Amo gli sparatutto. Può sembrare un’osservazione banale, e lo è, ma i first person shooter sono davvero una componente enorme del mio essere videogiocatore. Questa piccola premessa mette a fuoco la centralità che per anni due colossi del settore come Call Of Duty e Battlefield hanno avuto (ed in parte hanno) nella mia vita. Prima di loro la mia (giovane) carriera di videogiocatore si era fregiata di numerosi esponenti del genere: Red Faction II, XIII, Warrock (mio personale apripista nel genere degli sparatutto online, da cui ho mutuato l’ossessione per il rapporto uccisioni/morti e l’amore per il Famas) ed il suo gemello Combat Arms, Halo: Combat Evolved, SWAT , Black e chi più ne ha più ne metta. Avendo iniziato a giocare a ridosso del duemila ho subito l’influsso di una grossa fetta di shooter che riprendevano la formula dei vari Doom, Quake ed Unreal Tournament e le loro arene piene di power up, mentre altri erano figli di Counter Strike (a sua volta figlio di Half Life, vero spartiacque del genere).
Quello che voglio fare con questo articolo è ripercorrere la mia carriera da soldato virtuale tra aneddoti e vicende personali che mi serviranno a narrarvi chiaramente ciò di cui sto parlando, per esprimere al meglio il mio rapporto con i vari titoli delle due saghe e del perché ho deciso di abbandonare l’una in favore dell’altra. Senza ulteriori indugi iniziamo dalla premessa di questo flusso di coscienza che a conti fatti è un diario, può un appassionato di Call Of Duty ripudiare la propria saga del cuore in favore di Battlefield?
Ebbene, è quello che mi è successo. Ma andiamo con ordine, dalla genesi del mio dualismo Call Of Duty/Battlefield. Il mio primo vero Call Of Duty è stato World At War, mio secondo o terzo gioco della allora next gen rappresentata dalla Xbox 360. Il primo vero online, la prima indimenticabile campagna (tante citazioni cinematografiche che me lo hanno fatto amare, su tutte il livello del cecchino ripreso da Il Nemico Alle Porte con Jude Law), una grafica spaccamascella per chi era abituato a giocare Call Of Duty 2: Big Red One sulla PlayStation 2. Un mix letale, e dire che nel bundle che comprai uscì anche un certo Battlefield 2, gioco mai realmente apprezzato, quando c’era ancora quel gusto naif nello scegliere il gioco preferito in base a quanto ti prendeva la campagna in single player.
Questo confronto è puramente soggettivo e si basa principalmente sull'esperienza multiplayer che i due giochi offrono, al netto delle modalità accessorie. Non dico che un approccio è giusto e l'altro è sbagliato, lungi da me, sono stato e sono da anni fruitore di entrambe le tipologie e sto esprimendo un'opinione basata sul mio gusto personale ed attuale, che non corrisponde a quello che avevo dieci anni fa e probabilmente non corrisponderà a quello che avrò tra altri dieci.
Lo ammetto, all’epoca (natale 2008) ero nel pieno dell’adolescenza, e tra le prime cotte videoludiche – e non – andavo molto appresso alle mode. Così quel Battlefield che trovavo spesso deserto durante i matchmaking e mi risultava strano per quel modo di approcciare la campagna in cui, una volta morto, invece di ricominciare daccapo il livello semplicemente impersonavi un altro soldato con diverso equipaggiamento non riuscivo a trovarlo ugualmente adrenalinico quanto l’impersonare il Victor Reznov o il Soap MacTavish di turno. Vai a sapere che col tempo l’avrei trovata una idea molto sensata ed accattivante, capace di immergerti in quella guerra a 360° che, personalmente, solo Battlefield è riuscita a riprodurre.
Facciamo un leggero flashforward, un salto in avanti, bello lungo ed arriviamo per un attimo a Battlefield One: la campagna che ormai mi limito solo ad iniziare per fare da benchmark alla mia RX580 da 8 giga nuova di zecca mi ha subito catturato per questo feeling da guerra campale, in cui (nelle prime battute) non si impersona un singolo soldato come succedeva in Bad Company o più genericamente in qualsiasi Call Of Duty, ma si vive il plotone, la trincea, con tanto di piccola biografia alla morte di ogni nostro soldato mentre il conflitto continua inesorabile, dandoci la percezione di quante vite siano consumate dalla guerra. Questo approccio ti rende parte dell’armata piuttosto che farti sentire il Rambo di turno capace da solo di risolvere la guerra. Questo escamotage rende molto più il senso di verosimiglianza che la serie vuole trasmettere, e personalmente trovo sia questo il vero nodo della questione, il vero fattore che mi ha fatto riflettere su cosa effettivamente differenzia le due produzioni:
La guerra in Call Of Duty è più basata sulla capacità del singolo che con le proprie giocate può fare maggiormente la differenza, mentre nello shooter DICE il senso di “normalizzazione” del soldato è maggiore, rendendolo parte di una macchina più complessa. Volendola fare semplice, Call of Duty privilegia l’1v1 o comunque gli scontri dove l’abilità ed i riflessi del giocatore emergono con più facilità, mentre in Battlefield spesso ci si ritrova contro una fiumana di giocatori al fianco dei propri compagni e bisogna giocare più d’astuzia che di bravura, magari sacrificando l’azione per dedicarsi alla cura degli alleati o al piazzare esplosivi da utilizzare contro i mezzi pesanti nemici che spesso costringono ad azioni kamikaze.
Le due serie in fin dei conti hanno modalità di gioco paragonabili ma mantengono comunque un’anima profondamente diversa, questo è dettato dalla struttura molto simile delle due saghe: Call Of Duty non permette di rivitalizzare i compagni o di fornirgli munizioni supplementari, non ha una gestione della squadra per cui ogni fazione viene divisa a sua volta in piccoli plotoni da cinque giocatori guidati da un leader col compito di impostare l’obiettivo da attaccare o difendere, oppure di modificare le classi durante la partita in base alle esigenze del momento. La formula del blockbuster Activision è più schematica e pronta, c’è un’arma primaria ed una secondaria, una granata esplosiva ed una tattica, ci sono dei perk che migliorano le abilità spesso in maniera anche pesante, e ci sono gli accessori per le armi come mirini, caricatori modificati, silenziatori che vanno sbloccati compiendo un tot di kill ed alla progressione del livello, semplicemente lo scopo è uccidere.
Battlefield negli anni ha variato la formula, permettendo in base al periodo storico una maggiore o minore personalizzazione delle armi. Il massimo è probabilmente Battlefield 3 che permetteva di integrare torce e lanciagranate oltre ai vari mirini, mentre la formula più tradizionale di Battlefield One vuole una scelta più scarna dovuta alle necessità della prima guerra mondiale, in cui le armi da fuoco non avevano tutte le variazioni e le possibilità di oggi, permettendo l’aggiunta di una baionetta e di un mirino metallico, ottico o telescopico in base alla classe e di una granata da fucile nel caso del medico. Oltre queste possibilità ce n’è una in assoluto che mi ha affascinato: il poter selezionare il fuoco della propria arma, e scegliere in totale autonomia se il proprio fucile debba sparare in modalità automatica, semiautomatica o manuale in base alla distanza dal bersaglio, cosa che Call of Duty non permette.
Altra differenza sostanziale sono le killstreak, le ricompense per serie di uccisioni presenti in Call Of Duty, che possono essere missili teleguidati (Predator), un bombardiere da cui lanciare razzi (AC-130) fino ad arrivare alla storica testata nucleare di Modern Warfare 2. In Battlefield siamo noi la killstreak quando guidiamo un caccia bombardiere e planiamo sul campo nemico cospargendolo di bombe a grappolo. Ma la serie Electronic Arts è più clemente da questo punto di vista e concede ai nostri avversari la capacità di difendersi con mezzi equivalenti o con aggeggi studiati per questo tipo di evenienze, come lanciagranate terra-aria e mine anticarro. Semplicemente in Battlefield lo scopo è anche uccidere, ma soprattutto collaborare per vincere, non a caso viene dato enfasi a questo aspetto dotando il giocatore di gadget inoffensivi che favoriscono il gioco corale.
Le diverse filosofie di gameplay si ripercuotono anche sull’estensione delle mappe, che variano profondamente. Call Of Duty ha sempre privilegiato le arene, gli scontri in aree contenute che vanno da un minimo come Rust (il luogo per eccellenza dove vendicare un’umiliazione in Modern Warfare 2) ad un massimo come quelle di World At War, tra le più estese della serie. Gli scontri in Battlefield avvengono in base alla modalità in mappe a volte troppo estese, perché essendoci i veicoli a disposizione quando non si ha lo spawn pronto presso i compagni di squadra o la possibilità di ottenere un passaggio c’è anche la necessità di correre una trentina di secondi nel nulla per raggiungere il fulcro dell’azione. Questo accadeva per lo più nei Battlefield di qualche anno fa ed esclusivamente per la modalità Conquista, mappe come Caspian Borders potevano essere una spina nel fianco.
Con Battlefield One la situazione è migliorata, dato che ora le mappe estese all’inverosimile sono più contenute e “dense” di giocatori, quindi difficilmente si faranno scampagnate lunghe come in passato. Altra particolarità delle mappe di Battlefield è la divisione in settori: campi di battaglia incredibilmente estesi sono divisi in pezzettini che vanno affrontati di volta in volta dopo aver completato un settore, questo accade nella modalità Operazioni inaugurata con One e nella classica Corsa, figlia della Corsa all’Oro di Bad Company, con Call Of Duty che recentemente ha ripreso questa formula in WWII con la modalità Guerra (trovate qui la recensione del nostro Matteo Santicchia).
L’approccio DICE rende ogni partita enormemente variegata e ricca di possibilità, che aumentano esponenzialmente grazie alla enorme distruttibilità del Frostbite Engine rendendo il campo di battaglia ancora più spietato, infernale e mutabile. In questo discorso rientra anche l’effetto spaccamascella dovuto al Levolution, quella caratteristica introdotta in Battlefield 4 per cui l’ambiente di gioco è completamente interattivo. Ciò significa poter sigillare porte blindate, far suonare l’antifurto di un auto se ci troviamo nei paraggi ma soprattutto triggerare mastodontiche esplosioni che modificano pesantemente lo scenario di gioco, rendendo mappe urbane una laguna stile Venezia cambiando radicalmente approccio e costringendoci ad utilizzare mezzi anfibi per spostarci. Saltare dalla cima di un grattacielo che sta per esplodere e guardare il colosso infrangersi sul resto della mappa mentre si plana col paracadute è una delle scene più epiche che siano mai state possibili in un videogioco.
Le mappe ed il gameplay sono naturalmente in stretta relazione con le modalità di gioco. Come detto, non c’è una reale differenziazione tra le possibilità dei due brand, anche se l’effetto finale è innegabilmente diverso. Negli anni la formula principale di Call Of Duty è sempre stato il Deathmatch a Squadre, un gradino dietro Dominio, Uccisione Confermata e Tutti Contro Tutti (o almeno, storicamente ho sempre notato che l’80% dei giocatori connessi privilegiavano queste modalità) ed il Cerca & Distruggi, la modalità più tattica e compassata della serie che segue il vecchio canovaccio à la Counter Strike giocabile in due team da cinque giocatori l’uno in cui l’obiettivo è far detonare o difendere le cariche esplosive. A completare l’elenco Quartier Generale, Cattura la Bandiera, Sabotaggio (tra le classiche).
Anche Battlefield logicamente integra modalità classiche come il Deathmatch e Dominio (Conquista), ma le necessità del gioco di squadra (che comunque non è secondario in Call of Duty per quanto riguarda le modalità più strategiche alla C&D) sono vitali nell’economia della partita. Questo meccanismo risalta particolarmente con i ticket, cioè il numero di rientri concessi alla squadra attaccante. Caratteristica storica della modalità Corsa, che adesso ha ceduto il passo alle Operazioni in quanto a popolarità, vede attaccanti e difensori contrapporsi con i primi che hanno un tot di ticket per portare a termine il compito: attivare le bombe del settore e farle esplodere per poi avanzare al prossimo oppure conquistare le basi occupando i due o tre obiettivi per progredire nella mappa, rivivendo al contempo le battaglie storiche della Grande Guerra ricostruite ed adattate per lo scontro online.
Con l’avvento di fenomeni mediatici come Fortnite e Playerunknown’s Battleground è esploso il genere dei Battle Royale, vero e proprio fenomeno di massa che come auspicabile ha coinvolto anche i nuovissimi Black Ops IIII (IV), trovate qui un gameplay del nostro Tanzen, e Battlefield V, che non si sono lasciati sfuggire l’occasione di sfruttare la moda del momento. Vedremo in altre occasioni i risultati.
Dopo questo focus sulle caratteristiche dei due brand ritorniamo a quel natale del 2008. Prima di allora avevo già avuto un approccio poco appassionato con lo spin off Call Of Duty 2: Big Red One su PlayStation 2. Ambientato ancora nella seconda guerra mondiale combattevamo tra le file del plotone Big Red One, solite schermaglie da seconda guerra mondiale che non mi interessavano più di tanto dato che all’epoca dovevo già studiarla a scuola, inoltre volevo divertirmi con le armi dei conflitti più recenti. Fu proprio la componente multigiocatore quindi a fare di quel World At War il primo Call Of Duty sul quale avrei passato decine di ore che pian piano mi catapultarono in quella che per me fu l’epoca d’oro degli FPS.
Fu così che una delle tante domeniche passate in famiglia mi portarono a casa di mio zio, che aveva appena messo le mani su una PlayStation 3 nuova fiammante regalata a mia cugina, che la usava per i BluRay di Harry Potter e poco altro. Mosso da una gran curiosità iniziai a provare i vari titoli che le erano stati regalati: Resistance: Fall Of Men, carino ma nulla di trascendentale, Motostorm, diametralmente opposto al ‘mio’ Need For Speed ma decisamente divertente, Genji: Days of the blade, cruento ma che non appagava la sete di sangue che avevo iniziato a provare con World At War. Dopo un pomeriggio in avanscoperta noto seminascosto un certo Call Of Duty: Modern Warfare. Magari il destino aveva cercato di nascondermelo prevedendo quanto male avrebbe fatto alla mia vita sociale, o magari mio zio non voleva che glielo usurassi. Chissà. Fatto sta che se qualcuno è familiare con il concetto joyciano di epifania, ecco, penso questa descriva perfettamente quanto fu importante quel momento nella mia adolescenza. Dopo aver spolpato World At War ero inaspettatamente venuto a contatto con un altro Call Of Duty, con armi e conflitti attuali. Fu letteralmente la fine.
Pomeriggi, sere, notti: per la prima volta mi stavo “infognando” in un gioco online (non è del tutto vero, c’erano stati i bei tempi di Warrock, anziani only). La campagna finita e strafinita a difficoltà normale, poi veterano: quanto sudore (e bestemmie) ma alla fine riuscì ad ottenere il mio 1000/1000 che all’epoca era il mio personale omaggio ai titoli che più mi avevano preso (in buona compagnia di Need For Speed: Undercover e Fallout 3). Ricordo ancora l’obiettivo finale, Club Mile High, in cui bisognava fare il mini-livello dell’aereo a veterano in meno di un minuto, in cui dovevi correre all’impazzata tra le decine di granate e proiettili nemici e come se non bastasse una volta arrivato alla cabina di pilotaggio bisognava anche centrare la testa del dirottatore senza ferire l’ostaggio. Arrivare fin lì e sbagliare il colpo decisivo era un biglietto di sola andata per l’inferno. Il primo Modern Warfare fu il mio lasciapassare per il dorato mondo del multiplayer online, era come una droga analogica alla quale potevi accedere solo impugnando il joypad. Veloce, gratificante, giocato in compagnia era il top, riportava la guerra ai tempi moderni ponendo nuovi standard coi quali pezzi da 90 quali Bad Company, Rainbow Six Vegas 2 e persino il fantascientifico Halo 3 dovettero fare i conti.
Dal natale 2008 in poi ci furono varie comparse sulla mia fida 360: quelli che più andarono vicini allo staccarmi da Modern Warfare furono Halo 3 e Pro Evolution Soccer 2008, seguiti poi da Bioshock e Fallout 3 che colpevolmente abbandonai per poi spolparli qualche anno dopo. Fino al 2009 fu un regno quasi incontrastato, finchè arrivò novembre. Qualche settimana prima, in preda ad un raptus del tutto nuovo, passando da Gamestop (ah, l’ingenuità) ero venuto a sapere che a novembre sarebbe uscito niente popò di meno che Modern Warfare II.
Ricordo che a stento riuscì a trattenere l’emozione, e facendomi due conti pensai: se in tre anni sono usciti tre Call Of Duty, significa che ogni anno avrò un fantastico CoD nuovo con cui saziare la mia sete di sangue. Va’ a pensare che qualche anno dopo rimpiangerai questa scelta di monetizzazione feroce di Activision. L’altro conto che feci, e ben più salato, lo feci col mio portafogli. Tanta era l’emozione che non potevo accontentarmi della edizione normale di Modern Warfare II, macché, avevo bisogno della Hardened da ben 80€! Che poi all’epoca manco ti davano qualcosa per il preordine, ma in compenso avevi una fantastica sovraccoperta in plastica, un artbook ed una steelbook. Ero ormai un piccolo fanatico di Call Of Duty a tutti gli effetti.
Giunto finalmente il 10 novembre andai a ritirare la mia copia personale, corsi a casa e iniziai a giocare. All’epoca (…) non c’era bisogno di installare i giochi, almeno sulla Xbox, quindi non si dovevano patire le pene dell’inferno per aspettare il download di quella decina di giga. Nel 2009 non ero ancora disilluso dalla campagna in singolo e ripresi con piacere l’epopea di Soap MacTavish, il Capitano Price e Ghost. Non ricordo tantissimo della campagna, che comunque mi piacque, ma ricordo alla perfezione le mini missioni. Era la risposta di Infinity Ward, i creatori della saga Modern Warfare, alla modalità Zombies di Treyarch, che si occuparono di World At War prima e dei Black Ops poi.
Queste missioni erano divertenti e tutte diverse tra loro, il livello di sfida era davvero alto e giocate con amici online erano la fine del mondo. Anche qui persi giorni su giorni per accumulare i 1000G e subito mi lanciai nel gioco online. Francamente non trovo parole per descrivere il mio attaccamento a questo gioco, quante migliaia di partite e centinaia di ore io abbia investito in quell’esperienza. Era sostanzialmente il primo Modern Warfare, ma meglio. Tantissime armi (Famas su tutti), esplosivi, perk, accessori e modalità, le mappe curatissime, tra cui Highrise la mia preferita in assoluto. Quello a cavallo tra il 2010 ed il 2012 fu la mia personale età dell’oro per quanto riguarda gli FPS.
Tra una sessione online e l’altra c’erano degli intervalli che mi piace chiamare “vita sociale”. E’ un macrocosmo in cui metto lo studio, gli amici, il mangiare ed il dormire. Durante uno degli sporadici momenti di vita vissuta andai in giro per il centro commerciale di zona, tra un negozio e l’altro mi imbatto in uno di quegli scatoloni dove sono gettati alla rinfusa tanti prodotti in offerta. Personalmente mi piace tantissimo scavare alla ricerca dell’offerta, così dopo un po’ mi imbatto in quella che sarà un’altra svolta della mia esperienza da first-person-shooterista: una spilla gialla con uno smile attaccata ad una granata, e sopra la scritta Bad Company. In un primo momento penso “un altro Battlefield” dopo quello giocato un paio d’anni prima e quasi lo poso, ma poi mi soffermo a leggere le recensioni online e decido che è troppo caciarone per essere lasciato a marcire in quel cestone.
Modern Warfare II non sparisce, anzi, fior di prestigi e di mimetiche autunno hanno rubato il mio tempo per molti mesi a venire, ma quel Bad Company fu una piacevole sorpresa che se non altro variò la mia routine videoludica. Distruzione degli ambienti, gameplay gratificante e mezzi terrestri ed aerei che sbucavano ovunque: stavo gradualmente gettando le basi per la fase 2.0 del mio dualismo Battlefield-Call Of Duty. Era un periodo colmo di soddisfazioni e lo capì quando l’Inter vinse il Triplete. Dopo aver terminato la storia ed aver fatto la conoscenza della memorabile Bad Company (e del Carrosaurus Rex di Haggard) era praticamente già arrivato il momento di andare a ritirare la mia Hardened Edition di Call Of Duty: Black Ops, il Call of Duty nuovo di pacca made in Treyarch che mi intrigava ma non troppo, non essendo un Modern Warfare.
Fatto sta che qualcosa si rompe nel mio rapporto con la serie. Dopo averci giocato quasi senza sosta per tre o quattro mesi, a neanche metà 2011 inizio man mano ad accantonarlo. Sarà perché finalmente stavo scoprendo l’altra mia grande passione, i giochi di ruolo occidentali open world (leggasi: Fallout 3 e Skyrim), ma anche la diaspora di tanti amici che non avevano apprezzato Black Ops ed il conseguente annoiarsi senza una community stabile come era stato per Modern Warfare 2. Eppure i pregi erano tanti: la storia mi era piaciuta particolarmente, carino il risvolto psicologico ed il colpo di scena di Reznov, così come la colonna sonora dei Rolling Stones azzeccatissima. Di mio gusto fu anche la prima vera personalizzazione degli emblemi e la modalità Zombies, ma quello che più mi fece storcere il naso fu il gunplay: semplicemente scialbo, era come se l’arma mancasse di concretezza rispetto al feedback dei capitoli precedenti, non era la sensazione a cui ero abituato.
Svanita l’euforia iniziale e notando che giocavo sempre più spesso a Modern Warfare II decisi di dare una chance a Bad Company II, uscito nello stesso periodo di Black Ops, per cercare di ampliare i miei orizzonti. Con mia grande sorpresa il gameplay era addirittura migliorato e la storia non aveva perso quell’alone “spensierato” che l’aveva fatto risaltare all’epoca del primo capitolo, nonostante continuassi ad essere incapace nel competitivo a causa delle abitudini troppo irruente acquisite a furia di consumare i vari Call Of Duty. Approfittando del vuoto lasciato da Black Ops approfondì la conoscenza col Frostbite Engine rimanendo stupito di quanto potesse essere avanti rispetto alla vetustà dell’IW Engine .
Con l’arrivo dell’estate iniziai a spulciare i vari siti di informazione videoludica cercando informazioni su Modern Warfare III, convinto che tornerò ad amare il brand alla follia. Eppure la scintilla non è mai scattata, nonostante le buone intenzioni ci fossero tutte. Andò a finire che non solo non lo preordinai, ma ad oggi non l’ho mai comprato. Naturalmente l’ho giocato, ma era troppo simile al precedente capitolo e senza quella novità che mi spingesse ad acquistarlo. Nel frattempo il più truce dei tradimenti stava per compiersi: mentre Modern Warfare 3 ai miei occhi stentava, DICE stava per sfornare il più bel FPS che potessi mai immaginare: Battlefield 3.
Dopo tanti anni di Call Of Duty sentivo semplicemente l’esigenza di evolvere. Non in meglio, semplicemente la mia concezione di gioco online stava cambiando. Guardare il trailer qui sopra mi fece sentire come quando giocai per la prima volta online a World At War, una sensazione di stupore continuo mi pervadeva tanto da non credere ai miei occhi. Quel gioco aveva tutto: ambienti distruttibili (che nostalgia i bei tempi di Red Faction!), mezzi anfibi e volanti, partite da 32 vs 32 e mappe superbe come Operazione: Metro, che metto alla pari di Highrise tra le più belle a cui abbia giocato nella mia vita.
Battlefield 3 per il mio io giocatore era semplicemente la vita, non potevo farne a meno. Quando comprai il gioco ed iniziai a giocarci ancora non avevo fatto l’abitudine al gameplay ed alle meccaniche della serie ma fu amore incondizionato, nonostante non avessi degli amici con cui fare squadra dato che erano tutti rimasti a giocare a Call Of Duty. Passare definitivamente dal cecchino di MW2 che fa quickscope a destra e a manca a quello dalla lunghissima distanza di Battlefield (con la traiettoria effettiva dei proiettili) è un trauma non da poco, come anche impugnare un M16 dopo aver già provato l’omologa concezione di Infinity Ward. Ma a furia di giocarci ci si prende la mano e si iniziano a scoprire le enormi potenzialità dei titoli DICE.
La cosa interessante è che non solo Battlefield 3 ha segnato un punto di svolta deciso nel mio gusto per gli sparatutto, ma ha anche sancito il giocatore che sono oggi. E questo perchè Battlefield 3 su Xbox 360 ha un difetto terribile: il massimo dei giocatori in partita è 32, grossomodo lo stesso numero di quanti se ne trovavano in Call Of Duty, il che era ben lungi dall’idea di guerra totale che mi ero fatto dai trailer. Colmo di delusione cerco spiegazioni in rete, e vengo fulminato sulla via di Damasco: quella mostrata nei trailer è la versione PC, che permetteva ben 64 giocatori online contemporaneamente, oltre ad una grafica nettamente superiore.
Mai prima di allora mi ero chiesto se valesse la pena di diventare un master race ma d’impulso decisi che ne valeva la pena.
Ricordo benissimo il periodo, era l’anno della maturità sia scolastica che anagrafica e avevo messo via un bel po’ di soldi. Decisi dopo lunghe ricerche di investire un tesoretto di circa millequattrocento euro (1 4 0 0 €!) per la creazione della mia macchina, che mi avrebbe permesso nel 2012 di godere a pieno delle possibilità di Battlefield 3. Capeggiata da una GTX 670, tra l’altro recentemente dipartita, avevo tutto per godermi quell’esperienza mirabolante e ciò che ne conseguì valeva decisamente la pena. Da un momento all’altro mi ero ritrovato dall’essere un boxaro coddaro ad un masterrace bìeffaro (ma che sigle sono?), estremamente contento delle esperienze che quei giochi mi avevano concesso. Purtroppo come già dopo l’uscita di Modern Warfare 2, anche un paio d’anni dopo essermi sfrenato su Battlefield 3 ebbi una sorta di crisi di vocazione.
Il post Battlefield 3 mi lasciò sostanzialmente appagato e, diciamocela tutta, i capitoli successivi delle due saghe non avevano la stoffa dei predecessori. Sul versante Call Of Duty Black Ops II non aveva l’appeal del primo, nonostante potesse giocarsi cartucce interessanti nella campagna in singolo. Lo recuperai ad una decina di euro alla fine del suo ciclo vitale per giocarci sporadicamente, dato il suo approccio veloce e gratificante che in determinati momenti mi portava a preferirlo al Battlefield di turno. Dopo di che tante meteore che ho solamente giocato di striscio, nel senso che non li ho neanche comprati: Ghosts, Advanced Warfare (con Kevin Spacey nel cast), Infinite Warfare, mi hanno sempre dato l’idea di cloni dalla formula stantia e ripetitiva, giocati comunque per vie trasverse (tra le mie amicizie ho uno zoccolo duro di irriducibili di CoD). Piccola eccezione per quanto riguarda Black Ops III, che per quanto non rappresenti un’innovazione nel genere nè tantomeno nella serie porta comunque il marchio di fabbrica di Treyarch e questo si nota.
Dall’altro lato invece la scelta non era tanto ampia. In sostanza tra l’uscita di Battlefield 3 (2011) a Battlefield One (2016) ci sono stati solamente Battlefield 4 nel 2013, gioco ben fatto e con ottimi spunti come il già citato Levolution, troppo simile a Battlefield 3 per convincermi ad acquistarlo, e Battlefield Hardline del 2015, spin off interamente sviluppato da Visceral Games (Dead Space) che portava delle buone idee e immergeva il giocatore nella lotta tra crimine e polizia in un contesto interamente cittadino. Massiccia (e spettacolare) la presenza del Levolution, il gioco non rispettò le aspettative e fu anche abbandonato piuttosto presto da EA, esperimento che aveva dell’ottimo potenziale ma doveva lasciare il posto all’imminente Battlefield One. Chissà se gli fosse stata concessa più fiducia.
Venendo ai giorni nostri, e chiudendo finalmente questo excursus, arriviamo ai tempi di Battlefield One. Già citato numerose volte, è stata la svolta che mi ha fatto tornare ad amare il genere, che per troppi anni ho accantonato (in realtà ho preferito cimentarmi in nuove sfide: Counter Strike: Global Offensive e Destiny 2 in primis). Personalmente ha stravinto la sfida con Call Of Duty: WWII che ha segnato il ritorno ad un tempo in cui i soldati non volavano (finalmente), questo nonostante l’introduzione di alcune interessanti migliorie rispetto alle ultime uscite : la già citata modalità guerra, la possibilità di riparare e fortificare mura e ponti per facilitare la difesa in maniera simile a quanto già succedeva nella modalità zombies su tutti.
Ho recuperato Battlefield One solo da pochi mesi, in un noioso e arido pomeriggio d’agosto. Preso per due spicci, il primo approccio con quelle armi all’apparenza così simili e che garantivano una varietà minore persino rispetto a quelle della seconda guerra mondiale sembravano presagio di un amore destinato a non sbocciare, ma con un po’ di fiducia il titolo ha iniziato a prendermi. A partire dall’inedito terreno di scontro fatto di trincee e campi di battaglia mai calcati (dal sottoscritto) prima, in cui non ci sono buoni e cattivi come nel secondo conflitto mondiale, o meglio qui le maglie che separano bianco e grigio sono più larghe. La nuova modalità Operazioni, chiaramente un lascito di Corsa (che rimane) ma che va a porre l’accento su conflitti veramente accaduti con tanto di scena narrata che spiega il contesto storico.
Un altro punto forte sono tutta una serie di elementi tipici del periodo che difficilmente rivedremo in altri giochi: il soldato a cavallo dotato di lancia o sciabola o i cosiddetti behemoth cioè particolari macchine che subentrano in caso di sconfitta grave da parte di uno dei due team e che variano in base al tipo di mappa: il fantastico Zeppelin L30, il famoso dirigibile di matrice tedesca che ha visto la luce nel 1916, il Dreadnought, la corazzata navale inglese il cui significato è “non temo nulla”, ed il treno corazzato modellato sulla fattezze dello Zaamurets usato dai russi nella guerra di Odessa del 1918.
A riguardo della storicità di Battlefield One, sento di dovermi brevemente esprimere sulle polemiche circa la fedeltà storica. E’ decisamente andare oltre lo scopo di un gioco come Battlefield One realizzare una simulazione della prima guerra mondiale in stile Verdun o un trincea simulator così da snaturare l’anima del gioco, perché per quanto DICE possa voler realizzare un gioco storicamente attinente alla realtà c’è comunque un margine che un FPS moderno non può trascendere, ed è la necessità dell’azione, del fast pacing cioè del ritmo sempre alto. Se questo viene meno, il giocatore non è invogliato a proseguire l’esperienza e passa oltre (sorvolando una nicchia di appassionati, come i giocatori di ArmA).
Stesso discorso per i polemici della domenica che lamentano la presenza delle donne all’interno di Battlefield V. E’ una critica da un lato sì condivisibile, fintanto che non si cade nella ridondanza. EA può probabilmente essere considerata furba più che di vedute eccessivamente ampie nell’inserire le donne in un gioco che ha la pretesa di essere storicamente attendibile, perché sappiamo che le donne non calcavano tra il ’14 ed il ’18 i campi di battaglia. Detto ciò, siamo all’interno di un medium in continua evoluzione che deve farsi ogni tanto portavoce di valori (anche se probabilmente non era questo lo scopo di DICE, ma semmai il rendere il gioco appetibile anche ad un pubblico femminile) e tra questi ci deve essere l’uguaglianza di genere. L’ultimo dei casi che ha fatto discutere in merito riguarda Red Dead Redemption II e le percosse alle femministe, per cui uno youtuber è stato anche sospeso.Considerando questo assunto, ci si potrebbe rendere conto dello stato delle cose ed accettarle per come sono, senza lamentarci della poca aderenza alla realtà del titolo.
Mi auguro perdonerete questa mia parentesi ma è utile a concludere questa mia personalissima retrospettiva del confronto Call Of Duty vs Battlefield, fatta di tanti pareri e dati poco oggettivi che rispecchiano di come io abbia cambiato necessità nel corso degli anni. Più che un’analisi sui pregi ed i difetti delle due serie ho voluto raccontare innanzitutto qual è stata la mia esperienza e quali sono gli aspetti dell’una e dell’altra serie che mi hanno spinto a giocare ad un titolo piuttosto che ad un altro, in maniera del tutto super partes dato che sono molto affezionato ad entrambe le serie. Un’altra postilla che sento doverosa è che sebbene ci siano periodi di magra in cui gioco ad altro, uno spazio per entrambe lo riesco sempre a trovare, dato che la gratificazione che regala il genere è ormai entrato indelebilmente nel mio animo e mi è preclusa l’astinenza dagli sparatutto.
Il mio viaggio mi ha portato dopo almeno dieci anni dall’essere un appassionato di Call Of Duty a preferire l’approccio DICE che mi ha rapito data la sua natura corale e molto più libera. Decidere di attaccare una base nemica a bordo di carri armati o il distruggere le fondamenta dell’edificio facendo precipitare i piani del nemico (oltre al nemico stesso), scegliere quasi ogni componente di gioco dal rateo di fuoco alla divisione dei compiti nel team, sono tutte possibilità che ora ho imparato ad amare e che col senno di poi mi fanno guardare con scetticismo all’estrema chiusura della serie Activision, più “pronta” ed immediata ma anche meno personalizzabile. Il bello però dell’essere giocatori è che non sai mai cosa giocherai.
Per quei pochi che saranno arrivati alla fine della lettura, eccovi una medaglia. Quale sceglierete? Qual è il percorso che vi ha portato fin qui? Perché preferite l’una o l’altra? Mi raccomando, fatecelo sapere nei commenti!
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