Uno dei temi trattati nella rubrica di game design non riguarda soltanto un determinato argomento relativo ad esso ma anche come questo venga inteso nel corso di una serie o tra giochi analoghi nelle meccaniche. Parlando di sparatutto in terza persona vale la pena dedicare uno spazio ad Uncharted, il quale ha saputo innovare la formula dei TPS, specialmente nel suo comparto multigiocatore. Infatti se nella campagna l’opera di Naughty Dog risulta sì foriera di novità, l’impatto maggiore che queste hanno si trova nel multigiocatore competitivo, necessitando quindi un confronto con quello che è stato IL titolo per eccellenza a dettare gli stilemi dello sparatutto in terza persona contemporaneo, ovvero Gears of War.
Il primo Gears of War fu una delle prime esclusive di peso di Xbox 360, un gioco capace di dimostrare che Microsoft sapeva fare sul serio quando diceva di volersi espandere nel settore dei videogiochi. Gli autori tuttavia non furono uno studio rimasto alla corte di Redmond, bensì dei veterani degli sparatutto e dei giochi online, in grado di lasciare un’impronta profonda in tale genere videoludico, qualunque fosse la sua declinazione.
Epic Games arriva invece sovente dopo che qualcuno ha già scosso il mercato, ma non per questo il suo impatto è meno fragoroso. Fu così per Unreal, il quale giunse due anni dopo Quake ma si affermò con uguale potenza, per poi fare la stessa con Unreal Tournament per gli FPS online dopo Quake 3 Arena e poi ancora per i battle royale qualche anno or sono, riuscendo a superare Player Unknown Battlegrounds con il loro Fortnite.
La grande forza di Epic è sempre stata quella di entrare in un settore dove erano già presenti illustri concorrenti e ciònonostante, riuscire a dire la sua. Gears of War è stato il titolo con cui hanno condotto la carica, rigettando le basi degli sparatutto in terza persona e introducendo meccaniche che sarebbero poi diventate un termine di paragone per tutta l’industria, come le coperture.
Come dimenticare il mitico sistema di copertura del primo GoW!
Questo sistema è stata forse una delle più grandi innovazioni nel campo degli sparatutto in quanto ha risolto il problema dello schivare i colpi in modo chiaro e ben definito. Precedentemente infatti, l’azione per le raffiche nemiche andava eseguita cercando copertura in parti della mappa che potevano offrirla come effetto collaterale, ma senza che l’azione fosse studiata e regolata in ogni minimo dettaglio dagli stessi sviluppatori. Il sistema della coperture invece posiziona nelle arene delle strutture pensate esattamente per fornire riparo, modificando il level design strutturale in modo rivoluzionario. Come non bastasse, la stessa azione dell’aggancio in copertura segna un cambio notevole, in quanto introduce una meccanica precisa da attivare per ottenere quel determinato risultato. Entrare in copertura di conseguenza diventa un movimento che garantisce, entro certi limiti dovuti alla posizione dell’avversario, un risultato ben preciso e affidabile, laddove precedentemente invece parte dell’hitbox (ovvero quel “pezzo” di personaggio che se colpito conferma la collisione e attiva il danno) rimaneva scoperta dalla copertura senza che fosse espressamente studiata per quella ragione.
Questo sistema ha creato una norma ormai adottata da moltissimi altri sparatutto in terza persona, un sistema efficiente per gestire quella che è l’azione opposta dello sparare ma di pari importanza nell’economia ludica di questo genere. Curiosamente però sarà Epic stessa ad abbandonare questa straordinaria invenzione nella sua successiva produzione: Fortnite Battle Royale. Ciò però avviene per un motivo ben preciso, il sistema della costruzione di struttura e barriere arriva a risolvere il problema del riparo offrendo un’alternativa molto più versatile ed efficace alle semplici coperture fisse.
Per il resto la giocabilità di Gears of War è fondata su di un aspetto tipico di tutti gli sparatutto targati Epic Games: un’esperienza dove la manualità di esecuzione è centrale per decretare il successo di una partita. A differenza di altri sparatutto, dove conta maggiormente la posizione all’interno della mappa per dare maggiori possibilità di vittoria in uno scontro a fuoco (vedasi quelli militari, nei quali diventa talmente determinante da rendere il camperaggio una risorsa utile al punto di abusarne), in Gears of War è invece vitale muoversi velocemente, ingaggiare sul medio-corto raggio, utilizzando con prontezza le copertura e la manovra di ricarica (la quale può conferire un bonus se eseguita in modo perfetto, la cosidetta “ricarica attiva”). Ciò che interessa ora è invece notare come un’azione originariamente non pensata espressamente dagli sviluppatori, sia finita per diventare una meccanica fondamentale del gioco: il Wallbounce.
Una grande grande idea scoperta… per caso!
Il Wallbounce consiste nell’annullare l’azione di ingresso in copertura, la quale è composta da un’animazione in cui il personaggio scivola verso la parete in questione per poi “agganciarsi” ad essa nella posizione riparata. Premendo indietro sull’analogico sinistro si annulla la scivolata, permettendo di eseguire rapidamente un’altro comando di aggancio alla copertura posizionata nella direzione opposta, con il risultato che il movimento del personaggio sarà modificato in corsa, deviando la sua traiettoria e sottraendolo in modo più celere al mirino nemico. Ciò che rende il wallbounce uno strumento davvero letale è la possibilità di essere eseguito a ripetizione, fintando che le coperture lo consentono. Tale manovra fu letteralmente scoperta per caso dai giocatori competitivi più agguerriti, i quali la utilizzarono a loro vantaggio nonostante non fosse nei piani degli sviluppatori inserirla.
La cosa piacque a tal punto che anche nei giochi successivi della serie non fu rimossa. Se ciò può sembrare strano, basti pensare che non è la prima volta che accade, anzi, esiste un precedente illustre che ha letteralmente modellato un’intero genere videoludico su di un’opzione a cui gli autori non avevano pensato esplicitamente. Il caso in questione sono le combo di Street Fighter 2, le quali, stando a ciò che si dice, non vennero implementate volontariamente.
Passando ad Uncharted, bisogna riconoscere come il suo comparto multigiocatore abbia saputo ritagliarsi un suo spazio in un panorama affollato, dimostrando di non essere stato implementato solo per inseguire la moda, ma basandosi su idee altrettanto potenti per rinnovare il genere. In particolare gli aspetti più interessanti sono l’implementazione di fasi platforming e parkour, dove arrampicarsi e saltare eleva a un nuovo livello il concetto di meccaniche di evasione in un TPS.
Salta, corri, arrampicati e spara
La possibilità di saltare, arrampicarsi e calarsi rimette all’abilità del giocatore la risoluzione di un ingaggio e non soltanto alla casualità di essere il primo a sparare la raffica. Ciò che aggiunge una tridimensionalità a tutti gli effetti alle mappe di Uncharted è la loro verticalità, intesa non solo come estensione verso l’alto, ma anche come possibilità data al giocatore di muoversi dinamicamente verso l’alto e il basso. Aggiungere una tale gamma di opzioni di spostamento rivoluziona non soltanto i modi di potersi muovere, ma anche di gestire lo scontro a fuoco. Questo aspetto spinge a muoversi lungo le mappe in modo molto dinamico e semplifica anche lo snidamento di “camper” barricati dietro le coperture, rendendo le modalità ad obiettivo non soggette all’effetto “imbuto”.
Con questo termine si intende quelle posizioni delle mappe dove si concentra l’azione al punto tale da creare ingorghi tra giocatori, i quali finiscono per concentrare le sparatorie unicamente in un paio di punti, anziché lungo tutta l’arena. Teoricamente, per evitare questo fenomeno, è necessario provare in fase di beta-test le mappe per assicurarsi che il loro design sia sufficientemente vario e spazioso. In alcuni casi (vedi Uncharted 3) sono state presentate persino mappe dinamiche, dove la partita si articolava lungo zone diverse in divenire. Un esempio era l’aereoporto, dove la prima fase si svolgeva suddividendo le squadre tra un gruppo posizionato all’interno della carlinga di un cargo sulla pista di decollo e l’altro gruppo a bordo di alcuni camion che cercavano di raggiungerne il portellone abbassato per eseguire un vero e proprio abbordaggio.
Una sequenza incredibilmente spettacolare, non solo per la sua presenza scenica, ma anche per come riusciva a distribuire l’azione. I giocatori in attacco infatti dovevano saltare tra un camion e l’altro, sino ad avvicinarsi sufficientemente per tentare l’abbordaggio, alternando una specie di “platforming” con il classico “Deadmatch a squadre”.
Le coperture inoltre hanno modificato in modo indiretto anche un’altro aspetto degli sparatutto ovvero il ritmo. La possibilità di avere dei ripari dietro cui rifugiarsi ha reso meno frenetico lo scorrimento delle partite, rallentandolo notevolmente rispetto alla generazione precedente di sparatutto, dove invece l’azione era scandita a ritmi elevati (vedi Unreal e Quake per come avevano dettato il passo degli FPS).
Con Uncharted e Gears questo cambio si fa tangibile, sino a dilatarsi ulteriormente in quella che sarà la successiva svolta degli sparatutto, avvenuta con i battle royale, dove il ritmo subisce un’ulteriore rallentamento a causa della struttura della mappa ad ampio respiro, che rende sconveniente correre all’impazzata per non finire vitta di qualche camper. E proprio citando questi non si può non soffermarsi sul fatto che i multigiocatore su cui hanno lavorato Epic e Naughty Dog successivamente a quelli descritti sinora siano stati altri due TPS, entrambi capaci di innovare ancora una volta i loro rispettivi settori implementando meccaniche e aspetti di game design inediti rispetto la concorrenza.
La prima è stata la modalità fazioni di The Last of Us, la quale inizialmente apparve come marginale rispetto ad un prodotto che stupì prevalentemente per il suo comparto single player, ma nel tempo ha saputo farsi apprezzare da un buon numero di giocatori. In questa venivano introdotti elementi piuttosto anomali per uno sparatutto, ma che alla fine sono stati ben amalgamati. Nello specifico si tratta della creazione di armi e oggetti utili e di un pizzico di stealth: in Fazioni è possibile raccogliere risorse sparse lungo le mappe usarle per confezionare armi o potenziarne altre, dando al giocatore una specie di obiettivo secondario a cui ambire piuttosto che puntare alla semplice uccisione.
Data la maggiore efficacia dell’arsenale potenziato diventa quindi preferibile alternare sparatorie e rastrellamento di materiali, andando ad attenuare ulteriormente i toni convulsi con l’azione si sviluppa nel corso delle partite. La possibilità di usare armi diverse da quelle da fuoco inoltre accentura ancora di più quest’ultimo aspetto, permettendo di giocare anche intere partite con un’uso minimo di pistole e fucili, ma amplificando la componente stealth che si contrappone in pieno a quella action espressa tramite i consueti fucili e pistole. Piccola ma significativa venatura survival è data anche dalla presenza di sfide presentate ogni tot partite, le quali richiedono di soddisfare determinati requisiti (come effettuare determinate uccisioni con una certa arma o altre azioni in una lasso di incontri ristretto), pena la diminuzione del numero di sopravvissuti che fanno parte della propria fazione.
Tale valore è puramente indicativo e non crea effetti e conseguenze tangibili nel corso delle partite vere e proprie, tuttavia è volto a simulare la condizione di un ipotetico gruppo con l’avanzare degli scontri. Non esiste un vero e proprio game over, dato che sia salvandoli o perdendo i membri si può continuare a giocare normalmente, tuttavia questo aspetto vagamenta gestionale aggiunge un pizzico di tensione aggiuntiva incrementando la difficoltà in determinati momenti del multigiocatore.
Fortnite invece ha ridefinito le regole dei battle royale grazie ad un’altro modo di sfruttare le meccanica del reperimento di risorse. Tirando fuori il proprio piccone, ogni giocatore può smantellare alberi, automobili o case e ottenere in cambio materiali con cui costruire le proprie barriere. Una simile opportunità ha fatto presto a diventare uno strumento il cui unico limite era la bravura dei giocatori più esperti. Per quanto lo scoglio dovuto all’esecuzione (anche qui, riallacciandosi con un’altro punto cardine dei giochi di Epic Games, come già avveniva in Gears) renda la mossa poco agevole per chi è alle prime armi, ma anche per buona parte dei giocatori più avviati su console, al contrario su PC si sono visti esempi di giocatori che riuscivano a costruire le cose più disparate non solo nei momenti di calma tra uno scontro a fuoco e l’altro, ma persino durante questi.
Che ci piaccia o no, Fortnite ha ridefinito le regole dei battle Royale
Inizialmente le applicazioni era abbastanza modeste, consentendo di allestire rifugi e muri improvvisati dietro cui nascondersi laddova la conformazione della mappa non aiutava chi volesse salvarsi indenne dai camper. Torneo su torneo però, la comunità di Fortnite è riuscita a padroneggiare tale manovra arrivando a costruire pontili letteralmente in tempo reale, aprendosi una via di fuga in mezzo al nulla o costruendo ripari istantaneamente non appena si accorgevano di essere soggetti al fuoco nemico. Questo ha cambiato radicalmente tutte le regole di ingaggio e di movimento con cui si era soliti approcciarsi nei Battle Royale tradizionali. Consentendo la creazione di passerelle e muri praticamente dal nulla, il game design ha creato un modo unico e tipico di questo determinato gioco di gestire le cose, permettendogli un ventaglio di opzioni e una giocabilità che lo ha portato a differenziarsi in modo unico rispetto la concorrenza.
Sono dunque consistenti i modi con cui Epic Games e Naughty Dog hanno innovato e cambiato il panorama degli sparatutto in terza persona e in ciascuno dei loro giochi questo risultato è stato raggiunto grazie a precise scelte di game design, le quali hanno modificato le meccaniche e di conseguenza la giocabilità dei loro titoli creando esperienze uniche o alzando l’asticella per i concorrenti.