Ho combattuto migliaia di volte in vari angoli del pianeta. Sono stato sergente della Task Force 141 e del 22º Reggimento SAS britannico, e ho eseguito azioni di infiltrazione e spionaggio dietro le linee nemiche. Ho fatto anche parte della 1ª Forza da Ricognizione dei Marines degli Stati Uniti in medio oriente durante il colpo di Stato guidato dal criminale Khaled Al-Asad e partecipato a delle missioni segrete per la CIA tra Bolivia, Cile e Colombia.
Spesso sono stato colpito, tante volte ferito. Sono morto, ma dopo pochi secondi mi sono rialzato e sono ripartito più agguerrito che mai. Ho fatto parte anche dei Navy Seals Team Six in Afghanistan, e ho partecipato all’operazione Overlord durante la Seconda Guerra Mondiale. Sono stato tante cose, il sergente Gary “Roach” Sanderson, il soldato di prima classe Ronald “Red” Daniels e il soldato Preston Marlowe. Sono stato tutto e niente. Sono stato un videogioco.
“Ma non è una guerra, è solo una replica convincente. Dove chiunque può essere un eroe, compiere azioni fuori dall’ordinario e nessuno muore davvero”. Anche Yūsuf, come me e milioni di altri giocatori, è stato tante volte uno dei personaggi di Call of Duty, Battlefield e Medal of Honor. Oggi non è più un giocatore: tiene in mano un fucile al posto del joypad, e combatte tra i ribelli contro il regime di Bashar al-Assad. Un conflitto vero, sporco, violento. Dal “vivo”, non sullo schermo di una televisione.
Venerdì mattina, Kafr Takharim, a nord del governorato di Idlib. Il bivacco è semplice. Coperte sintetiche e per riparo rifugi ricavati tra le rovine delle abitazioni e dei negozi che un tempo animavano la città coi suoi abitanti. Per ora è questa la sua “casa”: sua e di una quindicina di suoi compagni. “Amavo quei giochi — racconta Yūsuf accennando a un sorriso, mimetica e barba scura che non nascondono i suoi 22 anni—, anche se negli ultimi tempi avevo scoperto ArmA II, molto più realistico”.
Però fino a un certo punto: credibile quanto vuoi, ma… “La realtà è diversa — dice mentre il ricordo di un momento spensierato della sua giovane vita lascia spazio al rimpianto —, è sangue, dolore, morte e distruzione. Se cadi, non ti rialzi più. Se muori, non c’è modo di rientrare, non ci sono check-point da cui ripartire. Sei finito e basta”.
Attaccare, sfrecciare verso il nemico mentre i proiettili ti fischiano intorno. Tutto molto bello, ma quando succede sullo schermo. Quando sei davvero sotto il fuoco nemico, e vedi i tuoi compagni cadere al tuo fianco in esplosioni di sangue e carni, è terribile. Non c’è gloria, non c’è epicità. Ma anche uccidere non è facile, nel mondo digitale non ci sono considerazioni morali ed etiche.
“Nei giochi uccidi decine di “pupazzi” senza una vera identità, nella vita vera sono esseri umani come te. Qui si è combattuto per molto tempo contro i nostri vicini, a volte perfino fratello contro fratello, padre contro figlio”.
Allora si era in un contesto di guerriglia urbana, c’erano dei cecchini che sparavano a caso dalle finestre, e si combatteva da un quartiere all’altro senza esclusione di colpi, prima delle infiltrazioni jihadiste, dell’ISIS e delle potenze arabe e occidentali. “Vedere qualcuno a terra moribondo lasciare questa vita sapendo che sei stato tu a colpirlo ti fa star male: e io ho provato questo dolore almeno dieci volte”.
Nella galassia di gruppi che si affrontano in Siria, tanti sono soldati improvvisati, gente che ha imbracciato un’arma e ha cominciato a sparare perché costretto dagli eventi.
Studenti, insegnanti, muratori, operai, casalinghe, impiegati, negozianti: la maggioranza dei civili che ha combattuto o combatte tutt’ora sono persone comuni. E tra di loro ci sono tanti, troppi ragazzini che da tempo hanno ormai abbandonato i soldatini di plastica e i videogiochi per combattere una guerra vera. Per molti di loro il tempo si è fermato nel 2012, quando le proteste di piazza contro il governo centrale iniziate a marzo 2011 sfociarono in rivolte su scala nazionale e quindi in una guerra civile. E non solo perché per tanti è stato l’inizio della fine della loro vita normale, quella fatta di scuola e compiti, pomeriggi in famiglia e serate con gli amici, lavoretti in negozio e appuntamenti con le ragazze. Ma anche perché è da allora che hanno iniziato a uccidere.
Yūsuf è uno di questi. “Ho ucciso, a ripensarci sento stringermi lo stomaco, ma non avevo alternativa. In guerra o ammazzi o vieni ammazzato. E io volevo solo vivere”.
Oggi, se potesse tornare a una vita normale, Yūsuf non vorrebbe nemmeno sentire l’odore di certi giochi, anche se è un problema che non sembra toccarlo più di tanto, almeno per adesso. “Noi dell’FSA abbiamo un dovere da compiere — spiega —, quello di proteggere la nostra gente e di lottare per la libertà”.
Per Yūsuf la guerra al momento rappresenta il suo presente e futuro. E così fino a quando, giura, “sarà necessario per la libertà della Siria”.
“In guerra mi facevano più impressione i vivi, che i morti. I morti mi sembravano dei recipienti usati e poi buttati via da qualcuno, li guardavo come se fossero bottiglie rotte. I vivi, invece, avevano questo terribile vuoto negli occhi: erano esseri umani che avevano guardato oltre la pazzia, e ora vivevano abbracciati alla morte”.
La frase è di Nicolai Lilin, al secolo Nikolaj Veržbickij, scrittore russo naturalizzato italiano e dà appieno il senso di vuoto interiore che spesso contraddistingue chi ha subito forti traumi in guerra.
Ed è anche vero, in effetti, che in Paesi devastati come questo, i morti hanno smesso di fare paura. Ci sono intere famiglie che vivono all’interno di catacombe. È dei vivi che bisogna avere terrore, visto che non puoi mai sapere chi è davvero tuo amico o nemico.
Un giorno, di passaggio a Dayr Hafir, da Aleppo in direzione Al Tabqah verso Al-Raqqa, dopo aver evitato un posto di blocco dei comitati di difesa popolare – una delle tante milizie paramilitari fedeli ad Assad, che si arricchisce con i sequestri di gente comune e con i pedaggi, – mi sono imbattuto in una famiglia che frugava tra le rovine delle case.
Il padre, Farid al-Sharaa, mi raccontava che con sua moglie e le tre figlie piccole sono fuggiti dal quartiere dopo i primi bombardamenti del 2013, quando il conflitto dal Governatorato di Idlib si è esteso a tutto il Paese, trovando rifugio all’interno di un cimitero. La loro casa è stata distrutta da un missile, non sa se sparato dai ribelli, dai tagliagole del califfato o dall’esercito regolare. Sa solo che in quell’occasione ha perso un figlio, Samir, 15 anni, rimasto sotto le macerie. E forse un pezzo del suo cuore.
Ogni mattina, ora che l’ISIS è stato sconfitto da queste parti, torna in ciò che resta della sua casa e si siede da solo fuori, lo sguardo spento perso nel vuoto, mentre la moglie e le bambine cercano oggetti utili tra le abitazioni circostanti, tutte danneggiate e abbandonate. Appena fa buio, di corsa nuovamente tra le tombe, dove ancora oggi si sentono più sicuri.
“Sto qui e ricordo”, mi ha detto Farid con l’aria di chi vive perché “deve” farlo. “Ho un altro figlio, il più grande, Qadir, che si è arruolato nella brigata Jabhat al-Akrad e ora sta a Tal Abyad. Penso a lui, a Samir, agli amici che non ci sono più. Penso a quello che è stato e che non sarà più. Al perché Allah ha lasciato che i jihadisti venissero qui in città e ci portassero via tutto. Non ci hanno lasciato niente, si sono presi ogni cosa, le nostre case, i nostri averi, i nostri figli, le nostre anime”.
Un giorno, come diceva Carl Sandburg, “faranno una guerra e nessuno vi parteciperà”. O perché gli esseri umani avranno preso coscienza della sua inutilità, oppure perché non ce ne saranno più per impugnare le armi. Nel frattempo bisogna convivere col dolore e con i ricordi.
Il campo profughi di Suruç è uno dei due più grandi dei cinque che si trovano nella provincia di Şanlıurfa. L’altro è più a est, ad Akçakale. Sono dell’UNHCR, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ma vengono gestiti dall’Afad, l’autorità governativa turca che si occupa delle emergenze. Questo significa che è difficile entrarci senza un invito diretto delle autorità locali, o aver superato decine di controlli per ottenere un’autorizzazione che spesso viene negata.
Un modus operandi che Silvia, operatrice italiana di una ONG locale che ci accoglie al nostro arrivo, conosce molto bene: “Ai giornalisti in particolare è proibito visitare i campi se non dopo una lunga trafila burocratica e l’ausilio di una ‘guida’. Al governo di Ankara non piace chi indaga sulle condizioni dei profughi siriani”.
Per fortuna per noi che c’è lei, che da due anni presta la sua opera volontaria in questo campo. Ed è proprio grazie alla sua intermediazione che riusciamo a entrare con i pass stampa, seppur con un permesso speciale di un’ora e accompagnati da un membro del servizio di sicurezza interno, per incontrare alcuni profughi. Vietate fotografie e riprese video, anche se il nostro Michal sa come scattare senza dare nell’occhio.
È domenica, la giornata è chiara e fresca, col cielo di un color grigio-azzurro e una brezza che continua a suonare fra i cavi elettrici una confusa melodia. Nell’aria si respirano una miriade di profumi, un misto di spezie, di oli, di frittura, ma anche di “vissuto”. Odori forti che si mescolano alla polvere e a quello di un’estate che qui spinge in anticipo, pronta a riconquistarsi la scena, come ogni anno.
Camminiamo lungo le file di tende dell’UNHCR, sotto lo sguardo curioso di decine di persone e di bambini.
Nell’incrociare i loro occhi e i loro saluti non puoi non porti alcune domande, chiederti cosa hanno vissuto in questi anni, cosa hanno perso, cosa si sono lasciati alle spalle. Ma anche come deve essere terribile perdere la propria “storia”.
Pensate: un attimo prima siete seduti comodamente sul divano di casa vostra, magari intenti a giocare con God of War o Zelda. Vostra madre è in cucina a chiacchierare tranquillamente con vostro padre; vostro fratello o vostra sorella sta facendo la doccia, e voi tra una partita e l’altra smanettate su Whatsapp per organizzare la serata con gli amici. Poi improvvisamente questa normalità viene a mancare, e un attimo dopo esplode tutto, di casa vostra non rimane niente e se siete sopravvissuti vi ritrovate coi vostri cari a fuggire evitando i proiettili dei cecchini e le bombe che piovono da tutte le parti, senza più soldi, oggetti, identità. Tutto perduto. E così per anni, forse per sempre.
Ci fermiamo davanti a una tenda davanti alla quale, tuta sportiva blu e una sigaretta tra le mani, incontriamo Serkaw al-Za’im. Serkaw è un ragazzo di circa diciott’anni, alto, capelli castano scuro, snello e con un viso sveglio che suscita subito simpatia. Lui, originario di Al-Hasakah, ma residente prima ad Ar-Raqqa e poi, dopo lo scoppio della guerra, per un po’ a Kobane, è il volto della vera tragedia che non viene mai raccontata dalle redazioni dei nostri telegiornali. Con lui parliamo di tanti argomenti, anche quelli all’apparenza più banali.
“Io e mio fratello Mihemed eravamo pazzi per il calcio. Giocavamo in una squadra del nostro quartiere – ci racconta,- seguivamo tutte le partite in televisione e allo stadio. Lui tifava per i “leoni” dell’Al-Jazeera, io per l’Al-Shabab”.
Di quella squadra non è rimasto più nulla: quattro dei suoi calciatori sono addirittura stati decapitati in pubblico dall’ISIS, perché sospettati di essere delle spie. La guerra e la follia non risparmiano nessuno.
“Ma ci piacevano anche il Barcellona e il Real Madrid. Quando eravamo piccoli, lui era Messi, io Ronaldo.”
Tante le sfide per le strade polverose, sui campetti, e… sulla Xbox 360. “Ci sfidavamo sempre nei videogiochi, a Tekken e a FIFA. Di solito vinceva lui, ma a volte lo battevo e lui cercava mille scuse e mi faceva arrabbiare. Una volta prendeva gol per colpa di mia mamma che lo aveva chiamato, un’altra per un sms, sempre scuse”. Sorride: “Una volta sai che ha combinato? Per non ammettere la sconfitta, a pochi secondi dalla fine di un torneo a FIFA mise in pausa il gioco e mi disse che doveva andare in bagno urgentemente”. Invece? “Invece andò a staccare per un attimo la corrente, simulando un calo di tensione!”.Scoppiamo a ridere, ma è una risata amara la nostra.
Serkaw non può più prendere in giro il fratello, né sfidarlo ai videogiochi o abbracciarlo. Mihemed, infatti, non c’è più. È rimasto ucciso durante l’avanzata del califfato nero a Kobane.
“Ho ancora negli occhi il giorno del primo bombardamento della città – racconta Serkaw. Era il 20 settembre del 2014, avevo 14 anni e nella testa la convinzione che quei demoni non sarebbero mai arrivati fino a casa nostra”.
Invece erano lì, a due passi, dopo giorni di massacri nell’intera regione del Rojava. “Avevano costretto alla fuga migliaia di civili, e ora avanzavano verso le porte di Kobane” – continua -. Stavo ascoltando la radio con la finestra aperta perché c’era un tempo ancora tiepido. Sentii un sibilo, forte, e guardai il cielo. Vidi una scia irregolare e non ebbi nemmeno il tempo di chiedermi cosa fosse che… BOOOOM! Esplose tutto in strada”.
Serkaw viene sbalzato a terra dallo spostamento d’aria e cade sul pavimento di casa. Il tempo di poggiarsi sui gomiti che è già in piedi. “Mihemed! Mamma! Scappiamo!, urlai”. Ma nemmeno il tempo di chiamare, che arriva una seconda esplosione. Poi un’altra. “E non so ancora come, mi ritrovai fuori, in mezzo alla strada, coperto di polvere e con le orecchie che mi fischiavano. Nel quartiere era il caos, tutti che correvano a destra e a sinistra. Un vicino mi prese per un braccio e mi trascinò via. Lo stesso fecero con mia madre che vagava stordita tra i rottami. Mihemed purtroppo rimase sotto”.
Nella tenda cala il silenzio, Serkaw abbassa un attimo lo sguardo come per raccogliere le idee e trattenere le lacrime. Gli chiediamo se vuole fermarsi, ma ci fa un cenno con la mano, e poi ricomincia.
“Attraversammo in pochi minuti l’area colpita dai tre missili dell’ISIS, morti e macerie dappertutto. Non lo dimenticherò mai”. Serkaw, la madre e i loro vicini trascorsero la notte nella Moschea Sheri’a, ma all’alba del 21 settembre il ragazzo sgusciò via dal rifugio per tornare indietro a cercare di recuperare il corpo del fratello. Sembrava uno zombi, ancora sotto shock, camminava dritto per la sua strada mentre tutto intorno a lui tremava e saltava per aria a causa delle bombe dell’ISIS. Poi, all’improvviso, la scossa inaspettata.
“Quando il palazzo vicino al quale mi trovavo si aprì in due, pensai che fosse la fine, che ormai ci avrebbero distrutti.
Ma dentro di me sentii come una forza mai provata prima. Rabbia, dolore, voglia di reagire e di vivere. Allora mi feci coraggio, e corsi con altri due uomini lungo le scale pericolanti dell’edificio per aiutare le persone rimaste bloccate in casa”. E poi, più tardi, a scavare nelle macerie a mani nude per recuperare i corpi di chi era rimasto sotto. “Si, purtroppo si” – continua -, e anche a spegnere gli incendi”. E così per giorni, fino a quell’1 ottobre del 2014, quando Serkaw, la madre e la maggior parte dei civili di Kobane vennero fatti evacuare verso nord, e l’ISIS entrò praticamente in forze in città.
“Da allora sono qui, in attesa che cambi qualcosa. Che la guerra finisca e che possa ricominciare la mia vita tornando nel mio Paese: lo devo a chi non c’è più, ai miei amici, ai miei parenti, a mio fratello. Per lui vorrei poter ricostruire la squadra della mia città, e organizzare un torneo per ricordarlo ogni anno”.
L’autore ringrazia per le foto Michal Przedlacki©, Yazeed Kamaldien©, Gabriel Chaim©, AP Images© e UN Refugee Agency©, che sono i legittimi proprietari delle immagini.