Avviene sempre così. Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità. É un gran torto non essere conosciuti. Vuol dire rimanere isolati, chiusi nel proprio dolore, senza possibilità di aiuti, di conforto. Per un popolo, per una razza, significa il lento dissolvimento, l’annientarsi progressivo di ogni vincolo internazionale, l’abbandono a se stessi, inermi e miseri di fronte a chi non ha altra ragione che la spada…
A scriverlo è Antonio Gramsci, uno dei più importanti pensatori del XX secolo, in un articolo pubblicato l’11 marzo del 1916 sul settimanale Il Grido del Popolo, ma sempre attuale.
Eccola Aleppo est, quella per anni sotto il controllo dei ribelli e teatro di scontri durissimi, quartiere Sheikh Saeed: palazzi sventrati dalle esplosioni, scheletri di cemento che si stagliano all’orizzonte. Un pugno nello stomaco se si pensa che era uno dei centri più vivaci della Siria, la terza maggiore città cristiana del mondo arabo, dopo Beirut e Il Cairo. Oggi è solo una cittadina piena di fantasmi, anche se molti di coloro che ci abitano provano a riprendere una parvenza di vita, senza aspettare una ricostruzione post-bellica da poco avviata, ma ancora troppo in là a venire. Anche perché la guerra nel resto della Siria non è ancora finita.
Così ci sono Tarek e la figlia Qamar che hanno una bancarella davanti a quello che un tempo era il loro negozio, o Adad, uno dei tanti disoccupati di guerra diventato ambulante, che con una sedia, un rasoio e una bacinella d’acqua si è improvvisato barbiere proprio accanto ai ruderi della bottega di un coiffeur.
Per non parlare di Akram Fathi, che vende fagiolini e patate, e che tra quattro mura di pietra grezza che non riparano da spifferi e infiltrazioni, ha piazzato una poltrona e ricavato un salotto estemporaneo in quello che un tempo era un Internet Point, dove con la sua famiglia ha ritrovato una casa. Quello che conta, in fondo, sono le piccole cose.
Poco più in là, per esempio, a poca distanza da un semaforo che funziona grazie all’energia solare, c’è un uomo che indossa una divisa da poliziotto mezza rattoppata. È solo, non può contare sul supporto dei colleghi e dei soldati russi che qui collaborano col regime per mantenere l’ordine pubblico, ma sembra deciso a far rispettare lo stesso le regole. Alle sue spalle c’è il viale di accesso a un’area pericolosa, dove sta lavorando un bulldozer, pertanto non fa passare nessuno. “E’ rischioso – dice, – è pieno di calcinacci e ci sono ancora frammenti di bombe inesplose”.
Tiene a bada diverse persone, compresa la nostra guida, il fotografo e i quattro miliziani di scorta. Solo contro tutti, senza farsi intimorire da nessuno.
Decido di ascoltarlo. Mi fermo a distanza, faccio un paio di foto personali con lo smartphone e osservo la scena da dove mi trovo. Una scena terribile, più di quanto possa sembrare. Basta solo mettere in moto la mente, ed ecco che il panorama assume un altro volto. Un volto più profondo e più drammatico di quanto già non appaia alla vista.
Ogni strada, ogni piazza, ogni pietra potrebbe raccontare una storia. Ma non può parlare, e non c’è nessuno che può interpretarne correttamente i “segni”, quelli scavati da un proiettile o impressi nel cemento da un urlo disperato. Chi ci viveva in questa casetta a due piani? Qualcuno ricorda se qui all’angolo c’era un negozietto di videogiochi o un panificio? In quel vicolo ricolmo di macerie qualche coppietta ci avrà trascorso qualche attimo di intimità? E ancora, com’era il sapore del caffè in quel locale di cui è rimasta in piedi solo l’insegna e il pezzo di parete a cui è attaccata? Quali sono stati i muri delle fucilazioni? Quanta la fame, la paura, la speranza di chi era nascosto dentro quella vecchia scuola diroccata?
Tra le macerie di ciò che resta del piccolo parco giochi adiacente, l’immagine per me forse più disturbante, quella di giocattoli sepolti da polvere e macerie. E tra i detriti, un soldatino di plastica che emerge per metà da un mucchio di terriccio, simbolo di quella tragica ironia che a volte permea gli eventi più drammatici.
Lui, finto guerriero in una guerra reale, falso soldato “morto” e sepolto dalle bombe di soldati veri.
Un rumore secco, uno stacco, e un pezzo di cornicione cade da un palazzetto a tre piani più avanti. Il poliziotto di prima si gira verso di noi, e esclama sorridente: “Visto?”. Lui il suo dovere lo ha fatto. Crollano gli edifici, ma non la voglia quasi disperata di normalità di questa gente. Perché dietro gli sguardi talvolta spenti, dietro il dolore della perdita, in realtà c’è ancora un’anima che spinge per la rinascita.
In questa atmosfera un po’ surreale non mi stupisce di vedere dei bambini con la maglia del Barcellona, del Real Madrid o dei Pokémon. Residui di una vita che fu, di quando qui, come nel resto del mondo, si guardavano le partite di calcio internazionale e nei negozi si potevano comprare i gadget delle squadre o dei videogiochi più importanti. Samir non sa però delle ultime Champions vinte dal suo idolo Cristiano Ronaldo. Per lui il tempo si è fermato nel 2013: la guerra, la fuga verso il campo profughi di Jibreen e il ritorno ad Aleppo nel quartiere di Bustan al-Qasr, un’area della città a lungo priva di elettricità. Infine la mancanza di ripetitori, di una TV e di tempo per guardarla. Haya, invece, forse nemmeno si ricorda più di Ash e Pikachu.
Mi fa una certa tenerezza, con quella sua espressione timida e il suo sguardo innocente. Uno sguardo limpido che rispecchia un animo fanciullesco dov’è ancora vivo lo stupore, la genuina capacità di meravigliarsi e di gioire di fronte alle piccole cose della vita. Come un videogame, che in un secondo illumina i suoi occhi. “Mario!” esclama all’unisono coi compagni: e mentre la mascotte di Nintendo saltella sullo schermo del mio smartphone in Super Mario Run, un altro ragazzino del gruppo, curioso, ne approfitta per chiedermi attraverso la guida cosa ci fa quel gioco nel telefonino di un uomo della mia età.
Mi domando quanti anni debbo sembrare di avere agli occhi di chi, in un lampo, si è visto sottrarre l’infanzia ed è dovuto diventare in fretta uomo per non farsi schiacciare dalla guerra. Piccoli grandi eroi che non sembrano volersi piegare alla dura realtà, che non si vogliono fermare neanche dinanzi alla bestialità di persone sadiche e cattive le cui azioni, nonostante tutto, non sono riuscite a spazzare via i sogni che li animano.
Anche se a qualcuno di loro hanno spento per sempre il sorriso con un proiettile.
Un ringraziamento speciale per le foto va al mio amico Michal Przedlacki©, che da anni fotografa, documenta e denuncia al mondo il dramma delle guerre in Afghanistan, Siria e Africa.