Nel corso di una missione di Kingdom Come: Deliverance bisogna andare alla ricerca di un cavallo scappato da una stalla e finito chissà dove. È un compito idealmente molto semplice, quasi triviale, che la maggior parte dei videogiochi risolverebbe con grande facilità a livello di design: ottenuta la missione, sulla mappa/minimappa/bussola apparirebbe un indicatore che, seguito, condurrebbe dall’animale. Magari sulla strada troverei qualche nemico da affrontare, ma in generale la ricerca non sarebbe tale perché la destinazione sarebbe certa e sempre ben visibile (nella concezione dei moderni designer il giocatore non deve mai perdersi).
In questa circostanza non voglio giudicare un certo modo di concepire i videogiochi, ma un dettaglio mi urge di sottolinearlo: quando un gioco assiste il giocatore continuamente, cercando di eliminare la possibilità che sbagli, è perché lo considera di fatto un inetto e tenta, quindi, di prevenirlo. Un approccio simile presuppone una continua presenza, pur mascherata, dell’autore, che si pone l’obiettivo di tenere per mano il giocatore dall’inizio fino alla fine del gameplay, limitando le sue possibilità di entrare in rapporto con il mondo di gioco, volendo anche in modo conflittuale. Vai dal punto A al punto B, guarda quello che succede e torna a prendere la tua ricompensa. In termini di linguaggio videoludico possiamo considerare un simile approccio come essenzialmente assistenzialistico e illusorio: il videogiocatore non vive un’avventura, ossia non cerca un tesoro su di un’isola misteriosa, ma viene fissato a una giostra decorata da isola che, dopo qualche scossone, si conclude inevitabilmente con l’apertura automatica di una cassa. Ma torniamo al nostro cavallo scomparso in Kingdom Come: Deliverance e alle fatiche del povero Henry, il protagonista, per ritrovarlo.
La missione mi viene assegnata da uno stalliere di Uzhitz, che mi dà anche qualche indicazione di massima su come e dove iniziare a cercare: devo raggiungere un crocevia in mezzo al bosco, situato a sud delle stalle dove mi trovo, e guardarmi intorno alla ricerca di tracce. Un dettaglio: sulla mappa non appare alcun segnaposto. Ciò significa che devo cercare l’incrocio da solo. Osservando la cartina individuo facilmente la mia destinazione. Arrivato sul posto però, non vedo alcun cavallo e, come prima, non appare alcun indicatore. Mi guardo intorno e trovo… della cacca. A differenza di tutti gli altri escrementi sparsi per il mondo di gioco, questa è esaminabile. Facendolo Henry sottolinea che è ancora calda e che forse è stata lasciata dal cavallo che sto cercando. Bene, finalmente ho una pista da seguire (una scia, più che altro)! Mucchio di escrementi dopo mucchio di escrementi giungo a un piccolo accampamento posto sul lato di una collinetta che dà su un fiumiciattolo, dove le tracce del cavallo sembrano svanite. C’è però un viandante, cui posso chiedere se per caso lo abbia visto passare. L’uomo, molto gentile, mi dà qualche informazione: il cavallo ha risalito il fiume sottostate inoltrandosi nel bosco. La ricerca prosegue.
Il fiume dista qualche passo dall’accampamento. Una volta arrivato mi guardo intorno senza scorgere nulla. Che direzione avrà preso il mio amico quadrupede? Ricordando le indicazioni del viandante prendo a seguire il percorso del fiume andando controcorrente, come un salmone. Ormai è notte e fatico a vedere alcunché, nonostante abbia una torcia. Rischio anche che qualche animale mi aggredisca. Qui commetto un piccolo errore, che successivamente scoprirò non essere tale: incrociato un campo di carbonai, tiro dritto (stavano dormendo) e continuo a seguire il fiume. Dopo qualche minuto di cammino senza tracce mi rendo conto che qualcosa non va.
il design garantisce la fattibilità della missione, ma fa di tutto per farcela svolgere nei panni di Henry e non in quelli del giocatore
Torno dai carbonai. Attendo che si faccia giorno e che si siano svegliati e gli chiedo del cavallo. Mi viene detto che è passato da quella parte e che un loro collega lo ha seguito. Scopro quindi che ero sulla strada giusta: non l’ho visto visto a causa del buio pesto! Riprendo a seguire il fiume e raggiungo un altro piccolo accampamento dove mi viene confermata la vicinanza del cavallo, che trovo poco più a sud in compagnia del carbonaio. Purtroppo l’uomo afferma che ormai l’animale è suo e non vuole ridarmelo. Per ottenerlo devo pagare una cifra ridicolmente alta, non nelle mie disponibilità attuali. Volendo posso picchiarlo, o anche ucciderlo, e risolvere la situazione, ma scelgo una terza via. Corro dal cavallo, ci salgo in groppa e scappo nel bosco. L’uomo mi insegue ma, ovviamente, non è abbastanza veloce. Torno quindi alle stalle e riconsegno l’animale ai legittimi proprietari, ottenendo la dovuta ricompensa (di valore molto inferiore a quello che pretendeva il carbonaio per ridarmi il cavallo).
A margine della missione vanno notati alcuni dettagli: durante il suo svolgimento non ho mai combattuto, anche se avrei potuto; il cavallo è sempre stato nello stesso posto, non viene cioè sbloccato seguendo le tracce lasciate dai designer ma fa parte del mondo di gioco (per verificarlo ho rigiocato la missione dall’inizio, dirigendomi direttamente dove lo avevo trovato la prima volta); le scelte fatte dal giocatore durante la missione non sono esplicite, ossia non ci si trova mai di fronte a dei bivi manifesti imposti dagli sviluppatori, ma sono implicite e nascono dal rapporto che si instaura tra giocatore, mondo di gioco e interfaccia utente.
Tirando le somme, il design garantisce la fattibilità della missione, ma fa di tutto per farcela svolgere nei panni di Henry e non in quelli del giocatore, mediando continuamente tra i livelli di realtà in campo. Aiuta come può, ma fa in modo che gli aiuti non scavalchino Henry, ossia non vadano oltre la sua esistenza nel mondo in cui vive. In questo modo un compito apparentemente da nulla diventa un’avventura vera e propria, che percepiamo di poter svolgere con un certo margine di libertà, pur essendo fondata su dei presupposti verosimili: il cavallo ha compiuto un certo percorso, è stato visto da alcune persone (e non altre) e si trova in un certo luogo, dove rimarrà per un certo tempo.
Il realismo, e qui arriviamo finalmente al punto, non va quindi cercato solo nella rappresentazione (texture, edifici, personaggi), ma soprattutto nel linguaggio utilizzato. Non è una caratteristica quantificabile, ma è una propensione del gameplay, ossia la modalità dialettica con cui il tessuto ludico entra in contatto e cerca di coinvolgere il giocatore. È un descrivere, non un affermare. Individuato il fine si può poi dibattere su quanto gli sviluppatori si siano avvicinati a raggiungerlo e si possono trarre delle conclusioni di massima su di esso, perché la sua sola esistenza concettuale non è indice della qualità del lavoro svolto, ma negarlo completamente è semplicemente un errore che finisce per distrarre l’analisi, facendola sfociare nel pregiudizio. Kingdom Come: Deliverance non è quindi da considerare più o meno realistico facendo un semplice confronto con la realtà, che ovviamente non può riprodurre che in minima parte; lo è perché tenta di tradurne il linguaggio in quello videoludico, impresa che non gli riesce completamente in alcune circostanze, ma verso cui tende senza esitazioni.