Giunti al quinto episodio di ArtCafé, è finalmente tempo di parlare di colori. Capaci di donare iconicità, caratterizzazione e funzione a personaggi, ambientazioni ed interfacce, i colori sono tra le più grandi fonti di espressione e di emozioni nei videogiochi.
Quando il disegno dell’ambientazione, la gestione dell’illuminazione e la forza delle animazioni non bastano, i colori intervengono per donare un ulteriore livello di lettura ed interpretazione delle immagini dei videogiochi. Pensate a quanto può comunicare anche un singolo colore: un normalissimo cappello rosso non può che essere quello di Super Mario; un’armatura futuristica verde sarà certamente quella di Master Chief e quella strana luce gialla lampeggiante è la nuova arma esotica che il boss di turno ha appena lasciato. Nel mondo dei videogiochi i colori generano infatti tre elementi:
Esistono ben pochi videogiochi con uno stile artistico monocromatico: i rari casi esistenti ci hanno insegnato che, nonostate l’effetto artistico sia apprezzabile, spesso va ad inficiare la qualità della leggibilità del gioco. Per questo, parlare di colori significa in realtà trattare palette, cioè insiemi di colori scelti per la loro capacità di convivere grazie a coerenti proprietà di abbinamento o contrasto. Questi accostamenti sono spesso creati tramite la classica teoria, o ruota, dei colori da cui derivano le varie possibilità di palette: dal semplice monocromatico, ai più utilizzati triadico o complementare. Quando un team di artisti sceglie la palette cromatica adatta al progetto, deve tenere conto delle proprietà degli schermi. Oggi questo non rappresenta più un problema, ma anni fa il gamut dei colori (lo spettro di colori riproducibili) era fortemente limitato dalle console e dagli schermi: per questo la pixel art dei giochi per Super Nintendo era limitata all’utilizzo di 256 colori. Oggi i nostri schermi a otto o dieci bit possono visualizzare milioni e milioni di colori e gli artisti possono sbizzarrirsi tra valori di tinta saturazione e luminosità quasi infiniti. Questo chiaramente genera moltissime possibilità espressive: dai toni desaturati, grigi e scuri del primo Gears of War al tripudio di colori saturi e luminosi di Mario Kart 8. La libertà di giocare con la palette cromatica deve poi saper potenziare al massimo sia la resa artistica, che le proprietà di gameplay del titolo. Pensiamo ad esempio a SUPERHOT, un capolavoro Low-Poly che utilizza una palette limitatissima per convogliare il suo stile visivo minimalistico, talmente pulito da risultare quasi clinico, che ben si sposa con il gameplay dalla precisione millimetrica richiesta. Altri titoli utilizzano invece palette estremamente ricche anche per necessità di gameplay, ad esempio giochi strategici come la serie Civilization in cui i colori sono utilizzati per indicare risorse, comandi ed avvisi. L’utilizzo di più o meno colori è quindi una questione di direzione artistica: giochi dai toni misteriosi, cupi e oppressivi come INSIDE scelgono di abbassare la saturazione e luminosità di ogni tono, mentre titoli che puntano su un atmosfera viva, soleggiata e vibrante caricano al massimo saturazione e differenziazione dei toni per meravigliare il giocatore, come avviene in The Witness o in ABZÛ.
Prima di qualunque altra cosa, il colore è emozione. Ogni tinta, con la sua saturazione, i suoi valori ed il suo posizionamento in un insieme, genera una risposta emotiva nel giocatore. Manipolando il colore dello spazio, gli artisti possono far sembrare quest’ultimo più familiare e caldo, oppure più alieno, pericoloso e freddo. Questo modo di pensare al colore è direttamente collegato alla piacevolezza dello scenario e al ricordo che i giocatori avranno di esso. Pensiamo alla prima volta che abbiamo imbracciato un’arma covenant in Halo: tutte le armi utilizzate fino a quel momento rappresentavano l’idea tipica di arma grigia e meccanica, mentre l’Energy Rifle degli Elite si presenta come tondeggiante e di un viola riflettente a segnalare la sua chiara origine estranea. Il colore è quindi uno strumento volto a convogliare un’idea. Questa può anche essere tramutata in un’emozione, positiva o negativa che sia. In Bloodborne, la palette colori piuttosto ricca è utilizzata per trasmettere orrore, repulsione ed un generale senso di inevitabilità: pensiamo ad esempio al rosso tramonto che si staglia nel cielo grazie alla luna di sangue. Proprio il rosso è un colore che si presta ai più disparati utilizzi: è il colore del sangue e della carne, ed anche del sole e di ciò che è percepito come umano, fisico e viscerale. Per questo è utilizzato sia in contesti terrificanti, come i classici bagni di sangue in Madworld, sia in momenti rilassanti, accoglienti ed emotivi, come nel momento dell’arrivo all’università in The Last of Us, un vero e proprio capolavoro di gestione della luce e del colore del cielo in relazione alla tematica narrativa delle singole sezioni di gioco. Gli artisti di Naughty Dog in fase di concept art, come è pratica comune anche in altri studi, hanno realizzato un color script: un documento che traccia tutto lo svolgimento del titolo delineando quali saranno i colori predominanti di ogni sezione. Queste scelte ricadranno poi sulla creazione dell’ambientazione e delle luci che convoglieranno l’emozione desiderata. Un eccezionale color script è quello di Journey in cui il viaggio del protagonista verso la montagna è delineato dalle differenze cromatiche delle varie sezioni, dal caldo ed emozionante deserto iniziale alle ostili e fredde grotte di metà gioco.
Con l’avanzamento delle tecnologie di renderizzazione dei videogiochi, abbiamo assistito ad un poderoso incremento dei dettagli negli scenari. La conseguenza è che la navigazione in essi può esserne spesso compromessa. I colori intervengono in questo come elementi pacificatori con il compito di ridurre il rumore visivo: la nostra visione non è in grado di discernere ogni dettaglio singolarmente, ed in una situazione classica di gameplay il giocatore ha la necessità di trovare velocemente ed efficacemente degli elementi chiave che permettano la progressione. Per ovviare a questo, dall’era PlayStation 3 e Xbox 360 in poi abbiamo assistito all’inondazione delle modalità detective (istinto, fiuto, sesto senso o che dir si voglia..) nei videogiochi. Queste funzionano per sottrazione di dettagli, riducendo l’intera palette cromatica dello scenario a dei singoli e distinguibili colori chiave aventi un particolare significato. Anche in questo caso, come per tutti gli altri mattoncini della direzione artistica, il colore è quindi sia elemento artistico che funzionale al gameplay.
Fin dagli albori del gaming, il colore è stato utilizzato come significante, ossia la forma con cui è indicato un contenuto. Nell’originale Pac-Man del 1980, i fantasmi del gioco erano colorati differentemente in base al loro comportamento: dal fantasma rosso che rincorre Pac-Man a quello rosa che invece gli si posiziona di sempre di fronte. Il colore è quindi utilizzato come indicazione di qualche forma di interazione o gameplay. In questo caso, i colori basici sono quasi sempre rosso, a comunicare “attenzione”, “errore” o “chiusura” e verde, sinomimo di “ok”, “vittoria” e “apertura”. L’alternativa al verde è il blu, spesso usato come nemesi al rosso nei giochi multiplayer per indicare le squadre di giocatori come nel classico Red vs Blue di Halo. In Portal, blu e arancio sono utilizzati in contrasto con lo sfondo quasi sempre grigio, per indicare la meccanica di teletrasporto alla base del titolo mentre in The Wonderful 101, l’intero spettro di colori dell’arcobaleno è assegnato ad eroi con poteri di azione differenti. Singoli colori chiave possono quindi essere indici di meccaniche di gameplay, in altri casi vanno invece a delineare fazioni di avversari e personaggi per migliorare la leggibilità negli scenari. Pensiamo ad esempio a Gears of War che decora i protagonisti con led di luce blu, le Locuste con armature rosse e la terza fazione, gli Splendenti, con dettagli gialli. Un ultimo utilizzo del colore come significante è legato alla progressione all’interno di un videogioco: un chiaro cambio di toni di colore in un livello denota un avanzamento ed una svolta nel gameplay, come si può chiaramente vedere nei mondi di gioco di Super Mario Odyssey o nelle splendide ambientazioni di Metroid Prime sempre chiaramente distinte da colori predominanti di ogni area.
I colori sono una parte rilevante del cosiddetto look & feel di un prodotto, sia esso un oggetto, un servizio o un’opera di intrattenimento. Anche nel mondo dei videogiochi, per i grandi publisher e per gli sviluppatori è importante creare forme di facile riconoscibilità per i loro titoli. Tra queste spiccano il logo, lo stile artistico ed i suoi colori predominanti. Gli stessi publisher e produttori di console hanno creato il proprio branding intorno a dei colori distinti, anche semplicemente per rendere riconiscibili le custodie dei giochi nei negozi: blu per Sony, rosso per Nintendo e verde per Microsoft. Come già detto nell’articolo sul character design, Microsoft si è addirittura spinta a colorare il protagonista della sua serie più famosa del suo colore di brand, cioè master chief e la sua armatura verde. Tornando invece ai colori dei videogiochi stessi, le palette scelte possono andare ad influenzare il feeling restituito dal titolo: pensiamo ad esempio a titoli indipendenti come quelli pubblicati da Devolver Digital: dalla totale monocromia di Gato Roboto e Minit alle sgargianti tinte neon e volutamente kitsch di Hotline Miami fino ai giochi di colori complementari dalle texture elaborate in Ape Out. Ognuno di questi titoli sfrutta la palette cromatica per delineare delle caratteristiche artistiche, narrative o di gameplay ed allo stesso tempo donare grande riconoscibilità, il che certamente aiuta nelle battaglie per accaparrarsi posti di rilevanza negli store online come quello di Nintendo Switch.
Un uomo su undici nel mondo soffre di qualche forma di daltonismo, nelle donne il dato si abbassa ad una su duecento. Le tipologie più diffuse sono protanopia, la cecità al rosso, e la deuteranopia, ossia quella al verde. Mentre nelle altre forme di intrattenimento, come il cinema, questo tipo di patologia non va a minare la qualità dell’intrattenimento finale, purtroppo nel campo dei videogiochi può risultare un deterrente. Il caso più classico riguarda la distinzione di nemici e alleati nei giochi multiplayer: i colori tipicamente scelti per l’identificazione sono rosso e verde, che possono risultare completamente indistinguibili ad alcuni soggetti. Fino a pochi anni fa gli interventi sono sempre stati insufficienti, mentre ultimamenti diversi sviluppatori hanno fatto molti passi in avanti per aumentare il livello di accessibilità dei loro prodotti. Tra i più meritevoli vanno sicuramente citati Ubisoft e Activision che in giochi come Tom Clancy’s The Division 2 o Destiny 2 hanno inserito una pletora di opzioni per ovviare ai problemi di vista. Queste opzioni spesso sono delle semplici ricolorazioni delle tonalità critiche. Altri sviluppatori si sono invece spinti verso soluzioni più radicali ed efficaci: in FTL, gli artisti di Subset Games hanno non solo ricolorato aree rosse e verdi, ma anche aggiunto particolari pattern a strisce per aumentare la riconoscibilità di alcuni segnali del gioco; in Grand Theft Auto V i punti di interesse sulla mappa sono constraddistinti non solo da colori ma anche da iconografie specifiche. Questo ci fa pensare ad una cosa: rendere un videogioco realmente accessibile non significa adattarlo una volta completato, ma saperlo progettare fin dall’inizio per diversi livelli di lettura a cui tutti possano facilmente accedere indipendentemente dalle proprie capacità.
Concluso il quinto episodio di ArtCafé abbiamo una generale panoramica di ciò che vediamo a schermo mentre giochiamo. Tutto ciò di cui abbiamo parlato finora sarebbe però statico e privo di vita senza il lavoro degli animatori, di cui parleremo nel prossimo episodio. Intanto fatemi sapere quali sono i videogiochi i cui colori vi hanno stupito maggiormente!
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Sempre al top Emanuele!
sono contento ti piacciano gli articoli! 😀
Bellissimo articolo! Complimenti!
Che bella questa aria fresca nel mondo del giornalismo videoludico !
Bellissimo articolo!