In un settore come quello dei videogiochi che si sta spostando sempre più verso il digitale, l’importanza delle copertine sta purtroppo lentamente diminuendo. È un dato di fatto, visto che la scelta del prossimo titolo da acquistare non passa più per come questo ci colpisce tra gli scaffali di un negozio. Pensateci: qual è stato l’ultimo videogioco con una copertina che vi ha stupito?
E quante volte invece recentemente, acquistando un gioco su Steam o scaricandolo tramite Game Pass non avete nemmeno visto qualcosa che potesse essere definito boxart? La posizione un tempo occupata da questi lavori creativi è oggi quasi totalmente rimpiazzata da icone su delle dashboard che riportano ancora degli artwork, ormai però privati della gran parte delle funzioni passate. ArtCafè oggi fa un breve viaggio nel mondo di questi piccoli, ma importanti, pezzetti dell’art direction di un videogioco.
La transizione verso il digitale ha privato il lavoro creativo della box art di buona parte della sua importanza
Che cos’è quindi oggi, e che cos’era ieri, una boxart? Essenzialmente questa può essere descritta come un lavoro creativo, spesso definito key art, che viene posizionato sulla scatola fisica di un videogioco, accompagnato dal logo e dai materiali grafici specifici della piattaforma. Questo prodotto artistico assolve diversi scopi: dal marketing del prodotto – le scelte legate alla sua presentazione influiscono sulla percezione che ne avrà il pubblico – alla comunicazione, più o meno vaga, del contenuto del gioco fino al catturare l’attenzione con una composizione visivamente interessante. La boxart è quindi si un lavoro creativo, ma fortemente guidato da ragioni economiche e di targetizzazione degli utenti potenzialmente interessati. L’arma è a doppio taglio: se è vero che una buona boxart può rimanere impressa nella mente degli acquirenti e guidarli all’acquisto, una meno riconoscibile ed anonima può invece dissuaderli. Quanto è vero però oggi questo discorso? Il consumatore medio di videogiochi è oggi certamente più informato, la comunicazione dei titoli dilaga in molti media e l’acquisto è sempre più spesso digitale e quindi praticamente slegato della percezione della classica boxart.
Facendo un passo indietro nella storia possiamo tornare ad un tempo nel quale la boxart era un’ideale strumento per dipingere su di un videogioco delle qualità visive che non possedeva. All’epoca delle console Atari, le modeste capacità tecnologiche richiedevano ai giocatori uno sforzo di immaginazione non indifferente per interpretare quattro pixel in croce come un guerriero alle prese con epiche avventure spaziali. Per questo, illustratori come Marc Eriksen – autore di molte cover art delle versione americane di Mega Man – venivano ingaggiati per produrre veri e propri quadri da riprodurre sulle cover dei titoli. Dettagliate, ricche di ricerca artistica e talento creativo, questi pezzi d’arte suggerivano al giocatore cosa dovesse cercare di immaginarsi dai suddetti quattro pixel a schermo. Nintendo, all’inizio dell’era NES, scelse un approccio più sincero e meno immaginifico con delle cover che rappresentavano la pixel art dei suoi titoli. SEGA propose invece bizzarri template a quadri mentre Square iniziò la sua lunga tradizione di cover art magnificamente illustrate da talentosi artisti mangaka giapponesi. Gli approcci furono si molteplici, ma nella maggior parte dei casi sempre legati al lavoro artistico di un illustratore con una visione più creativa, e di traduzione del videogioco in un’opera visuale, e meno commerciale.
Diversi mercati hanno spesso richiesto differenti cover, con risultati non sempre soddisfacenti
L’avvento del treno del 3D portò però con se un carico di boxart visivamente scadenti, causate del tentativo di presentare i “dettagliati” modelli tridimensionali possibili sulle nuove console. Inizia qui un’epoca buia per le boxart con colori slavati, texture spoglie e modelli spigolosi che non ressero la prova del tempo nemmeno per pochi anni. Si rafforzano anche le distinzione di cover per i vari mercati, dove quello americano è spesso quello che riceve il peggio, come nei casi di Resident Evil 4 e ICO. Lo strapotere del marketing e della necessità di attirare vendite prendono forza sul finire della sesta generazione di console, e diventano poi dilaganti nell’epoca PS3 e Xbox 360. Clichè ed archetipi triti e ritriti diventano la norma, vedasi la quantità di “tizi solitari col fucile” o di “faccioni giganti con espressione enigmatica” che campeggiano su moltissime boxart a cancellare quasi del tutto ricerche artistiche più peculiari che nella generazione passata era ancora possibile osservare, come nel caso della cover di Katamari Damacy.
Oggi siamo purtroppo ancora su questa barca al servizio dei reparti marketing: la stragrande maggioranza delle cover aderisce a pochi modelli già visti, insipidi e spesso incapaci di catturare sia lo spirito del gioco che il suo contenuto. Lontani sono i giorni di boxart come quelle di Secret of Mana e Chrono Trigger, con le loro illustrazioni oniriche ed avventurose, mentre fin troppo vivi sono i ricordi degli obrobri di Bioshock Infinite e il suo tragico tentativo di vendere un “tizio con la pistola” ignorando le qualità narrative e stilistiche di tutto il resto del gioco. Qualche publisher illuminato ha per fortuna chiara quale sia la strada migliore: dopo la deprimente cover da “soldato casuale cazzuto con il fucile” di Doom (2016), Doom Eternal ritorna allo stile della cover dell’originale Doom (1993) con un’illustrazione ricca di dettagli, capace di comunicare il contenuto ed il suo strabordante stile ludico e visivo.
Giochi senza uno specifico protagonista, come Sunset Overdrive, impiegano illustrazioni di professionisti che sanno comunicare il contenuto di un gioco tradotto dalle loro mani, con risultati che spiccano nella massa di copertina copia e incolla. Studi indie come Hello Games ci deliziano con cover oniriche come quella di No Man’s Sky in cui c’è molto da osservare, ma anche altrettanto da immaginare – esattamente come nel gioco stesso. Al contrario altri sviluppatori tripla A, purtroppo e necessariamente schiavi delle vendite, vendono giochi con una ricerca artistica di anni come Cyberpunk 2077 con un “tizio random – che tanto modificherò con l’editor – con pistola alzata” su sfondo giallo. Le proprietà tecniche di ognuna delle cover che vediamo oggi sono si innegabili, molti studi hanno ormai aggiunto livelli di competenza artistica sufficienti produrre materiale di qualità sempre e comunque, mentre a vacillare sono ricerca, ispirazione e voglia di stupire.
Rispondiamo però alla domanda precedente: tutto questo conta? Quanto rimarrà, nelle nostre future librerie digitali, della vecchia boxart ed il suo profumo di plastica carta stampata? Tralasciando discorsi nostalgici, si può dire che molti giocatori reputino ancora rilevante la presentazione di un gioco e la sua comunicazione. Basti pensare alle micro rivolte agitate dagli utenti Switch al rilascio di titoli con una tile art non soddisfacente, come nel caso di SteamWorld Dig 2.
Oppure alle polemiche sulla cover della serie Battlefield, accusate di imprecisione nella narrazione dei conflitti mondiali per la presenza di figure femminili o di colore (accuse per altro smentite da DICE con buona pace degli ignoranti accusatori). In fondo possiamo dire che le copertine dei videogiochi ancora smuovono qualche sentimento, ci fanno respirare un’aria di tempi passati in cui il reveal di una cover era un evento atteso così come togliere la plastica dalla scatola appena acquistata. Forse la morte del formato fisico è un preludio al ritorno a lavori più creativi, che meno devono impressionare sullo scaffale, e devono essere invece più piacevoli e gustosi ogni giorno che accendiamo la nostra dashboard preferita.
Ditemi la vostra: quali sono le vostre copertine di videogiochi preferite? O quali avete trovato sinceramente peggiori? Artcafè ritorna prossimamente!