Recensione di gmg215
Raramente nella carriera di videogiocatore si approccia un gioco con uno stato mentale sereno e positivo come quello che ha preceduto Return to Monkey Island. Non potrebbe essere diversamente: si tratta del sequel diretto di due capitoli considerati pietre miliari del gaming, risalenti al 1990 e 1992. La sola esistenza di questo gioco è una vera chicca per gli appassionati che si sono goduti l’epoca d’oro delle avventure grafiche.
In caso di delusione, si può bonariamente incolpare gli anni che passano. In caso di piacevole sorpresa, si può gioire perché cose come la scrittura e l’arguzia degli enigmi non invecchiano mai. Scopriamo assieme quale dei due casi si applica al ritorno di Guybrush Threepwood nella nostra recensione diario.
Pronti, via. Le musiche sono sempre quelle: leggiadre e allegre, ma minuziosamente ripulite ed integrate con grande attenzione alla coerenza. Si inizia con un piccolo scenario introduttivo che non sappiamo ancora come contestualizzare, che ci spiega i comandi di base. La lista dei verbi è rimpiazzata da un più moderno sistema di interazione per cui, avvicinandosi a punti di interesse, compaiono automaticamente icone circolari che dicono “Parla con”, “Raccogli”, “Fai i complimenti al pappagallo” (o qualcosa di simile). E’ del tutto possibile mancare dei punti di interesse quando si esplora con superficialità, esattamente come molti anni fa si perdevano indizi scannerizzando troppo rapidamente gli ambienti col mouse.
Dopo il prologo / tutorial si approda finalmente su Melee Island, più precisamente sull’osservatorio dove tutto è iniziato. La voce di Guybrush, la medesima delle edizioni moderne dei primi due capitoli, veicola alla perfezione il tono della sceneggiatura, amorevolmente sbruffone ma sagacemente sarcastico e pungente. La scrittura è ciò che conferisce al gioco una dimensione senza tempo. Indipendentemente dagli anni che passano, è divertente ascoltare le freddure di Ron Gilbert e Dave Grossman, ovvero due terzi del nucleo creativo della serie (la terza persona è Tim Schafer, boss di DoubleFine e creatore di Psychonauts).
L’iniziale approccio all’isola è una passerella di luoghi familiari elegantemente ricostruiti. Primo della lista è ovviamente lo Scumm Bar, completo di ospiti chiassosi, un nuovo trio di pirati dall’aria importante, un cuoco un po’ svampito e fiumi di grog.
Lo Scumm Bar è sempre pieno di pirati dall’aria importante e grog
I primi compiti da svolgere sono annotati in un taccuino degli obiettivi che si aggiorna automaticamente, un altro tocco di modernità che rende più agevole il lasciare e riprendere il gioco a distanza di qualche giorno. Molto apprezzabilmente, tuttavia, non siamo soverchiati di cose da fare, bensì siamo lasciati liberi di passeggiare in una mappa ben nota. Vecchie conoscenze fanno capolino a ritmo sostenuto, ad esempio la signora del Voodoo, Stan il venditore di navi usate, Carla il Maestro della Spada. C’è anche qualche volto nuovo, come Stella Chiavi, proprietaria di un negozio di chiavi per l’appunto, che complementa un cast di contorno decisamente ricco. Da nessuna parte si intravedono sorprese dirompenti, ma nel mezzo dei Caraibi si sta una bellezza.
Lo stile grafico accolto con cotanto pessimismo funziona
Dal punto di vista delle meccaniche, il gioco da il meglio di sé quando riesce a concedere al giocatore esattamente la giusta quantità di informazioni necessaria per arrivare spontaneamente ad una soluzione creativa. In alcuni casi, molto rari, la soddisfazione dell’intuizione si tramuta in frustrazione perché la via per proseguire il gioco è decisamente strampalata, del tipo usare un oggetto abbastanza insospettabile su un altro. Si tratta di quisquilie nell’economia generale di un’avventura grafica azzeccata nei modi, nei tempi ed anche nelle immagini. A proposito di quest’ultime, lo stile grafico accolto con cotanto pessimismo funziona. Nelle fasi canoniche di gioco gli sfondi e i personaggi sono incisivi e piacevoli da guardare, esaltati da una palette di colori vivi e vivaci. Solamente nei primi piani sul volto di Guybrush ho percepito un timido dissenso rispetto alla visione degli autori. Di nuovo, quisquilie.
Le ore scorrono veloci e completiamo le prime due parti del gioco. Abbiamo appena scoperto un obiettivo variegato, che siamo sicuri ci terrà incollati alla Switch. Dimenticavo di specificare che mi sto godendo Return to Monkey Island sulla piattaforma Nintendo, quasi esclusivamente in mobilità. I miei tempi morti di spostamento sono diventati molto più divertenti negli ultimi tempi: non potrei chiedere di meglio. Ci risentiamo a breve sulle pagine di Gameplay Cafè per la prossima puntata della nostra recensione diario!
Poco dopo l’interruzione per la parte prima della nostra recensione-diario, il gioco prende una piega inaspettata solo perché i miei ricordi dei primi due Monkey Island sono offuscati. Ovvero la mappa si apre in un arcipelago di isolette esplorabili. In questa fase centrale della narrazione mi vengono in mente due pensieri. In primis, è bello avere una separazione cosi netta degli scenari perché giustifica 4-5 temi musicali davvero azzeccati: in particolare, il motivetto dell’isola su cui si trova Elaine, moglie in gamba e di carattere di Guybrush, è accattivante e colmo di affetto per i personaggi.
In secundis, i vari obiettivi ed enigmi si parallelizzano dando un senso nuovo di dinamicità al gioco. Intuire una soluzione ha un effetto a catena di azioni che si possono intraprendere e che permettono di avanzare su più fronti, inizialmente scollegati. Il risultato è che si prova una bella soddisfazione ad azzeccare, come accadeva in tante avventure grafiche storiche.
Dopo 4-5 ore di enigmi intrecciati, il gioco si avvia inevitabilmente verso la sua conclusione. Direi che il tempo di gioco è buono, dalle 10 alle 15 ore a seconda se si abbia avuto pazienza di sviscerare gli indovinelli da soli oppure si sia fatto ricorso velocemente alla guida disponibile nella forma di suggerimenti on demand. L’atto finale è meno brillante di ciò che lo ha preceduto, ma il finale in se non tradisce.
Per quanto sia difficilmente per tutti i palati, questa conclusione considera in maniera intelligente e sagace che sono trent’anni che siamo tutti quanti appassionati al Segreto di Monkey Island e che, come per molte altre cose, il tempo passato assieme è più importante della destinazione a cui siamo giunti e del tesoro che pensiamo di trovare.
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