Giocato senza grandi aspettative, il primo Dying Light riusciva a essere davvero fulminante. Privo di un pedigree di razza, la prima opera di Techland, secondo studio polacco dopo CD Projekt RED, aveva la rara dote di mescolare freschezza di idee con solide fondamenta di game design e world design. Passati quasi sette anni dall’uscita, la formula di Dying Light mantiene gran parte delle sue unicità, perché i punti cardine non sono stati ripresi da nessun altro gioco.
Tuttavia, non si può nemmeno dire che questi buoni spunti siano stati evoluti dal suo successore… e questo è un vero peccato!
Dying Light 2 ha il più divertente sistema di navigazione della mappa dopo gli Spider-Man di Insomniac. Saltare tra i tetti della città esibendo mosse di parkour risulta incredibilmente soddisfacente perché coglie il giusto equilibrio fra intuizione e strategia. La prima viene esaltata dal fatto che, nonostante la grandezza imponente della mappa, non ci sono quasi mai sporgenze bloccanti, ovvero dalle quali non è possibile proseguire oltre.
La seconda si attiva grazie alla progressione del personaggio, che acquisisce man mano mosse più audaci, e del giocatore, che sviluppa una sensibilità per i percorsi più convenienti. Insomma, proprio come accadeva nel primo capitolo, il parkour è il tratto caratteristico del gioco e, se considerato fino a sé stesso, non ha perso nulla del suo antico smalto anzi, grazie all’aggiunta del parapendio alla Zelda Breath of the Wild, ha guadagnato ulteriore verticalità.
Cotanto divertimento in termini di mero spostamento nella mappa sarebbe ancora più significativo se rappresentasse l’intermezzo fra quest narrativamente e ludicamente incisive: il primo aspetto, a dispetto dell’iniziale coinvolgimento addirittura di Chris Avellone, rappresenta il tallone d’Achille della produzione. In altre parole, Dying Light 2 è il racconto delle gesta dimenticabili di un eroe poco carismatico: sebbene questa critica avesse senso anche nei confronti del primo gioco, la grandiosità a cui aspira questo sequel non fa che inasprire il disappunto del giocatore.
Come molte testate hanno correttamente titolato in fase di recensione, l’opera di Techland tende a capitolare sotto il peso delle sue stesse ambizioni. Molte idee, anche buone, vengono presentate ma non approfondite con la necessaria dovizia: fra tutte, spicca la divisione della città in fazioni che, vale la pena ricordare, faceva in modo più efficace e sicuramente divertente GTA San Andreas nel lontano 2004.
Dying Light 2, le fazioni di Villedor fanno da sfondo alla storia
Nell’inevitabile dicotomia tra quantità e qualità, Dying Light 2 non fa mistero di prediligere la prima. Sebbene comune negli open world, questa scelta risulta particolarmente degna di essere recriminata perché la cura della storia principale risulta nettamente insoddisfacente: Dying Light possiede le carte in regola per essere un prodotto di primo piano, ma dimentica che una storia da copertina é un requisito fondamentale.
A grandi linee, seguiamo il percorso di Aiden, un pellegrino che giunge nella città di Villedor nella speranza di trovare tracce della sorella, della quale serba solamente vaghi ricordi di infanzia passati in un ospedale dove venivano portati avanti esperimenti su bambini.
Forse l’unico spunto narrativamente interessante dell’incipit di gioco riguarda la figura del pellegrino, costantemente in movimento tra centri abitati, affronta le grandi distanze extra-urbane per consegnare oggetti e messaggi. Il mestiere sembra lo stesso di Sam Porter Bridges di Death Stranding tuttavia il gioco non si preoccupa minimamente né di approfondire la psicologia del protagonista né di fornire qualche appiglio emotivo al giocatore per seguire le vicende con partecipazione.
Dying Light può essere una delusione solo per chi lo ha atteso speranzosamente. Chi ne entra in contatto “a freddo” ha molte più possibilità di divertirsi senza troppi ripensamenti e dietrologie, apprezzando le svariate caratteristiche positive (essenzialmente le medesime del gioco originale). L’attesa spasmodica non aiuta la percezione dei prodotti, però risulta innegabile che ne aumenti le vendite, specialmente in prossimità del day one.
Dying Light nasce come classica sleeper hit, come prodotto di nicchia reso di successo dal lento passaparola. L’attenzione da copertina non si confà alla creatura di Techland, anzi è come rivolgere una luce molto forte sul volto di un’anziana signora ben truccata: si notano le rughe, anziché apprezzare la gradevole immagine dalla media distanza.