Continua ArtCafè, la rubrica di Gameplay Café dedicata al mondo dell’art direction dei videogiochi. Dopo il primo episodio, dedicato al Character Design, oggi ci concentriamo su ciò che occupa la maggior parte dei nostri schermi mentre giochiamo: l’ambientazione.
Incominciamo chiarendo un equivoco comune: il Level Design non riguarda la sfera artistica di un videogioco. Il campo che si occupa del design visivo ed estetico è professionalmente detto Environment Art o Environment Design. Questo è il nome corretto per indicare la pratica che si occupa della costruzione di un’architettura visuale che contribuisca a rendere viva e credibile l’ambientazione di gioco. Il level design consiste invece nel creare una sfida per il giocatore che si inserisca nell’ambientazione sfruttando le meccaniche alla base del gameplay. Environment Art e Level Design sono processi che si combinano per creare ambientazioni che siano si vive ed interessanti, ma allo stesso tempo stimolanti e dotate di sfida. Sciolto questo nodo possiamo comprendere immediatamente quanto la progettazione visiva delle ambientazioni svolga un ruolo chiave nell’esperienza videoludica: senza Environment Art non avremmo Rapture in Bioshock, il selvaggio west di Red Dead Redemption ed i dungeon di un qualsiasi The Legend of Zelda non sarebbero che scatole grigie prive di significato.
Esistono diverse tipologie di ambientazione e spesso queste sono abbinate a determinati generi. Secondo un imperfetto ordine di scala possiamo delineare:
Questa suddivisione, più da Game Design che da Art Direction, ci può aiutare a comprendere meglio quali sono le tecniche artistiche usate per esaltare ogni tipo di ambientazione.
“Atmosfera” è la parola chiave nella creazione di environment di gioco. Siano essi fantastici o realistici, ogni elemento presente deve supportare credibilità e coesione portando il giocatore all’immersione totale. Provate a chiudere gli occhi e pensate ad un sottomarino decadente, trasformatelo in un palazzo decorato con arredamenti art nouveau popolato di pazzi assassini e inquietanti bambine da salvare. Rapture in Bioshock non è solo uno sfondo, è anche una storia sia presente che passata in uno spazio vivo e credibile. Ora riprovate lo stesso esperimento, stavolta con un deserto luccicante ed una montagna in lontananza circondata da eterei tessuti volanti ed architetture classiche. L’ambientazione di Journey parla, senza proferire parola. Essa descrive al giocatore un mondo onirico in cui scivolare sulla sabbia verso un obiettivo lontano con luce, colore e strutture che si combinano nel creare un unico flusso di spazio, avventura e narrazione. Ogni elemento presente in un ambiente contribuisce alla resa emozionale: dal design crudo, denso e pesante dei grattacieli sottomarini di Rapture, alla brillante pulizia e perfezione delle strutture della City of Glass di Mirror’s Edge. Mentre svoltando in ogni angolo dei livelli di Bioshock paura ed inquietudine si affacciano costantemente, vedere Faith saltare tra una superficie specchiata e l’altra dona un senso di libertà e leggerezza.
Qualsiasi ambientazione di un videogioco è costruita seguendo delle gerarchie visive: esistono elementi più importanti di altri, in termini narrativi e ludici, che vengono evidenziati tramite varie tecniche che vanno a creare aree contrasto nell’ambientazione. Tra queste tecniche possiamo citare ad esempio le differenze di scala, tipiche degli open-world ad ambientazione urbana come il già citato Mirror’s Edge. Durante lo sviluppo del reboot Mirror’s Edge Catalyst (2016) gli artisti DICE si sono concentrati sulla città di Tokyo per recuperare delle caratteristiche, esagerandone poi le peculiarità di scala e di forma per creare forti contrasti nello skyline della fittizia City of Glass. Un’altra tecnica di contrasto è l’illuminazione: questa è la principale guida del nostro sguardo ed è sfruttata nelle ambientazioni ad esplorazione libera per portare il giocatore verso posizioni rilevanti. Questo avviene praticamente in ogni videogioco contemporaneo come ad esempio Shadow of the Tomb Raider che fa grande uso di illuminazione e ombreggiatura come guide. Infine, l’incremento del livello di dettaglio in determinate aree convoglia la sensazione di rilevanza di quel punto: pensiamo all’open world in The Legend of Zelda: Breath of the Wild, spesso popolato da semplici alberi ed animali, è maestro nel convogliare la nostra attenzione verso punti chiave con micro e macro dettagli che contrastano il vuoto circostante. Spesso questi dettagli fanno leva sul concetto di affordance: termine utilizzato nel campo del design, si riferisce alla capacità umana di associare a determinate forme una specifica funzione già conosciuta come ad esempio il classico barile rosso che esploderà se colpito da un proiettile. Disegnare ambienti contrastanti aiuta anche a gestire il ritmo di gioco annullando la fatica visiva ed aumentando la voglia di esplorazione in cerca di mistero, come accade la prima volta che ci si ritrova nelle maledette vie di Cathedral Ward in Bloodborne. Alcuni videogiochi fanno del ritmo delle ambientazioni un principio cardine dello sviluppo – pensiamo alla meravigliosa progressione di Journey scandita dai colori dei luoghi – mentre altri faticano nel presentare spazi che cambiano in maniera soddisfacente durante tutta l’avventura come ad esempio il recente Oregon in Days Gone o l’Egitto di Assassin’s Creed: Origins.
Una larghissima parte del design delle ambientazioni è legato a quelle per gli interni. Questi seguono delle regole simili a quelle per gli esterni ma ne aggiungono altre più specifiche ed interessanti. Durante una conferenza alla GDC 2014, Dan Cox di Capy Games (Superbrothers: Sword & Sworcery e Below) ha nominato tre capisaldi per il design di interni: Ordine, Dettaglio (originale “Enrichment”) ed Espressione. L’ordine ha a che fare con la comprensione dello spazio, il dettaglio con la sua caratterizzazione estetica e l’espressione con il sovrastrato emozionale e narrativo. Prendiamo un caso come esempio: l’eccezionale e quasi fantastica casa di What Remains of Edith Finch. L’intero spazio segue un layout di navigazione estremamente semplice, i confini del luogo sono chiaramente tracciati ed è difficile perdere l’orientamento. Lo spazio è arricchito da una quantità enorme di dettagli, ma questo non ne intacca la leggibilità. Dalla luce soffusa che penetra dalle finestre all’arredamento, fino alla ridicola architettura della casa si può notare come gli artisti di Giant Sparrow abbiamo giocato con la manipolazione delle forme per creare un ambiente che racconta novità ad ogni svolta d’angolo. E poi le storie, ciò che crea l’espressione e la narrativa, il nucleo dell’intero gioco. Libri caduti per terra, skateboard abbandonati, stanze sporche di pennelli e un drago di legno rotto nello stagno fuori casa contribuiscono a dare vita ad un vero e proprio luogo una volta abitato ed ora inanimato. Lo spazio racconta il suo stesso passato al punto che si potrebbe quasi fare a meno di tutti le spiegazioni dalla voce della protagonista.
Negli ultimi anni abbiamo assistito all’onnipresenza degli open world nei videogiochi. Laddove alcuni titoli ne sfruttano a pieno le caratteristiche, altri purtroppo ne fanno un uso quasi meramente promozionale. Un open-world ampio, coerente e interconnesso è una sfida di sviluppo che solo team ben finanziati e coordinati possono vincere. Artisticamente parlando, il mondo aperto presenta sfide uniche: creare montagne di asset come texture e modelli richiede uno sforzo creativo talmente ampio da imporre alcuni cavilli. Per prima cosa: la maggior parte degli open-world a cui giochiamo non è realizzato completamente a mano. Ad esempio, nella Manhattan di Marvel’s Spider-Man di Insomniac Games la maggior parte degli edifici sono stati generati proceduralmente così come per il posizionamento di passanti, veicoli e dettagli sulla strada. Questo permette al team di sviluppo enormi risparmi di tempo senza compromettere la qualità degli asset unici. Infatti i punti di interesse, come grattacieli famosi o piazze, sono creati a mano dagli artisti in modo da garantire un elevato livello di dettaglio e fiducia al reale. La presenza di questi punti di riferimento nelle ambientazioni è una caratteristiche chiave degli open-world: essi infatti facilitano la navigazione, garantendo riconoscibilità allo spazio e peculiarità all’area circostante. Queste caratteristiche hanno guidato l’intero processo di creazione della regione di Toussaint in The Witcher 3: Blood and Wine. Esplorando la meravigliosa regione, ispirata alla Francia centrale, si può sempre scorgere il lontananza la bianca città di Beauclair, teatro di molte delle missioni del gioco. Questa funge quindi da punto focale della mappa oltre che area di concentrazione di una marea di dettagli visuali che aiutano a comprendere la storia della regione. Toussaint è quindi un’area che alterna spazi urbani ad altri naturali. Questi ultimi, negli open-world, hanno il pregio di poter giocare con environment creati implicitamente: nell’isola di The Witness di Jonathan Blow non esistono confini espliciti tra le varie aree di gioco. La mappa è divisa in sezioni che sono implicitamente comunicate al giocatore tramite differenze nella texture del terreno, nella presenza di particolari alberi o punti di interesse come delle rovine. Environment a architettura sono così combinanti in un perfetto open-world credibile ed interessante da esplorare nonostante le dimensioni ridotte.
Un’ultima ma importante caratteristica di cui si occupa l’environment art è quella di cospargere le ambientazioni con dettagli in grado di descrivere storie, suscitare emozioni e raccontare avvenimenti. Nel 2013 Gone Home è stato pioniere dei cosiddetti “walking simulator”, videogiochi apparentemente scarni nella varietà delle meccaniche, ma con un grande focus sulla narrativa. Gli autori del titolo, The Fullbright Company (software house formata da molti ex sviluppatori di Irrational Games a cui dobbiamo la serie Bioshock) hanno saputo creare un ambiente capace di raccontare la sua storia non solo tramite le parole. Nonostante la staticità dell’ambientazione, la casa dei Greenbriar è un ambiente vissuto e ricco di dettagli. Affini a queste caratteristiche sono i livelli di Dishonored 2, capolavoro dell’ambientazione sandbox ricca, intricata e interattiva. Il terzo capitolo propone probabilmente il migliore esempio: la Clockwork Mansion è un’enorme magione dinamica che espone in piena luce le macchinazioni del suo diabolico inventore. Dalla superba cura per il dettaglio dei materiali, allo stile fortemente stilizzato della modellazione, ogni dettaglio racconta il personaggio di Kirin Jindosh ancora prima che lo si possa incontrare rendendo lo storytelling ambientale autore sia di flashback che di flashforward. Quest’ultimo spesso può esprimersi grazie a eventi dinamici nei livelli: in Gears of War 4 le portentose tempeste, elementi sia narrativi che ludici, sono anticipate da vento e pioggia che aumenta progressivamente. In un medium prevalentemente visivo come quello dei videogiochi, il miglior modo di raccontare è quello che non passa attraverso la parola scritta. In un open-world preferireste trovare una lettera che racconta una battaglia, o attraversare il campo di guerra appena abbandonato? Questo è infine ciò di cui si occupa l’environment art.
Concluso il secondo episodio di ArtCafé facciamo una breve considerazione: cosa sarebbe un ambientazione senza la sua illuminazione? Nel prossimo episodio ci concentreremo proprio su questo aspetto: il Lighting Design. Nel frattempo fatemi sapere quali sono le ambientazioni dei videogiochi che più vi hanno colpito!
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Gran bel pezzo, molto interessante.
Sicuramente il deserto di journey è L ambientazione che più di tutte le altre mi è rimasta impressa, forse anche perché sembrava essa stessa la protagonista del gioco.
Sono d’accordo! Il livello di cura riposto in un’ambientazione apparentemente semplice come un deserto la dice lunga sulla forza dell’art direction di Journey