Ci sono giornate in cui non si ha né la voglia né la forza di portare avanti nulla. Ci si sente scazzati, apatici, ostaggi di ore in scala di grigio, che proprio perché non arrivano neanche al nero ci sembrano infinite, inutili, sprecate come se ci fosse una perdita nella clessidra del nostro preziosissimo tempo di qualità. Profughi in fuga dalla monotonia della routine giornaliera, asciugati, sbuffanti, con nessuna intenzione di continuare quel nuovo tripla A di cui tutti parlano, quell’indie che tanto ricorda Super Metroid, quell’articolo che, mannaggia a me, dovevo consegnare giorni fa. Si è semplicemente, per qualche ora magari, in un rassegnato e beato stato di sbattimento, un torpore che porta a girare come una trottola sulla sedia sprecando inesorabilmente il tempo libero tanto sognato, con davanti un foglio intonso di Word e la tastiera che diventa un pianoforte da suonare senza neanche una lezione sulle spalle, producendo solo melodie orribili senza concludere assolutamente nulla, con le idee a zero solo perché in negativo non si può andare.
È in questi momenti che un ricordo formato flashback si insinua nella mente con tutto il suo colore, calore, meraviglia: perché non attingere un po’ di energie da quei periodi della vita in cui ne avevamo talmente tanta da poterla buttare, condividere, riempirci barattoli da conserva? Ogni momento indimenticabile che abbiamo vissuto ha per noi ludofili un gioco correlato, come due molecole inscindibili che formano la sostanza stessa della felicità, rinchiusa in capsule del tempo sparse per casa sotto forma di CD, DVD, cartucce di ogni forma e dimensione, UMD, fino all’essenza purissima delle ROM per emulatori. Un composto chimico noto come retrogaming, assunto come palliativo della macchina del tempo per ricreare intorno a sé quella bolla di benessere tipica delle prime volte. Questo perché giocare a quelle opere che hanno segnato la nostra crescita, il nostro percorso di vita, porta con sé il piacere atavico dell’antiquariato, che non solo ci regala emozioni sensoriali tipiche dell’arte di livello assoluto, ma per qualche minuto trasforma il mondo attorno a noi, riportandoci in quella casa di campagna dove le temperature estive venivano tenute a bada dalle pale di un
La bellezza del retrogaming sta nella sua immutabile meraviglia, capace di sospenderci a mezz’aria tra le pieghe del tempo e metterci faccia a faccia con i nostri ricordi.
ventilatore e dalla freschezza gameplay centrica di Wario Land 3, un varco spaziotemporale che restaura in alta definizione ricordi emotivi e sensoriali. Un’illusione possibile grazie alla pretesa di attenzione che ha il videogioco nei confronti del suo ospite, quella necessità di esprimere il piacere mentale attraverso un input tattile che assume lo stesso ruolo dell’elemento croccante in un piatto, imprimendosi nelle fibre della memoria muscolare e divenendo parte integrante del nostro organismo, esplodendo in una dose massiccia di endorfine tutte le volte che si torna in contatto con esso. Il retrogaming, al di là della sua concezione di archeologia virtuale come riscoperta di titoli perduti negli anni o usciti ben prima che prendessimo in mano il primo pad, è una certezza, un rifugio, un tête-à-tête tra uomo e codice dove nessuno dei due ha più segreti da mantenere, eppure sembra sempre tutto nuovo. C’è un’intimità e una confidenza ormai difficile da instaurare con certe opere moderne, a volte più industriali che artigianali, prodotti di un’industria in esponenziale crescita, impegnata in una costante corsa al miglioramento (e ringraziamo che sia così, per carità) che rende tutto più usa e getta, rapidamente assimilabile, dimenticabile, sostituibile, in molti casi ansiosa di scrollarsi di dosso il suo passato di “giocattolo”.
O magari semplicemente non ci accorgiamo ancora del loro reale peso emotivo, perché il presente deve stare lì a fermentare nel nostro inconscio, mutare, lievitare, per poi essere riposto in botti di rovere nella cantina dell’ippocampo, pronto a diventare, al momento giusto, un ottimo e inebriante bicchiere di ricordi. È un concetto molto diverso dalla nostalgia, anche se potrebbe essere frainteso, etichetta affibbiata da molti ai giocatori abituati a tornare sui sentieri già battuti, volutamente impegnati in un itinerario più tortuoso che passa sia dalle proverbiali strade vecchie che da quelle nuove. Perché in fondo giocare è paragonabile al piacere del viaggio, della scoperta, un costante bombardamento di atmosfere, colori, culture, sensazioni, sempre alla ricerca di qualcosa di unico, indimenticabile, nascosto, portandoci a imparare e adattarci, godere, talvolta disprezzare, per poi tornare sempre a casa, nella propria comfort zone colma di certezze, immutabile, sicura. Un senso di relax assoluto che solo ciò che conosciamo dal primo all’ultimo pixel può regalare, creando un punto di contatto con i tanti noi stessi sparsi sull’asse temporale della vita, aprendo un canale di confronto tra passato e presente, sempre con lo sguardo rivolto al futuro, tanto del videogioco quanto di noi stessi.