Nel corso del ventunesimo secolo l’industria dei videogiochi si è evoluta in maniera incredibile, portando nelle nostre case storie incredibilmente emozionanti e coinvolgenti. Dalla realtà virtuale fino ai titoli tripla A, oggigiorno possiamo vivere tantissime avventure in altrettanti mondi ai confini delle fantasie più selvagge. Eppure, quando vado a sfogliare il giornale della mattina durante il mio turno di lavoro, spesso e volentieri leggo di come i videogiochi vengano incolpati per stragi ed episodi di efferata violenza. Dalla cronaca italiana fino a quella estera, giornalisti di ogni estrazione si dilettano a raccontarci di come sedicenti esperti abbiano sancito che probabilmente tali omicidi siano stati scaturiti da troppe ore a Grand Theft Auto, o come l’ISIS utilizzi Assassin’s Creed Unity per simulare gli attentati, in barba ai bug che lo popolano. Il caso mediatico è diventato così grave, così pressante per la società, da far addirittura convocare a Mr. Trump in persona una sorta di riunione al limite del reale, dove alcuni esponenti del mondo videoludico si sono visti accusare di produrre roba violenta ogni giorno, dopo ovviamente aver mostrato un filmato con scene estrapolate fuori dal loro contesto. Ricordate la missione “Niente Russo” di Call of Duty Modern Warfare 2? Hanno avuto il coraggio di tirarla fuori dopo così tanti anni e polemiche passate sotto i ponti, ignorando volutamente le decine (se non centinaia) di opere con messaggi straordinari, come That Dragon Cancer o Gone Home o Life is Strange o moltissimi altri che non cito per non arrivare a scrivere un enciclopedia.
Dal canto mio, leggendo questi articoli rimango un po’ deluso. Per quanto trovi assurde certe posizioni, è anche innegabile che ci sia uno studio dietro, perfino con delle valide ragioni. Non sono un esperto psicologo o sociologo, mi occupo di scrivere e servire caffè perciò sono l’ultima voce autorevole del dibattito. Tuttavia, ogni volta che leggo che i videogiochi uccidono, la mia mente mi riporta indietro di diversi anni, al periodo delle medie e dei primi anni del liceo, dove un videogioco in particolare mi ha invece permesso di combattere uno dei mali peggiori che colpiscono i giovani: il bullismo.
Tutto iniziò dagli anni in cui i Tokyo Hotel andavano di moda e la prima stampa di Death Note si faceva largo tra le varie edicole italiane. Io ero il classico ragazzo timido, fuori da quella cerchia di ganzi truzzoni che ancora oggi domina le aule dei nostri istituti. Introverso e mite, non avevo di certo la vita facile nell’ecosistema della scuola di quei tempi. Non ci volle molto prima che altri maschi alfa mi sfruttassero per determinare la loro prestanza fisica e morale di fronte ai miei compagni. Dagli abusi verbali fino alla violenza fisica, ogni angheria divenne l’ordine del giorno e, essendo loro in netta maggioranza numerica, non trovavo la forza di ribattere. La paura di eventuali conseguenze di un gesto di ribellione mi incuteva timore, più di quanto lo facessero le vessazioni quotidiane.
Spinte, pasti rubati, prese in giro continue e varie altre crudeltà sono solo alcune delle cose che subivo e che molti ragazzi subiscono ancora oggi, soprattutto nelle realtà della periferia di Roma. Gli insegnanti erano sordi a qualsiasi cosa succedesse sotto il loro naso, e a casa evitavo di farne menzione sempre per paura delle ritorsioni dei miei aguzzini. Quei bambini ai miei occhi erano un vero e proprio branco di mostri che vedevano in me la loro preda, il soggetto di scherno ideale. I loro genitori sapevano bene come si comportavano i figli nell’edificio scolastico, eppure dicevano “sono ragazzi, lasciamoli giocare, che male c’è”. Chiudevano gli occhi di fronte a tutto, lasciando la cattiveria fluire senza freni.
Tornato nelle quattro mura di casa mia, dove comunque ero fortunatamente accolto ed amato, non mi restava altro se non buttarmi nell’unico mio mezzo di astrazione dalla realtà: il mondo videoludico. Lì potevo essere qualsiasi cosa io volessi, lontano dal ruolo dello sfigato di turno. Un soldato, un guerriero, un mago, solo il codice digitale del titolo in cui mi immergevo era il limite per la fantasia, unica fuga dalle botte e le prese in giro. In questa mia ricerca di mondi da esplorare liberamente, mi imbattei in Ragnarok Online. Si trattava di un MMORPG vecchia scuola sviluppato da Gravity, uno dei primi a fare letteralmente il boom nelle vecchie community online. Ambientato in un universo fantasy dai tratti nipponici, prendeva in prestito la mitologia norrena ed altre ispirazioni per creare un vasto continente dove milioni di giocatori si univano per abbattere mostri sempre più forti e conquistare fortezze. Ai tempi era una novità completa per me, soprattutto perché ero solito giocare sulla PlayStation 1 o 2 e quindi completamente in single player. Il titolo era un misto tra 2D e 3D e grazie al cielo il mio PC con Windows Millenium Edition lo reggeva abbastanza bene da farmici immergere senza problemi di sorta.
Mi dedicai al gioco completamente, felice di aver trovato un enorme continente da esplorare in costante aggiornamento. A quel punto quasi non mi importava come mi trattassero i bulli durante le ore di lezione, sapevo che una volta uscito da lì sarei tornato a casa e avrei impersonato il mio avatar combattendo insieme ad altre persone provenienti da tutto il mondo, alleandoci contro il male. Dal lato didattico, ciò fu addirittura anche un ottimo esercizio per il mio inglese, che migliorò a vista d’occhio.
Passarono giorni e settimane, mesi perfino, fino a quando non incontrai un giocatore italiano. Era la prima volta che ne beccavo uno e lo riconobbi dalla classica scritta “ITA” dopo il nickname, ancora oggi utilizzata da molti nelle loro gamertag. Ci parlai subito e diventammo abbastanza amici, tanto che dopo poco mi invitò ad unirmi alla sua gilda: i PwNed. Sebbene avessero una cacca pixellata con una faccina arrabbiata incollata sopra come emblema, non mi feci troppi scrupoli ad unirmi, pensando di poter trovare persone della mia stessa nazionalità con cui completare qualche dungeon senza destreggiarmi con la lingua anglosassone.
La vita con il gruppo procedeva abbastanza tranquillamente fino a quando mi chiesero di utilizzare TeamSpeak. Questo programma, ai tempi appena uscito dalla beta, sarebbe servito per parlare in chat vocale in modo da coordinarci e chiacchierare del più e del meno. Ero un po’ spaventato da quella prospettiva, non avevo mai parlato al microfono su una chat vocale e, oltretutto, erano tutte persone piuttosto grandi che già andavano all’università o l’avevano perfino superata. Per quanto fossi titubante, alla fine decisi di buttarmi andando il giorno stesso al negozio più vicino per comprare uno di quei microfoni USB che si appoggiavano ad uno stand, di plastica scadente tipica dei discount. Nonostante i miei timori fino all’ultimo secondo, mi introdussi come un daino spaventato in quel server pieno di persone. Mi aspettavo di essere trattato con sufficienza, del resto ero un ragazzino dalla voce stridula (cosa che ho in parte mantenuto) e, come tutti ben sanno al giorno d’oggi, c’era anche il mito dei bimbiminkia a gettare ombre su noi giovanissimi. Fui però sorpreso dal calore con cui venni accolto, quasi come se fossi un vecchio amico tornato dopo tanti anni passati in un posto lontano. Conobbi ogni elemento del gruppo, giocandoci assieme e parlando delle varie passioni che ci accomunavano, scambiandoci consigli sulle build o su quale equipaggiamento cercare.
Più passavano le ore, più sentivo finalmente di aver trovato degli amici, gli unici che avevo a quell’età. Mentre nelle aule scolastiche ancora insistevano a volermi denigrare, la musica cambiava radicalmente quando accendevo il PC per giocare. Non mi facevano sentire inferiore, né un bambino stupido o immaturo, piuttosto ero un loro pari, un altro giocatore che calcava quelle terre virtuali giorno dopo giorno come loro. Tra una battaglia e l’altra, iniziammo a parlare anche di ciò che facevamo nella vita reale, dandoci consigli o ridendo su vari aneddoti accadutici durante la giornata.
Ad esempio, quando avevo dei compiti di matematica piuttosto difficili, non esitavo a chiedere l’aiuto di Busa, un compagno di gilda che si stava laureando nella facoltà di matematica della sua città e che, nel gioco, era il guaritore per eccellenza, altruista come pochi. Oppure spendevo ore su ore ad approfondire la storia del gioco con Dottor Linux, calandoci in pomeriggi interi alla scoperta di missioni con tanto di indovinelli da risolvere e situazioni da spicciare. Tutti si dimenticavano della narrativa di Ragnarok Online, ma non quando si doveva fare la catena di obiettivi per ottenere l’homunculus della classe Alchimista, e Linux era proprio bravo in tale professione, soprattutto perché conosceva le zone dei vari oggetti da raccogliere per le pozioni. All’opposto dello schieramento intellettuale c’era DarknessBlade, un giocatore che vedeva nel PvP la sua unica ragione di vita e nella War of Emperium la sua occasione per pavoneggiarsi. Mi prese come allievo quasi forzatamente, insegnandomi a cavarmela sul campo di battaglia e fare di più che essere un semplice guaritore. Per quanto volesse far vedere di essere il numero uno, non mancava di aiutarmi a finire anche io sotto i riflettori. In bravura era superiore solamente un altro ragazzo che abitava all’estero, uno degli elementi più bravi in assoluto del gruppo. Solo dopo diversi anni scoprii che fin dalla nascita non aveva tutte le dita delle mani, eppure la velocità con cui castava le abilità con le hotkey della tastiera era superiore a quella di tanti giocatori internazionali estremamente conosciuti nella community.
Ce ne sarebbero tantissimi altri da citare ma tra tutti, i due capogilda, Nanaki e Mimiru, rimarranno sempre impressi nella mia mente. Erano una coppia sia nel mondo reale che all’interno del gioco, ormai stabili nella loro relazione da diverso tempo fin da quando entrai nei ranghi. Paradossalmente, fu proprio l’MMORPG a cui giocavamo a unirli dal vivo e permettergli di avere una famiglia vera e propria. Ai tempi, mi trattarono entrambi con estremo riguardo fin dal principio, quasi come se fossi io stesso parte della grande famiglia che era diventata la gilda sotto la loro gestione. Ed in effetti, dopo ogni singola giornata trascorsa insieme, divenne veramente tale. Se non fosse stato per loro, probabilmente mi sarebbe mancato anche l’ultimo motivo per svegliarmi nuovamente la mattina e subire insulti fino alla fine delle lezioni. Nei forum o tramite i messaggi sul cellulare, ci tenevamo in costante contatto, mossi da quello spirito di unione che tanto avevamo accolto in Ragnarok Online.
A scuola però le cose peggiorarono, di molto. Più andava avanti l’età, più diventavano insistenti e crudeli i miei aguzzini. Seguirono tutto il corso da manuale: familiari insultati, oggetti personali distrutti, botte varie e anche fuori scuola iniziavano a farsi presenti. Quando suonava a campanella per tornare a casa, dovevo sbrigarmi ad andarmene prima che venissero a togliermi la roba di dosso o a prendere il mio stesso autobus. Dovevo nascondere i soldi per evitare che me li fregassero e dovevo stare più in silenzio possibile per evitare di dire qualcosa che potesse rendermi ridicolo. Per quanto la situazione fosse palese, nessuno mosse un dito.
Non c’erano persone a mio favore, o a difendermi, o a dire semplicemente “adesso basta”. La passività con cui si accettavano le vessazioni che subivo era contagiosa, ed ebbe un impatto anche sulla mia già minima voglia di reagire. A quel punto, essere triste e depresso era la norma e ciò inficiò naturalmente anche nella mia vita digitale. Quando alcuni compagni di gilda ebbero il sentore che qualcosa non andasse, iniziarono ad attivarsi e farmi varie domande, chiedendomi varie cose in modo da assicurarsi di cosa stesse succedendo. Ricordo vivamente che una sera, dopo essere tornato da una delle giornate peggiori della mia vita, vuotai il sacco senza freni, quasi alle lacrime. Per una volta, sentivo di star sputando via tutto ciò che avevo finora accumulato cercando erroneamente di nascondere tutto sotto il tappeto. Gli altri mi ascoltarono finché non finii di parlare, attenti a quello che stavo dicendo. Sebbene mi risposero subito, rassicurandomi, decisero di non limitarsi alle vane parole.
Ogni giorno cercarono di spronarmi a non abbassare la testa, a credere in me stesso e nelle mie capacità. Proprio come nel gioco combattevamo potenti boss nei dungeon più tosti, nella realtà dovevo farmi avanti e combattere contro chi voleva abbattermi. Non fisicamente, ma tramite la statura morale e la maturità. Mentre mi risollevavano, gradualmente sentivo salire in me la voglia di dire la mia, di espormi e di contrastare chi veniva a sfottermi. Grazie all’incoraggiamento degli amici di una vita virtuale, che mai mi avevano visto dal vivo (ai tempi Facebook quasi neanche esisteva), iniziai a rialzarmi e a dire basta al bullismo. Fu un lavoro duro, che mi costò fatica e sudore, ma ebbi supporto da tante persone sia nella vita reale che nella vita digitale. Mi creai un’autostima e un’identità strutturata fuori da traumi e sevizie, tenendo fede alla promessa di quelli che alla fine credevano in me. Anche i miei genitori, ad un certo punto, mi aiutarono in questo, così come alcuni compagni di classe.
L’aria iniziava ad essere diversa e la depressione faceva spazio ad un sentimento di rivalsa, di autoaffermazione dei propri diritti umani.
Tutto questo cambiamento, compresa la persona di cui sono orgoglioso e che sono arrivato ad essere oggi, è partito proprio da un mucchio di estranei che ho conosciuto all’interno di un videogioco. Lo stesso medium che oggi viene accusato di isolare, di ledere e di traviare la mente dei giovani. Spesso si dice che le amicizie virtuali siano effimere, sbagliate addirittura. Eppure io posso testimoniare a gran voce di aver conosciuto quella che per me è stata una vera e propria famiglia, un gruppo di amici fedeli uniti per contrastare il crudele fenomeno del bullismo che molti, ancora oggi, accettano e fanno passare in sordina con scuse al limite del ridicolo.
Dunque non mi resta che chiudere quei giornali pieni di sedicenti opinioni di esperti, tenendo vivo nella mente il ricordo di tutte quelle voci che mi hanno portato a credere in me stesso, nelle mie qualità, attraverso mesi di continuo lavoro e supporto. Non tutti hanno queste fortune, specialmente nell’era in cui essere sgradevoli e volgari fa fare numeri su Twitch, ma io auguro ad ogni ragazzo nel fiore dei suoi anni di trovare un gruppo speciale come l’ho trovato io. Grazie PwNed, grazie Ragnarok Online, senza di voi non sarei qui per raccontare questa storia sul potere umano di un prodotto digitale.