Il primo Matrix è stato il classico della fantascienza cyberpunk di fine millennio. Uscito nel 1999, quest’opera magna di due registi sconosciuti aveva tutti gli ingredienti giusti per diventare un film eterno nel suo genere: un hacker insonne e carismatico, un mondo sempre in bilico tra consapevolezza e illusione, una fascinazione per la cultura orientale, un gusto incredibile per le scene d’azione e la freschezza di una lore del tutto originale.
Dopo due sequel usciti nello spazio di tre anni, la serie è rimasta dormiente fino a queste settimane: il quarto capitolo Matrix Resurrections è infatti uscito nelle sale questo primo gennaio. Vediamo in questa recensione com’è andato il rientro nella matrice.
L’introduzione di questo quarto capitolo deve per forza iniziare dalla riapertura della conclusione netta della trilogia originale. Ecco dunque che Thomas Anderson / Neo (Keanu Reeves) è un rinomato game designer autore di … The Matrix. Questo escamotage metanarrativo serve a riportare il nostro anti-eroe al punto di partenza, ovvero immerso in una realtà verso la quale prova allo stesso tempo assuefazione e diffidenza. A scuoterlo da questa sorta di sonno della consapevolezza ci pensano un manipolo di persone già liberate dalla matrice capitanati da Bugs (Jessica Henwick) e da un altro volto sconosciuto ma familiare, del quale omettiamo il nome per motivi di spoiler.
L’incipit è quindi molto simile a quello del capostipite e, per svariati minuti, Resurrections tratta la propria natura metanarrativa con sufficiente leggerezza e originalità da non appesantire eccessivamente la visione. Del quartetto di attori originali ritornano solamente Keanu e Carrie-Ann Moss nel ruolo di Tiffany, ovvero Trinity ancora collegata alla matrice. Il copione si da parecchio da fare per sopperire all’assenza di Laurence Fishburne e di Hugo Weaving e, consentiteci di dire, sarebbe stato bello avere il ritorno della ciurma al completo sia da un punto di vista puramente nostalgico che narrativo.
Matrix da il meglio di se quando dirige i dialoghi lontano dai meri dettagli tipici di un film d’azione, ad esempio come un disperato piano di salvataggio debba funzionare a dispetto dell’essere stato definito “impossibile” o “una follia”, e si concentra sui massimi sistemi. Sentire i personaggi principali snocciolare ragionamenti su argomenti quali la percezione del reale o la libertà di pensiero ha ancora un fascino coinvolgente e tipico della saga. Scampoli di quest’ultimo fanno capolino in Resurrections, mantenendo vivo il sospetto che, sebbene le idee principali siano state già abilmente confezionate nel primo capitolo, un’abile sceneggiatura potrebbe giustificare la riesumazione della storia.
L’antitesi razionale a questo timido desiderio è rappresentato dalla consapevolezza che il capostipite era più un manifesto cyberpunk che un contenitore narrativo. In maniera non dissimile da Blade Runner, la principale ambizione del film era immergere gli spettatori in un mondo perfettamente caratterizzato, senza soffermarsi eccessivamente sulla trama intesa come susseguirsi di eventi. Da questo punto di vista, la ricreazione dell’immaginario nato dal Neuromancer di Gibson era originale e citazionista al punto giusto e, sicuramente, esaustivo già nel primo Matrix.
Uno dei punti di forza del primo Matrix era l’inventiva che animava tutte le scene d’azione, le quali, pur a distanza di molti anni, resistono al confronto con le moderne ostentazioni di CGI. Uno dei punti cardine era, per quanto possibile, realizzare nella realtà quello che veniva mostrato a schermo. Alla luce di questo principio, gli attori si sottoposero a un estensivo training di kung-fu (del quale Keanu Reeves ha fatto tesoro per il proseguo della sua carriera) ed armi. Resurrections non rettifica la cifra stilistica dei suoi predecessori, tuttavia non riesce a livello di regia ad iniettare nuova linfa in quell’immaginario ormai iconico.
Viene un po’ a mancare la solennità e il pathos con cui vorremmo entrassero in scena dei personaggi a noi cari: questo ovviamente non vuol dire che tutti i set piece nel film siano deludenti, tuttavia si tratta di un aspetto che più di altri soffre il confronto con l’originale. Vale la pena citare che alla regia ritroviamo ancora una volta Lana Wachowski, mentre non compare la sorella Lilly.
In conclusione, non siamo dispiaciuti che questo nuovo Matrix esista, sebbene nasca da una storia che pensavamo fosse finita molti anni fa. Forse la monotonia dei franchise usciti nell’ultima decade, tutti o quasi nati non come materiale originale ma come interpretazione cinematografica di qualcosa nato su un altro medium (sia esso libro o fumetto), ha fatto si che ci sia ancora oggi spazio per qualcosa di filosofico ed ancorato ad un immaginario fondamentalmente citazionista ma non derivativo.
Non ci esprimiamo, infine, nemmeno sulla possibilità di altri sequel che espandano l’universo di Neo: da certi punti di vista, si tratterebbe di un’eventualità essenzialmente metanarrativa.