Premessa doverosa, prima di addentrarci in questa recensione di Cowboy Bebop: se non conoscete l’opera originale di Shinichirō Watanabe, lo storico anime dal quale è tratto questo adattamento live action, potreste sentirvi paradossalmente molto fortunati. Lo siete perché, evidentemente, potrete godervi questa prima stagione dello show Netflix senza l’inevitabile, continuo e sfiancante paragone che ogni fan di vecchia data non potrà invece esimersi dal fare.
Il sottoscritto è purtroppo dall’altra parte della barricata perché nel lontano 1999, quando la serie veniva trasmessa per la prima volta sulla ormai defunta Mtv Italia, era un quattordicenne in fissa con anime, manga e videogiochi e le avventure di Spike Spigel e compagni si rivelarono ai miei occhi come l’instant classic che sarebbe poi diventato. Quel mix perfetto di umorismo e malinconia, di azione e riflessione e quell’accompagnamento jazz semplicemente perfetto.
Cosa avrebbe potuto dar di più, dunque, ai conoscitori ed estimatori di Cowboy Bebop, questa serie live action? Probabilmente poco e difatti, è innegabile la diffidenza con cui i tanti appassionati hanno accolto questo nuovo prodotto. Per questa recensione di Cowboy Bebop, tuttavia, ho davvero cercato di guardare i 10 episodi che compongono la prima stagione accantonando ogni perplessità e preconcetto. Purtroppo non è bastato e vi racconto il perché.
Per chi fosse vissuto oltre i bastioni di Orione negli ultimi trent’anni, Cowboy Bebop racconta la storia di Spike Spiegel e Jet Black, una strana coppia di cacciatori di taglie spaziali in un futuro non troppo lontano in cui l’uomo ha colonizzato il sistema solare. I due improbabili soci in affari, a bordo della nave di Jet (il Bebop, appunto), inseguono in lungo e in largo tutta una serie di improbabili criminali, spesso senza successo e senza incassare un centesimo. Ben presto al team si uniranno l’eccentrica Faye Valentine, una cacciatrice di taglie dal passato oscuro e il cane super intelligente Ein, esperimento da laboratorio che non disdegna la compagnia dei nostri.
In questa recensione spoiler free non mi è naturalmente concesso scendere in dettagli circa la trama generale dello show, sappiate tuttavia che non è il caso di aspettarsi una trasposizione iper fedele dell’anime ma che lo scrittore e produttore esecutivo Christopher Yost, già autore per The Mandalorian (qui la nostra recensione della seconda stagione), ha optato per una sincresi tra vecchio e nuovo. Una scelta che, con le dovute accortezze, probabilmente si sarebbe rivelata quella ottimale per attrarre tanto il nuovo pubblico quanto il vecchio ma che, purtroppo, si perde in tutta una serie di debolezze difficilmente perdonabili.
Quando c’è da fare sul serio Cowboy Bebop mostra tutti i suoi limiti, la sua assenza totale di catarsi
Come nell’opera originale l’orizzontalità della serie viene garantita dal riaffiorare del passato dei protagonisti, in particolare quello di Spike. Tuttavia il bilanciamento tra narrazione verticale dell’episodio e trama orizzontale di questa prima stagione è piuttosto mal calibrato, con una prima parte di stagione che indugia molto e una seconda parte di stagione in cui si getta fin troppa carne al fuoco forzando in malo modo alcuni passaggi narrativi.
Purtroppo i problemi non si fermano qui ma proseguono con una scrittura dei personaggi davvero povera e sciatta. Fatta parzialmente eccezione per lo Spike Spiegel di John Cho, i protagonisti di Cowboy Bebop non sembrano mai riuscire ad esprimere al meglio il loro potenziale, affogati in linee di dialogo spesso banali. Rispetto all’opera originale, infatti, c’è una verbosità eccessiva, che non lascia spazio ad una sincera introspezione psicologica. Questa funziona piuttosto bene quando il registro è quello della commedia action ma fallisce miseramente quando si entra nel campo del dramma. La situazione è persino peggiore per quanto riguarda antagonisti e personaggi secondari che finiscono per risultare patetici e ridicoli.
Non aiuta di certo un casting quantomeno rivedibile. E ci perdoneranno tutti coloro che “eh ma non è che devono essere identici ai personaggi dell’anime”, però qui il problema va ben oltre la somiglianza alle controparti animate. Il problema è che questi attori hanno più di qualche lacuna recitativa o, quantomeno, sono stati diretti molto male. In più sono stati agghindati come dei cosplayer brutti (alcune parrucche sono davvero terrificanti).
Si ha troppo spesso l’impressione di trovarsi di fronte ad una fan fiction dal budget più alto del solito
Cho come detto è il migliore del pacchetto e a lui, onestamente, una sufficienza piena gli va riconosciuta. Mustafa Shakir e Daniela Pineda sono rispettivamente un Jet Black e una Faye Valentine tutto sommato accettabili ma davvero privi di variazioni nel registro recitativo. Drammatici invece tanto il Vicious di Alex Hassel, stupidamente iracondo e privo di qualsivoglia carisma, quanto la Giulia di Elena Satine, nemmeno lontanamente paragonabile alla elegante, fiera e malinconica Giulia dell’opera di Watanabe e il cui personaggio viene trasfigurato in una sorta di frivola “pupa del boss” che francamente infastidisce. Molto bravo invece e di bella presenza l’interprete di Ein. Ok, scherziamo
Per carità sarebbe forse ingeneroso addossare agli attori la totalità di questa débâcle, ma sicuramente avrebbero potuto fare meglio, anche a fronte di uno script certamente rivedibile. Ci sono dei momenti nella seconda metà della stagione, quando gli eventi si dovrebbero fare teoricamente drammatici e le scene caricarsi di pathos, in cui si sfocia molto tristemente del cringe.
Anche da un punto di vista tecnico la serie non eccelle. Certo sicuramente restituire il feeling di un universo fantascientifico con un budget sicuramente non stellare non è cosa facile (vedi il non proprio eccellente Altered Carbon, per restare in casa Netflix), ma i limiti di una CGI di basso livello affossano il tutto sommato discreto lavoro fatto sulle scenografie.
In generale Cowboy Bebop è un prodotto molto altalenante sia sotto il piano della regia, sia sotto il piano della fotografia, sia per quanto riguarda compositing ed effetti speciali. L’impressione è che la prima parte della stagione, diciamo i primi cinque episodi, siano più curati e che qualcosa sia andato storto nella parte finale. Magari è semplicemente un caso o magari, come già detto, è quando la scrittura orizzontale comincia a perdere di consistenza che si fanno evidenti anche le magagne tecniche. Il dato che resta è che si ha troppo spesso l’impressione di trovarsi di fronte ad una fan fiction dal budget più alto del solito.
Persino le scene d’azione sono molto disomogenee in termini di resa e alcune funzionano anche piuttosto bene con coreografie curate (c’è in particolare un piano sequenza negli ultimi episodi che sembra quasi un omaggio ai celebri piani sequenza action del Daredevil di Netflix) mentre altre risultano forzate e posticce, specialmente quando qualcuno (non facciamo nomi) ha il vizio di cadere dai dirupi in maniera piuttosto ridicola.
Ovviamente rimane ottima la colonna sonora che ripesca quasi integralmente dall’opera originale ma l’assenza di “The Real Folk Blues” nel cuore di un appassionato pesa come un macigno.
Insomma questa recensione di Cowboy Bebop non può che chiudersi con una stroncatura. Il prodotto Netflix parte anche benino ma si perde sul più bello mancando di cogliere gli aspetti più introspettivi e forti dell’opera di Watanabe. Quando c’è da fare sul serio mostra tutti i suoi limiti, la sua assenza totale di catarsi. Questo Cowboy Bebop è un’altra cosa e probabilmente è pensato per un target più giovane o semplicemente meno “sofisticato”. Un Cowboy Bebop molto poco jazz e molto più pop da fast food. Un tradimento abbastanza completo dell’opera originale che fa strabuzzare gli occhi quando sui titoli di coda si vede il nome di Shinicirō Watanabe come consulente del progetto.
Se come me siete quindi fan della prima ora, c’è poco da fare, torniamo tutti insieme a riguardare gli episodi dell’anime, comunque disponibile su Netflix, nel loro rassicurante formato 4:3.
La prima stagione di Cowboy Bebop arriverà su Netflix il 19 novembre. Una seconda stagione? Purtroppo il rischio c’è.
See you space cowboy…
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Anche io nel lontano 1999 guardai l’anime che considero bello (l’ho già riguardato di recente su Netflix) ma non eccezionale. De gustibus. Invece parlando della serie, anche se si discosta dall’originale, l’ho trovata fatta abbastanza bene e molto al di sopra delle mie più rosee aspettative trattandosi di un live action, nonostante non avesse ad occhio il budget di The Mandalorian. Notizia di oggi è che Netflix non rinnoverà la serie per una seconda stagione. Occasione sprecata (imho).