A circa un mese dal maldestro evento Sony relativo alla line-up di lancio di PS5, l’entusiasmo generale per la presentazione di alcune fasi di gameplay di Demon’s Souls non si è ancora spento. Le aspettative per il ritorno in grande stile del capostipite del genere soulslike sono assai elevate, grazie soprattutto a Blue Point Interactive, team a cui è stato affidato il restyling grafico/artistico. D’altra parte, la software house è un’eccellenza assoluta in ambito remake/remaster e lo ha ampiamente dimostrato con il lavoro svolto con Shadow Of The Colossus (SOTC).
Il contributo di Demon’s Souls (DeS) per il mondo videoludico è stato enorme e questo è un fatto ormai consolidato. Appare quindi scontato affermare che il titolo di From Software meritasse una sorta di riscatto dopo il trattamento a dir poco indegno subìto all’esordio. Ciò si aggiunge anche al fatto che molti appassionati dei soulslike, che si sono riscoperti col tempo, non sono ancora riusciti a mettere le mani sull’agognato e seminale prodotto di From Software. E questo, sia chiaro, è un vuoto che deve essere colmato. Certo, sorprende che sia proprio DeS a dover vestire i panni di killer application per la nuova generazione di console, segnando più che un riscatto, una vera e propria rivincita.
Da un’altra prospettiva però, non nascondo tuttavia alcune perplessità: si tratta comunque di un gioco di quasi dodici anni fa e visto quanto fatto con SOTC, appare quantomai scontato attendersi un gameplay intatto nelle sue meccaniche. Un rigore indispensabile, considerando l’amore che molti appassionati nutrono nei confronti dei titoli From Software.
Le perplessità non riguardano essenzialmente il remake più atteso dai giocatori Sony ma la concezione di sfida in termini videoludici di From Software che negli anni sembra essersi sì rinvigorita, ma al contempo appare ancora ibernata sotto taluni aspetti. E alcuni di questi avrebbero bisogno di un’evoluzione importante: persino Sekiro, non un soulslike ma indissolubilmente contiguo al genere, non fa eccezione. Senza nulla togliere alla qualità del titolo, così come alle novità e varianti di pregio introdotte da Miyazaki nel “suo” Giappone Feudale.
“E’ un gioco incredibilmente brutto”, questo il pensiero di Shuhei Yoshida, Presidente di Sony Worldwide Studios, dopo le sue prime due ore di sessione di gioco. Problemi tecnici, relativi soprattutto al framerate, influenzarono fin troppo le opinioni ai vertici Sony, che sottostimarono l’enorme potenzialità di un gioco che, alla resa dei conti, ha aggiornato e messo insieme una serie di generi o sottogeneri videoludici di culto per crearne uno nuovo. I media giapponesi non furono da meno, tanto che la pubblicazione del gioco in occidente fu assai travagliata. Ma a relegare il neonato soulslike a genere di nicchia, almeno nei primi anni, fu principalmente l’idea diffusa dell’enorme difficoltà. Non erano dello stesso avviso coloro che avevano alle spalle anni e anni di titoli Metroidvania, molti dei quali vedevano ragionevolmente nei soulslike una sorta di evoluzione o trasposizione moderna in un mondo tridimensionale.
Le origini della serie: da Yoshida al TGS 2008
Si narra però che alle semideserte postazioni di gioco di DeS al Tokyo Game Show 2008, i giocatori non riuscissero ad andare oltre il primo corridoio e che nessuno fosse riuscito a completare la demo di appena cinque minuti. Già perchè, i titoli di Miyazaki, dopo un breve tutorial, ti lasciano fin da subito in pasto al tanto silenzioso quanto spietato mondo di gioco. La frustrazione e la rinuncia di molti che, attraverso il passaparola, hanno provato a dare una chance a un gioco di From Software è in buona parte da ricondurre agli scontri con i boss che, fin dalle prime battute, si fanno apparentemente ostici. Basti pensare ai due Gargoyle e al Demone Capra del primo Dark Souls, così come Padre Gascoigne e la Cleric Beast nella variante Bloodborne. Un trauma per il giocatore medio moderno, abituato a giochi che ti prendono per mano e ti accompagnano sino all’epilogo o per chi non ha avuto esperienza con i coin-op, spietati sin dall’inizio per monetizzare meglio nell’arco temporaneo di una sessione.
E poi cos’è successo? I soulslike si sono elevati a prodotti di culto e, successivamente, addirittura a genere mainstream, contando anche numerose alternative al di fuori di From Software. Per le ragioni di questo repentino successo sono stati spesi fiumi di parole, pertanto è inutile entrare nel dettaglio anche in questa sede. Ovviamente non si può negare un cambio di percezione nei confronti della difficoltà, dato che col tempo il passaparola, ma soprattutto i numerosi contenuti video sul web, hanno finalmente rivelato al grande pubblico la natura “trial and error” di casa From Software: mai buttarsi a capofitto ma imparare a osservare e ragionare. Auto-migliorarsi o, per utilizzare la più diffusa espressione americana, “git gud”.
Da prodotti snobbati alla nascita di un culto
Niente di nuovo, sia chiaro. Miyazaki e il suo team non sono artefici di chissà quale scoperta, dato che trovare la soluzione attraverso un certo numero di tentativi è uno degli approcci più consueti nei confronti di una sfida, laddove possibile, e non necessariamente videoludica. Nella fattispecie uno dei punti essenziali, ma non l’unico, è legato all’apprendimento accurato dei pattern di movimento e di attacco degli avversari, soprattutto i boss. Uno studio approfondito porta ad analizzarne i punti deboli e, in particolare, le cosiddette “aperture”, ovvero fasi di gioco in cui l’avversario concede la possibilità di attaccarlo senza ricevere alcun danno.
La profondità del gameplay dei giochi From Software è fuori discussione, lo dico da grande appassionato, ma non si può negare che lo studio dei pattern sia tra i punti che più accomunano le sessioni videoludiche dei titoli di Miyazaki, da DeS a Sekiro. Vi sono state scelte di design discutibili, come in Dark Souls II, dove molte bossfight si risolvevano semplicemente girando intorno agli avversari, così come soluzioni più interessanti in cui ai boss veniva concessa maggior libertà, si pensi a Dark Souls 3 e a Bloodborne. Ma “apprendere il pattern” è rimasto comunque uno dei mantra che hanno reso accessibili i soulslike al grande pubblico. Naturalmente poi, dalla teoria alla pratica, c’è una certa differenza. Non è sufficiente conoscere, ma anche saper applicare certi accorgimenti, i quali necessitano di una certa abilità col pad, tanto da rendere il genere soulslike per molti, ma non per tutti.
Siamo dunque arrivati a Sekiro, in attesa di DeS Remake e di ulteriori novità riguardo Elden Ring di cui, al momento, si sono perse le tracce. E con il gioco pubblicato da Activision sono arrivate le prime perplessità, ripeto, senza nulla togliere al valore dell’opera. Ambientato nel periodo Sengoku, Sekiro ha introdotto numerose novità rispetto ai giochi From Sofware passati: la verticalità in primis, l’approccio “stealth”, ma anche un combat system molto più tecnico, frenetico, in pieno spirito “shinobi”, che dava enorme risalto al contrasto dell’equilibrio avversario, qui denominato Postura. Abbattere la postura è sicuramente il percorso principale per sconfiggere l’avversario, ma nulla vieta di andare sul classico, ovvero di portare a zero i punti vita. Una pratica che in Sekiro risulta assai scoraggiante e che richiede molta più pazienza.
Da Demon’s Souls a Sekiro e ritorno
Tuttavia, in entrambi i casi la prontezza di riflessi e l’abilità del giocatore, qui richieste più che mai rispetto al passato, sono precedute nuovamente dall’apprendimento di riconoscibili pattern di movimento dell’avversario. E in Sekiro le bossfight sono assai numerose, più che nei suoi predecessori. Se con Dark Souls 3 era giusto chiudere un capitolo di una serie che sembrava aver esaurito le idee, con Sekiro si avverte la necessità di rinnovare il concetto di sfida ed evolvere l’approccio “trial and error” a qualcosa di più raffinato di una serie di meccanici movimenti da studiare con precisione.
Facilitare la sfida così come introdurre la tanto discussa opzione “easy mode” non hanno ragion d’essere per questo tipo di giochi ed è inutile spiegare qui le motivazioni. Ma, dopo quasi dodici anni, From Software dovrebbe spingersi più avanti e osare di più, pur mantenendo l’approccio “git gud”che, come già detto, è il vero tratto distintivo dei soulslike. Affinché la natura hardcore in ambito videoludico non rimanga solo una moda passeggera ma diventi un mezzo per creare nuove forme di gratificazione e divertimento, mettendo da parte l’autostima o una volgare esibizione di potenza.
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