Lo stealth non funziona senza un’adeguata intelligenza artificiale ostile, né senza il realismo delle azioni. Se poi si viene scoperti, bisogna lottare. Dopo aver analizzato l’importanza dell’ambiente e dell’equipaggiamento nello stealth ideato da Hideo Kojima, passiamo alla discussione del ruolo dei nemici, del sistema di controllo (o movimento) e dell’azione che si innesca quando si rompe lo stealth.
Nonostante nel primo Metal Gear Solid (MGS1) i nemici si limitassero ad eseguire semplici percorsi di ronda individuali, non mancavano delle chicche preziose per l’epoca: gli avversari potevano notare le nostre tracce sulla neve, oppure essere distratti dal suono di un pugno battuto sul muro. Tuttavia, le limitate capacità di calcolo della PlayStation imponevano rigidi paletti nell’intelligenza artificiale: ad esempio, i soldati presenti sullo schermo potevano essere quattro o cinque al massimo.
Il salto su PlayStation 2 innesca uno scatto qualitativo decisivo per la serie. Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (MGS2) comprende scene con dozzine di personaggi: nella stiva del tanker, prologo “fuorviante” giocato nei panni di Solid Snake, un plotone intero di soldati, ciascuno dotato del proprio cono visivo, ci da la caccia.
Viene introdotta la meccanica di occultamento del corpo dei nemici. La resa delle ombre raggiunge picchi artistico-tecnici ignoti prima, tanto da rendere l’infiltrazione ancora più delicata. Gli ambienti si diversificano in spazi illuminati e spazi bui, quest’ultimi favorevoli all’infiltrazione. I pattern individuali di MGS1 vengono rimpiazzati da intelligenze artificiali capaci di manovrare gruppi di avversari, per giunta, non più confinati ad una singola area di caricamento. I soldati, poi, iniziano ad interagire fra loro, chiacchierando e facendo commenti, spesso inerenti alla trama. MGS2 introduce anche una meccanica che diverrà tra le più apprezzate dai giocatori: la possibilità di interrogare i nemici.
In particolare, sorprendendo un avversario alle spalle e mirando in prima persona gli organi vitali, si possono ottenere diverse cose utili, inclusa la targhetta (collezionabile) munita di nome e cognome del malcapitato. Se ci si distrae in fase di interrogatorio, il nemico prova a divincolarsi: è fondamentale ribadire come questo livello di realismo fosse rivoluzionario per l’epoca (e forse anche adesso).
Metal Gear Solid 3: Snake Eater (MGS3) raffina moltissimo le tecniche da interrogatorio, introducendo il Close Quarter Combat (CQC) come mezzo di estorsione: diviene possibile spostarsi di fronte al nemico dopo averlo sorpreso alle spalle, mantenendo l’arma puntata sul bersaglio durante questo movimento. Alternativamente, si può scegliere di afferrare un avversario ed interrogarlo con il coltello: la sensibilità della levetta analogica diventa fondamentale per discernere tra una minaccia efficace, ottenuta con movimenti delicati del pollice, ed uno sgozzamento.
Sia Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots (MGS4) che Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain (MGS5) conservano queste meccaniche in maniera concettualmente identica.
Infine, un’altra meccanica fondamentale che fa il suo ingresso in Sons of Liberty, ad ulteriore dimostrazione dell’ambizione smisurata ma in gran parte realizzata di questo secondo capitolo, è la presenza di un intervallo di tempo fra la scoperta del nostro personaggio e l’inizio di una fase di allarme. Quest’ultima, infatti, può essere attivata solamente dai soldati muniti di radiolina. Snake Eater espande questo concetto, introducendo la possibilità di mettere fuori uso la suddetta radio e, di fatto, impedire preventivamente la chiamata di rinforzi.
Le mosse di Solid Snake in MGS1 sono basilari: può procedere di corsa oppure strisciare silenziosamente a terra. Dal punto di vista del combattimento, egli può utilizzare armi da fuoco in movimento (la mira statica in prima persona viene introdotta solamente in MGS2) oppure eseguire brevi combo di pugni e calci per stordire momentaneamente i nemici: la durata dello “svenimento” dipende dalla difficoltà di gioco.
Raiden è leggermente più agile: può penzolare da ringhiere e balaustre, aggirando così le guardie site nei ponti di raccordo fra le varie strutture della Big Shell. La durata massima del grip è indicata da una barra di resistenza: esaurita questa, il povero Raiden sarà vittima di cadute rovinose.
MGS3, come detto, introduce il CQC (Close Quarter Combat), ossia una forma più evoluta del combattimento melee in cui Big Boss può impugnare simultaneamente un’arma da fuoco ed un coltello di sopravvivenza.
MGS4 permette, per prima volta nella serie, di camminare in modalità stealth, ossia di avanzare abbassandosi ma non strisciando. Inoltre, Guns of the Patriots implementa la barra dello stress, molto diversa da quella della stamina: se ricercato o sotto fuoco nemico per periodi prolungati, Old Snake vedrà l’efficacia di molte sue azioni ridursi drasticamente. La mira, ad esempio, diverrà deficitaria in precisione ed accuratezza. Questa “mutilazione” del gamplay è pertanto essa stessa una meccanica di gioco della saga: alle volte, per mantenere coerenza con gli eventi della storia, l’intero set di mosse di un personaggio può variare. In MGS1 non si possono utilizzare armi da fuoco nel deposito delle testate atomiche. Nell’Arsenal Gear di MGS2 il Raiden ignudo, pignolo a tal punto da coprirsi, può usare una sola mano per sopravvivere: Kojima avrebbe potuto usare dei pixel e mantenere inalterato il gameplay, ottenendo ugualmente un gioco PG-13 (ossia vietato ai minori di 13 anni)…
… ma non sarebbe stato Kojima. Stiamo parlando di un maestro supremo di giustapposizione fra serietà assoluta e presa in giro da bar, con uno spiccato gusto per il ridicolo: la gravitas che immerge la Metal Gear Saga a dispetto delle innumerevole trollate (ho cercato disperatamente un sinonimo altrettanto potente ma non mi è venuto) è il testamento della qualità della sua arte.
MGS5, infine, gode del gameplay più fluido dell’intera saga: Venom Snake può compiere scatti (efficacemente accompagnati da vibrazioni del joypad e camera shake) e guidare macchine per spostarsi nell’enorme mondo di gioco.
Quando veniamo scoperti dai nemici ci sono due opzioni: evadere dal loro campo visivo per l’intero periodo di allerta oppure combattere. Nel caso scegliessimo la via del confronto diretto, il gioco assume rapidamente i connotati di un action in terza persona. Questa transizione non è sempre stata semplice da gestire all’interno della saga, data l’anima stealth della maggioranza delle meccaniche di game design: la quadratura del cerchio è, a mio avviso, raggiunta solamente dal quinto capitolo, The Phantom Pain. Le missioni di Venom Snake offrono infatti delle soluzioni “frontali” estremamente soddisfacenti, grazie ad un gunplay raffinato e fluido, che si integra bene con il sistema di coperture.
Inoltre, alcune novità, quali la possibilità di richiedere bombardamenti aerei di supporto, hanno il potenziale di rendere l’area di gioco una vera e propria zona di guerriglia viva e coinvolgente.
Prima di The Phantom Pain, nessun Metal Gear Solid, ad eccezione di Guns of the Patriots, il quale è in gran parte ambientato nel pieno della guerra mediorientale, aveva puntato ad invogliare il giocatore all’azione.
Nei primi tre capitoli, le sparatorie a campo aperto sono confinate a sezioni limitate del gameplay e, solitamente, trovano la loro ragion d’essere negli eventi della storia.
Alcuni esempi comprendono: la fuga dalla prigione con Meryl in MGS1; l’uscita dalla base di Shadow Moses, sempre nel primo capitolo; la sezione di Big Shell in cui Raiden protegge Emma con il fucile di precisione; la strage all’interno dello stomaco di Arsenal Gear.
Ovviamente, tra le fasi di azione vanno annoverati i combattimenti con i boss, da sempre fiore all’occhiello della saga. Questi scontri, elevati dall’enorme valore artistico (si pensi allo scontro con The Boss in un campo di fiori in MGS3), presentano caratteristiche peculiari dal punto di vista del gameplay: ogni boss possiede uno stile di combattimento differente che solitamente ben si integra con le caratteristiche dell’arena dello scontro. Si potrebbe dedicare un aprofondimento solamente a questo argomento, pertanto non aggiungo altro in questa sede.
L’arsenale messo a disposizione nei Metal Gear Solid è andato in crescendo con lo scorrere dei capitoli. La varietà delle armi, letali e non (quest’ultime introdotte in MGS2), non è mai fine a sé stessa: solamente nel caso di MGS4, l’artiglieria offertaci dal beffardo riciclatore Drebin rimane parzialmente sottoutilizzata. Una menzione d’onore va tributata al fucile di precisione, il cui utilizzo richiede un’intrinseca strategicizzazione dell’azione che si fonde alla perfezione con le meccaniche stealth. Non a caso, Kojima ha modellato alcuni dei momenti più indelebili dell’intera saga attorno al fucile di precisione, ad iniziare dal duplice duello con Sniper Wolf in MGS1: una gara di velocità e precisione, arricchita da finezze quali l’uso del diazepan per fermare il tremolio delle mani. La sublimazione, tuttavia, arriva nella battaglia con The End in Snake Eater.
Questo scontro, peraltro interamente evitabile (altra chicca incredibile), non ha ritmi incalzanti bensì si esprime come un lento studio vicendevole tra il giocatore e l’intelligenza artificiale. Può durare ore, letteralmente: scovare The End nelle tre aree contigue di foresta è ostico e, per avere successo, occorre mettere in pratica tutte o quasi le meccaniche di gioco. Si possono seguire le tracce per terra, osservare dagli alberi, usare il sonar (attenzione al rumore che questo emette quando in funzione!), usare il visore ad infrarossi, usare la pillola della morte, sfruttare la mimetizzazione con l’ambiente ed altro ancora. Con sufficiente maestria, si può giungere alle spalle di The End ed eliminarlo con un sol colpo, magari anche rubandone il fido pappagallo; oppure, viceversa, si può essere sorpresi e giustiziati: le possibilità sono infinite. The Phantom Pain arricchisce la gamma di usi del fucile di precisione aggiungendo la possibilità di reclutare Quiet per eseguire una ricognizione delle postazioni nemiche.
Questo cecchino dalle poche parole ha la facoltà di rendere momentaneamente visibili le posizioni di alcuni nemici e, qualora servisse, di abbatterli. Per la prima volta nella serie, MGS5 permette di taggare i nemici, concretizzando i vantaggi di un’attenta ricognizione.
Capitolo per capitolo, Hideo Kojima ha costruito una struttura di game design solida come una roccia e raffinata quanto un castello di carte. Chi ama lo stealth nei videogiochi può apprezzare la libertà concessa nel pianificare ed eseguire una complessa operazione di infiltrazione. Tutti gli altri passino per la porta principale, muniti di bazooka e granate. Va bene lo stesso.