Non si può dire GDR senza dire RPG. Un’affermazione che può sembrare scontata dato che entrambi gli acronimi significano la stessa cosa (gioco di ruolo) in lingue diverse, tuttavia la differenza sta nel fatto che di solito intendono due cose differenti che però sono una il risultato dell’altra. GDR infatti sta per “gioco di ruolo”, intendendo quelli cartacei, in cui si compila una scheda con delle statistiche che determinano la bravura del proprio personaggio in varie attività e poi lo si interpreta seguendo il racconto di un narratore, il quale richiederà di lanciare un dado per verificare l’esito di alcune azioni.
RPG invece abbrevia “role playing game”, termine analogo che però si usa anche nel mondo dei videogiochi per intendere la trasposizione interattiva di tale genere di intrattenimento. L’interconnessione tra questi due campi è più stretta di quanto non si possa pensare, in quanto le basi fondanti del RPG videoludico sono praticamente le stesse di quello cartaceo.
Il primo punto riguarda un aspetto estetico ovvero la personalizzazione. All’inizio del gioco si è chiamati a dare forma al proprio personaggio, definendone l’aspetto in modo più o meno dettagliato, a seconda del titolo in questione. Allo stesso modo si è spesso anche chiamati a distribuire valori numerici per determinare le competenze in svariati campi, disponendo di un numero di punti limitato da assegnare a ogni voce, finendo inevitabilmente per tratteggiare punti di forza e debolezze.
La creazione del personaggio determina la sua forma e la sua sostanza
Questi due punti sono letteralmente il primo passo che viene richiesto al giocatore anche quando si appoccia a un GDR cartaceo come Dungeons & Dragons. A differenza della scuola nipponica, il protagonista dei RPG videoludici occidentali è solitamente un involucro neutro, un accessorio rimodellato interamente a gusto del giocatore. Tale scelta è derivata dall’essenza stessa del termine “gioco di ruolo”, in quanto nei corrispettivi cartacei lo scopo primario del gioco era quello di interpretare un personaggio, pertanto la personalizzazione era un elemento importante per favorire l’immedesimazione dei giocatori. La componente ludica dei GDR invece veniva regolata attraverso numeri, statistiche e tiri di dado per gestire combattimenti ed efficienza del proprio alter ego, sistema che è stato poi ripreso per gestire anche in versione digitale le medesime situazioni.
Qui però avviene la spaccatura che porta la scuola nipponica a reinterpretare il concetto di RPG nei videogiochi, pur tagliando sovente in toto l’intera parte dell’interpretazione del personaggio, in teoria talmente centrale nell’esperienza dei GDR da coniarne il nome stesso. Si chiamano “giochi di ruolo” perché l’interpretazione è prioritaria rispetto al tirare i dadi e valutare statistiche. Una priorità ribadita dal fatto che alcuni GDR cartacei preferiscono persino relegare in secondo piano combattimenti e dadi per dare massima priorità alla componente interpretativa, avvicinandola quasi ad una mini-recita.
I giapponesi invece hanno declinato il concetto in una forma ibrida, coniando la loro idea di GDR in RPG videoludico e poggiandola prevalentemente sul secondo aspetto (combattimenti e statistiche), e accantonando il primo (l’interpretazione). È frequentissimo infatti che il protagonista di un J-RPG abbia un nome, delle fattezze precise e una sua storia, offrendo quindi un eroe capace di coinvolgere il giocatore enfatizzando la forza della trama grazie alla sua presenza, ma diminuendo il fattore immedesimazione.
Questa breve parentesi è indispensabile per far capire come la scuola occidentale si mantenga più ligia al concetto originale, traducendolo in tutto e per tutto in chiave videoludica con scelte di game design ben precise. La stessa idea di interpretazione non è secondaria, in quanto anche questa è trasposta con delle meccaniche ben precise volte a dare una libertà di scelta analoga.
Tipicamente infatti l’eroe (o l’antieroe, a seconda) degli RPG occidentali ha un obiettivo principale che può essere conseguito a prescindere dal fatto che lui sia buono o cattivo. Tutto ciò che sta nel mezzo, e talvolta anche lo stesso finale, invece dipendono dalle scelte compiute dal giocatore per comportarsi bene o male. Un esempio classico può trovarsi in Baldur’s Gate, titolo creato espressamente per trasporre D&D su mouse e tastiera. Qui l’allineamento del protagonista può aderire su di una serie di sfumature di ordine e caos, bontà e cattiveria a seconda delle risposte date in alcuni dialoghi, dalle azioni compiute (come uccidere per derubare o impegnarsi in un combattimento pericoloso per salvare qualcuno), delle missioni secondarie svolte. Lo sviluppo diventa persino dinamico qualora si decida di cambiare allineamento a gioco in corsa. Tale meccanica diventa persino centrale nei giochi della serie Knights of the Old Republic, i quali sfruttano il tema cardine di Star Wars, del lato chiaro e oscuro, per riprodurre le scelte morali.
Questo aspetto rientra molto più di quanto non si creda nel campo del game design, in quanto non si limita ad una semplice note di colore della caratterizzazione del personaggio, ma può modificare gli eventi del gioco, gli oggetti ricevuti, la frequenza degli scontri. Ad esempio, rinunciando ad usare il lato oscuro e la stretta della forza (quella resa celebre da Darth Vader) per minacciare un PNG, il giocatore potrebbe dover pagare di più un oggetto, sborsando più soldi. Ma qualora invece venga utilizzata l’intimidazione per trarne vantaggio, questo potrebbe diventare un fuorilegge attaccato a vista. Tali scelte cambiano quindi l’esperienza ludica raggiungendo un tipo di profondità tale da diversificarsi molto bene e creare avventure discretamente differenziate all’interno dello stesso titolo.
Il fatto che il protagonista sia quindi un involucro vuoto, personalizzabile e interpretabile, diventa quindi aspetto di game design perché esce al di fuori del confine della narrazione e va a toccare punti focali della giocabilità. Si trova un’ulteriore applicazione di tale principio nel fatto che a seconda della struttura del personaggio, si possono sbloccare attività o addirittura missioni secondarie, che si possono svolgere solo qualora si sia posto l’accento su specifiche voci. Anche questo rafforza il concetto di gioco di ruolo, creando un circuito virtuoso che valorizza ogni specifico modo di giocare, premiando il giocatore che sceglie di puntare su di una specifica build.
Altro aspetto fondante è il principio di confronto delle statistiche nelle fasi di combattimento. Nei GDR da tavolo abbiamo detto che per determinare l’esito di un’azione complessa come un combattimento, è necessario lanciare ogni turno un dado, sommare al risultato il bonus conferito dalla statistiche attribuita al proprio personaggio in quello specifico campo e verificare se la somma soddisfa o meno la soglia richiesta per conseguire il successo. Molti videogiochi hanno scelto di copiare alla pari questo metodo, assegnando ad un algoritmo il compito di lanciare un dado virtuale e assegnare al computer il ruolo del narratore, di gestire i PNG e controllare i risultati di ogni azione.
Pertanto la vittoria non è determinata tanto da un’azione svolta in modo attivo e su base motoria dal giocatore (ad esempio effettuando al momento giusto un’azione, come potrebbe avvenire in un gioco d’azione o un action-rpg al massimo), quanto da una semplice scelta (lanciare una palla di fuoco o tirare un colpo di spada), la quale sarà più o meno efficace in base al modo in cui è stato plasmato ed equipaggiato in seguito il personaggio. Se difatti abbiamo assegnato valori elevati nell’utilizzo della spada e nella forza, sarà più probabile che l’approccio all’arma bianca risulti più efficace, ma restando sempre vincolato al principio del lancio di dado, qui semplicemente riprodotto da un algoritmo.
Per queste ragioni si può quindi dire che gli RPG occidentali sono quanto di più fedele ci sia all’idea stessa che Gary Gigax ebbe quando creò il celebre Dungeons & Dragons, dando inizio ad un modo di giocare che si è rivelato in seguito, anche un apprezzato genere videoludico.
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