Le Ebridi sono un gruppo di isole della Scozia occupate sin dal Mesolitico e presentano paesaggi mozzafiato. Artisti di ogni tipo sono rimasti affascinati da questo arcipelago e ciò ha ispirato le loro opere. Il medium videoludico non è da meno: i ragazzi di The Chinese Room hanno ambientato il proprio lavoro in una di queste isole, senza mai dichiarare apertamente il nome di essa. Il gioco nasce come una mod di Half Life 2, dal titolo Dear Esther, per poi venire sviluppato sul Source Engine e rilasciato commercialmente per PC nel 2012. Si tratta del walking simulator più conosciuto e che ha dato il via a un’ampia selezione di titoli indie dalle caratteristiche simili, soprattutto con riguardo alle meccaniche ridotte all’osso. Nel 2019, gli sviluppatori hanno annunciato una versione per iOS, grazie all’hardware ormai in grado di far girare modelli tridimensionali complessi e per permettere una fruizione in portabilità.
Dear Esther è un titolo estremamente semplice eppure complesso. Il videogioco presenta delle meccaniche essenziali: cliccando la parte destra della schermo è possibile ruotare la telecamera e scorrendo sulla parte sinistra si direziona il personaggio in prima persona. La coraggiosa scelta di non inserire enigmi è utile e funzionale alla narrazione, che rappresenta il fulcro del titolo. Dear Esther ci fionda in un’isola, vicino a un faro e si capisce sin da subito che bisogna muoversi per proseguire, senza necessità di interagire con gli oggetti. Il personaggio che controlliamo, un uomo in età avanzata a giudicare dalla voce, legge le lettere che ha scritto alla moglie, Esther, ormai deceduta. Quando il giocatore raggiunge nuove aree, il protagonista legge una nuova lettera, aggiungendo pezzi alla narrazione. La storia è costituita da dialoghi pungenti e drammatici, in cui il protagonista senza nome rivive attraverso i ricordi momenti difficili della propria vita e il giocatore, attraverso la propria fantasia, è in grado di immaginarli. La scoperta a piccole dosi di una vita che viene raccontata è possibile solo esplorando quell’isola in cui la natura si è data da fare e ormai abbandonata dalla civiltà, ma un tempo vissuta.
Purtroppo il gioco è disponibile con doppiaggio e testo in inglese, non fornendo su iOS (su PC sono disponibili i sottotitoli non ufficiali) la possibilità di godere di un’esperienza in italiano per chi mastica poco la lingua britannica. Tuttavia, l’adattamento sul dispositivo mobile è davvero impressionante, nonostante siano passati cinque anni dall’uscita della versione originale. I modelli tridimensionali realistici a primo impatto possono risultare invecchiati in malo modo, ma la cura per i dettagli fornita dal team di sviluppo permette di godere di ambientazioni spettacolari e giochi di luce che trasformano l’isola per far riscoprire luoghi già visti sotto una nuova veste. Il feeling con il touch screen è estremamente naturale e la fluidità del gioco e nei movimenti del personaggio rende l’esperienza realistica e consente di immergere a pieno il giocatore. Perdersi nelle grotte azzurre, tuffarsi nelle acque fredde e girovagare tra i prati mai tagliati è una caratteristica che aggiunge quella sensazione onirica alla narrazione, mantenendola sempre più stravagante. Il viaggio visivo e narrativo è accompagnato da una colonna sonora strepitosa che riesce perfettamente a immergere il giocatore. Infatti, l’artista Jessica Curry ha arrangiato le melodie di Dear Esther, Everybody Gone’s To The Rapture e altri titoli contraddistinguendoli da una delicatezza unica e magia impeccabile.
La mia è stata la prima esperienza con Dear Esther e posso trovarmi d’accordo con chi in precedenza l’ha definito “walking simulator”. Se l’appellativo viene utilizzato in senso dispregiativo, allora è necessaria una crociata contro tali che lo utilizzano in maniera sistematica. Sicuramente le meccaniche rimangono essenziali, non vengono presentati puzzle da risolvere, tuttavia un simulatore imita il più possibile la realtà. Ciò che i creatori hanno voluto realizzare con Dear Esther è la possibilità di raccontare una storia, una buona storia, attraverso un mezzo differente dal solito. Il puzzle da risolvere è fornito dalla storia stessa: proseguendo nell’esperienza vengono aggiunti pezzettini di storia che completano l’avventura dell’anonimo protagonista. In più, la possibilità di attraversare l’isola, l’isola che cambia, l’isola che muta è essa stessa narrazione che prende il giocatore, lo fa perdere tra grotte e spiagge, racconta attraverso l’esplorazione e i lunghi silenzi, per poi lasciarlo spiccare metaforicamente il volo. Prendere parte a questa breve ma intensa esperienza è significativo e da compiere almeno una volta nella vita per poter arrivare alla propria conclusione della storia.
La grafica realistica invecchia facilmente con il passare degli anni, tuttavia la cura per i dettagli voluta dal team di sviluppo ha permesso un'alta qualità e un'impatto visivo stratosferico.
Il voto alle melodie arrangiate da Jessica Curry sarebbe anche più alto, se non fosse che il doppiaggio (solamente in inglese), sicuramente buono, non brilla.
Il gameplay è ridotto all'osso, non presentando enigmi da risolvere, ma utile ai fini della narrazione.