Liquidare Hellblade: Senua’s Sacrifice come un’avventura horror in terza persona, fortemente narrativa e sviluppata sulla dicotomia tra fasi di combattimento all’arma bianca ed enigmi ambientali sarebbe tanto corretto quanto superficiale, dato che al centro di tutto c’è il tentativo di esplicitare interattivamente il disagio mentale delle persone affette da psicosi: un disturbo che compromette la percezione del piano di realtà con sintomi quali allucinazioni, bipolarità, schizofrenia e paranoia che ne vanno ad alterare l’equilibrio. L’analisi dell’ultima fatica di Ninja Theory, di cui è opportuno ricordare Heavenly Sword ed Enslaved: Odyssey to the West, non può allora prescindere da un approccio che tenga in considerazione il quadro generale, laddove il giudizio delle singole parti non giustificherebbe la qualità proposta, al contrario, dall’insieme.
La storia della protagonista, così essenziale nel suo ruolo di collante tra le diverse sezioni di gameplay, è uno dei misteri che si dipanano strada facendo; anche se ormai se n’è fatto un gran parlare ritengo che qualsiasi spoiler possa comprometterne la giocabilità, quindi non ne farò. Di base, però, il contesto è quello della Gran Bretagna a nord del Vallo di Adriano, costruito dall’Impero Romano dopo la metà del II secolo d.C. per impedire alle tribù autoctone, come quella dei Pitti di cui fa parte Senua, e ai vichinghi che arrivavano via mare dalla Scandinavia di irrompere nei suoi territori di conquista. Ninja Theory sfrutta questo aneddoto storico per delineare il profilo di una guerriera psicotica, lontana dalla cultura mediterranea e terrorizzata dalle barbarie dei nordici, che parte alla ricerca di Helheim, luogo sacro della cosmologia norrena in quanto regno dei morti.
La sua missione è quella di riportare in vita l’amato Dillion, anche se fin da subito è chiaro che si tratta di un’impresa disperata, per certi versi non dissimile da quella raccontata dal mito classico di Orfeo ed Euridice. Ad accompagnarla in questo viaggio ci sono le voci delle sue molteplici personalità, che le affollano la mente senza soluzione di continuità già dal filmato introduttivo, in cui si evince che le lande che stiamo per attraversare non hanno una precisa collocazione geografica, quanto piuttosto trovano la loro ragione d’essere in quella porzione di coscienza traumatizzata e resa irriconoscibile dalla malattia di cui è vittima.
Il viaggio di Senua è accompagnato da una moltitudine di voci che si accalcano nella sua mente
Le otto ore necessarie ad arrivare ai titoli di coda e svelare il passato di Senua, come scrivevo nell’incipit, vedranno l’alternarsi di due gameplay ben distinti: scontri all’arma bianca in piccole arene e risoluzione di enigmi ambientali per sbloccare nuovi livelli e proseguire. Lo storytelling, affidato a un sistema audio binaurale che emula l’udito umano in un ambiente sonoro tridimensionale, sarà invece sempre presente. La narrazione avviene in prima, seconda e terza persona singolare, a volte anche contemporaneamente, senza testi scritti, un po’ come se il giocatore fosse uno spettatore passivo di ciò che sta accadendo ma al contempo unico interlocutore attivo di quegli eventi.
Si tratta di un’implementazione significativa, da gustarsi in cuffia, frutto della collaborazione con Paul Fletcher, psichiatra e professore di Neuroscienza medica all’Università di Cambridge, che ha supportato gli sviluppatori nella ricostruzione virtuale dei disturbi provocati dalla psicosi. L’analisi del disturbo, però, non si è fermata a una consulenza: sono stati organizzati gruppi di lavoro, case study, tavole rotonde e sessioni di gioco con i pazienti coordinate da Wellcome Trust, associazione londinese senza scopo di lucro impegnata nella ricerca biomedica e nella sensibilizzazione. Centinaia di ore di lavoro sintetizzate in un documentario presente come extra nella versione finale di Hellblade, che si può recuperare sottotitolato in italiano anche su YouTube a patto di accettare l’inevitabile presenza di spoiler. Lo stesso Tameem Antoniades, co-fondatore e Creative Director di Ninja Theory, ha raccontato che la sfida più grande che hanno dovuto affrontare è stata quella di restituire un’immagine quanto più fedele alla genuina esperienza di chi soffre di allucinazioni e bipolarità. Visioni, voci che si sovrappongono, distorsioni del piano di realtà, autolesionismo, incubi a occhi aperti, ricordi da rivivere nel presente: questi e altri gli escamotage grafici e sonori messi tra le mani del giocatore. Ci tengo ad anticipare che senza una cornice di senso così ampia, essenziale da premettere in maniera dettagliata, il giudizio su Hellblade non sarebbe quello che potrete vedere in calce alla recensione.
Il viaggio di Senua verso il cuore di Helheim è sostanzialmente lineare e obbligato, senza HUD o indicatori che ne avrebbero minato l’immersività. Una serie di ostacoli intralceranno il suo incedere, come cancelli chiusi e gruppi di nemici in piccole arene senza respawn. Per quanto riguarda i primi, il sistema di gioco prevede la ricerca di una corrispondenza grafica tra le rune intarsiate sulle porte e gli elementi ambientali del livello in cui ci si trova, quindi a seconda della posizione della telecamera e della protagonista sarà possibile evidenziare particolari e precisi incastri tra ombre, alberi, muri diroccati, scale e orpelli scenografici così da trovare la composizione corretta e sbloccare la via per proseguire. Il tutto avviene nel panorama distorto descritto prima, ossia con simboli che appaiono sullo schermo, un sistema di illuminazione dinamico che cambia la percezione dello spazio e intere porzioni del mondo di gioco che assumono contorni differenti a seconda che si guardino da un lato piuttosto che dall’altro.
Il combat system cresce di complessità quando si devono gestire più avversari contemporaneamente
Gli scontri, invece, avvengono all’interno di piccole arene, in sessioni ben determinate, non casuali e mai durante la risoluzione di un puzzle, dove le meccaniche di base sono quelle del fendente veloce, dell’affondo e della parry, con la possibilità di sbilanciare il nemico per fargli abbassare la guardia, schivare o tuffarsi. Un sistema all’apparenza molto semplice, che cresce di complessità quando si devono gestire più avversari contemporaneamente, condito da una sorta di bullet time attivabile quando carico e un autoaim che serve più che altro a gestire correttamente la visuale. Quando si subiscono troppi colpi la percezione della “realtà” cambia e i colori si accendono di rosso, il tutto accompagnato in maniera persistente da voci cariche d’ansia che suggeriscono cosa fare o la presenza di nemici dietro le spalle.
Tanto gli enigmi ambientali quanto il combat system sono stati oggetto di grandi critiche; i primi giudicati eccessivi e ripetitivi, il secondo ottuso, senza evoluzione e con una scarsa varietà di ingaggi. È chiaro che all’interno di un action classico la necessità di sbloccare gli accessi cercando per il livello figure nascoste tra gli elementi naturali e di arredo, senza prendere mai le distanze dalla stessa dinamica, può risultare indigesta, ma Ninja Theory ha proposto decine di variazioni sul tema, nate anche dalla particolarità degli effetti audiovisivi implementati. Sono quindi rare le volte in cui l’individuazione della runa nel mondo di gioco avviene in una maniera già sperimentata in precedenza. Analogamente per i combattimenti, che se da un lato presentano pochi pattern, un roster di soli cinque avversari e tre boss fight, dall’altro sono molto fisici, caratterizzati in maniera decisa e profonda da combo fluide e spettacolari, con una parry e un contrattacco molto gratificanti per quanto semplicissimi da effettuare vista l’ampia finestra di attivazione. Il gioco, per altro, prevede un sistema di permadeath che porterà al game over nel caso in cui Senua venisse abbattuta troppe volte nel corso dell’intera avventura.
L’espediente utilizzato per giustificare il permadeath è quello dell’oscurità, che sta corrodendo la protagonista sia internamente, come disagio mentale, che esternamente sotto forma di un rattrappimento terminale. Non voglio dilungarmi oltre, perché qui si entra nel campo degli spoiler e qualsiasi parola di troppo potrebbe compromettere una genuina esperienza di Hellblade e del suo universo narrativo. Ci tengo però a chiudere accennando alla qualità del motion capture, su cui lo sviluppatore britannico ha investito tantissime risorse. Una menzione d’onore va quindi alla bellissima Melina Juergens, già video editor di Ninja Theory che, quasi per caso, si è trovata ricoperta di puntatori e telecamere utili a delineare la fisionomia e le movenze di Senua, specialmente quelle facciali, così essenziali quando chi soffre di psicosi lo manifesta principalmente con il viso. Vincitrice ai The Game Awards di Los Angeles nel 2017 per la miglior performance, Melina si è allenata fisicamente per settimane, ha incontrato in più occasioni i pazienti affetti da quella malattia, ha sperimentato l’isolamento negli spazi aperti e la claustrofobia di quelli chiusi, mossa dall’amore per ciò che stava facendo e da una sorta di riscatto personale in virtù dell’aver vissuto in prima persona quel dolore mentale che doveva rappresentare: chapeau.
Melina Juergens ha vinto i The Game Awards del 2017 per la sua interpretazione di Senua
Questa dedizione, che chiunque può approfondire nei tanti articoli e video che ne hanno parlato, unita al fatto che Hellblade: Senua’s Sacrifice è stato sviluppato da una ventina di persone e venduto a prezzo budget nonostante gli altissimi valori produttivi in termini di motore grafico, animazioni e rendering, contribuisce a celebrare l’opera di Ninja Theory come prodotto da cogliere nel suo insieme, evitando di commettere il grossolano errore di incistirsi sui singoli elementi di un videogioco che sarà ricordato negli annali come un capolavoro.
Ho acquistato Hellblade: Senua's Sacrifice su PSN pagandolo, scontato, 19.90 euro e godendomi l'audio binaurale grazie a un paio di Turtle Beach Stealth 700 con 7.1 canali e surround.
DurataHellblade: Senua’s Sacrifice è una produzione fortemente narrativa, dai toni orrorifici, ambientata nelle lande desolate del nord Europa al tempo dei vichinghi, quando la mitologia norrena governava la vita delle tribù indigene con la superstizione, i riti esoterici e la violenza. La protagonista soffre di psicosi, una malattia mentale su cui Ninja Theory ha costruito un gameplay funzionale alla rappresentazione dei sintomi quali allucinazioni e bipolarità, fatto di enigmi ambientali e combattimenti all’arma bianca. Il comparto audiovisivo all’avanguardia, il prezzo budget e una ricostruzione interattiva del disagio mentale frutto di una collaborazione con pazienti e psichiatri lo inquadrano come un videogioco da avere a catalogo a prescindere dai gusti personali.
Una produzione ai vertici della generazione, con il fiore all’occhiello di un motion capture magistrale ed effetti speciali studiati ad hoc.
Sperimentare il sistema audio binaurale che emula l’udito umano in un ambiente sonoro tridimensionale giustificherebbe da solo l’acquisto di Hellblade.
Diviso tra risoluzione di enigmi ambientali e scontri all’arma bianca in arene, il gameplay sorregge egregiamente lo storytelling anche se soffre di un po’ di ripetitività.
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