono ovviamente di nuovo Bruce Willis, Samuel L. Jackson e James McAvoy, mentre tornano a fare la loro comparsa – con gli attori originali – Casey Cook (la ragazza sopravvissuta di Split n.d.r.), la madre di Elijah e Joseph Dunn, il quale, ora cresciuto, si occupa di dare supporto logistico alle ronde del padre. New entry è invece la Dottoressa Staple, la psichiatra interpretata da Sarah Paulson e inaspettatamente centrale all’interno del racconto.
Più nel dettaglio, la performance di McAvoy nei panni di Kevin e le sue personalità si conferma del tutto straordinaria, rivelando una fluidità sconvolgente nel passare da una all’altra identità, ognuna interpretata con un’attenzione magistrale. McAvoy impressiona a tutto tondo: dallo sguardo infantile di Hedwig al severo e pragmatico Dennis, dalla deviata Patricia alla terribile fragilità dell’abusato Kevin originale, fino ad arrivare all’eccesso della ferale figura della Bestia. A fare da controparte ad un personaggio così istrionico si erge da una parte un Bruce Willis abbastanza fuori forma e in alcuni casi piuttosto fiacco a livello espressivo, dall’altra invece un Samuel L. Jackson brillante e ancora nel ruolo dopo venti lunghi anni.
Shyamalan prende a piene mani da quanto fatto in Split ed Unbreakable
Muovendoci ora su un piano meramente tecnico, il lavoro in regia di Shyamalan prende a piene mani dalle sequenze ansiogene di Split, integrandole con parte delle tecniche utilizzate in Unbreakable e con un parziale approccio d’azione ancora inedito per la trilogia. Ebbene, le prime due strade già rodate funzionano alla grande, concentrate come sono nella celebrazione di dialoghi serrati e caratterizzazione, con frequenti richiami simbolici, primi piani e sottili piani sequenza in grado di enfatizzare la partecipazione alla tensione della scena. All’opposto, le scene d’azione appaiono assolutamente imbarazzanti e vicine all’amatoriale per costruzione, non aiutate nemmeno da un montaggio confuso e ricco di errori in tutta sincerità assurdi.
In conclusione, Glass rispetta insomma alla perfezione la firma di Shyamalan nel suo saper guidare ed incantare la mente dello spettatore in una visione continuamente caleidoscopica, al servizio del colpo di scena e della sorpresa, non importa quanto pretenziosa essa sia. Una scrittura a tratti raffazzonata viene in extremis salvata da un finale splendido, laddove invece la regia d’azione si perde in movimenti maldestri e raffazzonati, non degni di una produzione di tale portata e caratura. Shyamalan ha avuto l’occasione per partorire un capolavoro; quello che ci troviamo davanti, di contro, è purtroppo solo un buon film, conclusione anticlimatica di una trilogia indimenticabile.