Cos’hanno a che vedere sei assi con il nostro magico mondo? Il senso di spaesamento è quanto mai tangibile, supponendo che con tale espressione ci si riferisca a sei travi di legno o al famigerato seme delle carte da gioco. La coniatura infame di questo termine nulla è se non la traduzione di “Sixaxis”, il pad per PlayStation 4 con un giroscopio impiantato al suo interno . La riflessione circa la sua utilità nasce da un’esperienza alquanto recente, sulla quale torneremo in seguito, non temete. Cruccio carontico e dubbio alla socratica maniera hanno lasciato che l’incertezza germogliasse, convincendo il sottoscritto a risalire agli oscuri motivi che un bel giorno spinsero i piani alti di Sony a pensare, del tutto erroneamente, che questa potesse essere un’idea pionieristica e fondamentale ai fini dell’esperienza ludica. Avrete quindi senz’altro afferrato sin da subito l’esito di questa valutazione ma pur di non rendervi la vita meno complicata, sarete costretti a vivere fino alla fine questo viaggio sul treno dei ricordi.
Ringraziando ancora una vasta schiera di figure celesti per l’abbandono da parte di Sony del controller a forma di banana, durante l’E3 2006 venne svelato al mondo il Sixaxis: il pad avveniristico avrebbe sostituito il vetusto Dualshock 2, spalancando le porte della nuova generazione a tutte quelle formidabili idee che di lì a poco avrebbero trovato grande fortuna. Sensori giroscopici, acceleratori a tre assi e sei direzioni soppiantarono l’amato “force feedback”, che tanto successo ebbe durante le prime due ere PlayStation. Quale fu quindi il primo grande esperimento a sfruttare pienamente tale funzionalità, mandando completamente in visibilio il pubblico? Trattasi per caso di Lair? Sono forse sarcastico? Ovviamente sì.
Quella del “dragone goloso” fu la prima occasione in cui la succitata componente la facesse da padrona: inclinando il pad, il giocatore sarebbe stato in grado di controllare la direzione della sua bestia da soma dotata di ali. Per quanto uno scenario del genere potesse apparire fantascientifico, la realtà dei fatti si dimostrò ben diversa. Il sistema di puntamento pessimo e i controlli al limite dell’ingestibilità resero davvero poco appetibile il prodotto di Factor 5. A distanza di tanti anni non servirà di certo il nostro parere per decretare il totale insuccesso di Lair e del voler fare del Sixaxis la base fondante di tutto il gameplay. Seguendo quanto trasparso da questa disfatta di Caporetto, quasi nessuno sviluppatore decise di donare così tanto spazio a tale componente, recintandola in uno sporadico utilizzo in qualche minigioco o meccanica di sorta. In Ratchet & Clank: Armi di Distruzione era possibile pilotare alcune armi radiocomandate, in InFamous: Second Son si poteva impugnare il pad a mò di bomboletta spray e verniciare alcuni graffiti. Così limitato, l’uso del giroscopio non si è rivelato di certo malvagio ma neppure entusiasmante come inizialmente preventivato. Giungiamo quindi allo spunto principale di questa riflessione: ha ancora senso considerare pienamente questa tecnologia? Essa potrebbe essere ancora in grado di donare qualcosa in più al mondo videoludico? La risposta – e spero perdoniate la franchezza – è no. La fase d’euforia contraddistinta dall’arrivo dei controller di movimento è terminata da un pezzo. Giocatori âgée a parte, sarebbe difficile trovare qualcuno ancora disposto a esaltarsi perché “guarda io mi sposto così e quello va dove dico io”. In un mondo in così rapida evoluzione, fallire nel riscontrare il forte favore del pubblico potrebbe decretare la damnatio memoriae per qualsivoglia brevetto. Giunti in un’era di sperimentazione per la realtà virtuale, sembra esserci – a ragion veduta – sempre meno spazio per il tatto e più per la vista: è ciò che chiede il mercato, necessario per soddisfare gusti e necessità di un’utenza variegata e quotidianamente cangiante.
Appurata dunque l’odierna inutilità di un gameplay fortemente basato su giroscopi e sensori di movimento, sarebbe arrivato il momento di tirare in ballo il pezzo da novanta, vero fautore di questo approfondimento: Gravity Rush 2.
L’opera di Japan Studio avrebbe meritato senza ombra di dubbio maggior attenzione, da parte di tutti sia chiaro. Un comparto artistico particolarmente ispirato e curato, unito a una narrazione di buon livello e tante idee interessanti per quanto riguarda il gameplay, avrebbero potuto segnare l’inizio di un amore imperituro tra il titolo in questione e il sottoscritto. Spinto dalle parole lusinghiere in merito da parte di amici e colleghi, ho deciso di dare una chance a Kat e i tanti personaggi che compongono il suo universo. Esattamente come l’amplesso di un individuo perseguitato da precocità, la mia cavalcata all’interno di Gravity Rush 2 si è dimostrata breve, intensa e condita da tante sensazioni contrastanti. La gioia iniziale ha fatto rapidamente spazio alla delusione, resa piccante dalla cocente rabbia conclusiva. La brusca inversione di rotta è avvenuta nel momento in cui – ottenuti i poteri di base – il titolo non ha richiesto più di fluttuare leggiadri e spensierati, bensì di combattere mostruosità. Il nemico più insormontabile però è sempre e soltanto uno: il dannato giroscopio. Tutto, a partire dai menù fino alla direzione in caduta, è influenzato dal movimento del nostro pad. Spulciando le varie sezioni dedicate ai settaggi, apprendere che tale funzionalità non sia disattivabile ha provocato in questo cervello, evidentemente sotto la media nazionale, un profondo malessere. Dovendo contrastare un elevato numero di nemici in rapida successione, mancare pedissequamente il bersaglio a causa di uno spostamento del pad è risultato oltremodo frustrante, tanto da causare non pochi giramenti di testa e mal tollerare il pensiero di dover continuare questa avventura. Trattasi non tanto del denaro speso per la copia, quanto delle elevate speranze riposte nel prodotto di Japan Studio, la bocca è rimasta più amara del solito, quasi come con la rucola. Tutto questo disagio ha portato all’odio per qualcosa di cui si sarebbe fatto volentieri a meno, qualcosa di superfluo, obsoleto e che – Deo Gratias – parebbe essere sempre più relegato all’oblio videoludico.