Dopo ben 130 ore, innumerevoli pozioni, incalcolabili cambi d’arma e quasi tutti i respec concessi, ho finito Elden Ring. Pensavo sarebbe stata una pietra miliare da festeggiare, invece si è rivelata essere l’inizio della siccità videoludica estiva. Ho provato numerosi giochi per passare parte del mio tempo libero in queste afose giornate, ma non ho trovato nulla che mi abbia davvero catturato. Qua sotto vediamo cosa ho provato e perché non ha funzionato.
Il gioco in se è traballante. Provare ad inanellare un prodotto così lineare per concezione ed esecuzione, con qualcosa di più evoluto ed originale non è stata nemmeno a priori una scelta saggia. Questo DLC da supereroi ha una storia risibile ed un gameplay derivativo, a volte divertente ma fondamentalmente non profondo. La grandezza e la pulizia garantita dalla produzione degli studi first party di Sony non può redimere quello che è sostanzialmente un giochino tiepido per cui nessuno sembra essersi preso la briga di discutere come renderlo peculiare in qualunque forma. Spenzolare tra i grattacieli è divertente, ma non si vive di sole ragnatele.
La seconda avventura della nuova trilogia dell’Agente 47 è un discorso diverso rispetto al sostituto ragnetto in calzamaglia. Hitman è infatti un gioco con una personalità ben definita, che ambisce a creare un’esperienza ben precisa. I livelli sono vasti e traboccanti di idee, il gameplay è limitato ma, con una buona dose di volontà del giocatore, ha successo nel catapultarci in una simulazione stealth complessa. Sebben la credibilità dell’infiltrazione sia appesa ad un sottile filo invisibile, non si può negare la meticolosità con cui ogni sotto-missione ed ogni oggetto di contorno sono distillati noi livelli. Molto bene quindi, no? Il punto cruciale che impedisce a Hitman di essere un solido e duraturo passatempo è che si tratta di un elegante esercizio di pensiero per cui sono state costruita le ossature ludiche appena sufficienti da far intravedere realizzato il concetto di base. Comparato a giochi che introducono interi mondi e relative mitologie, sembra quasi una diversa forma d’arte.
Come le ciambelle, non tutti gli Zelda escono necessariamente col buco. Sebbene sia sempre lodevole la voglia di Nintendo di innovare sulle meccaniche della sua saga più prediletta, costruendo spesso l’intero impianto ludico su una semplice idea, alcune volte delle scelte più classiche sarebbero state più efficaci. L’avventura originale, Skyward Sword, non era tra le più memorabili tra le tante di Link. Questa remaster HD per Switch non fa nulla per attenuare le rigidità di un design spigoloso. Pertanto buoni momenti si alternano a frustrazioni che spezzano l’incanto, pretendendo un preciso comportamento da parte del giocatore. La frustrazione è stata fedele compagna di viaggio in Elden Ring, direte voi, perché mai risulta cosi avversa qui? La risposta è che il tempo perso perdendo non era mai veramente perduto nell’Interregno. In Zelda, si. Provare a sconfiggere un nemico solo per finire a fare a cazzotti con un sistema di combattimento bello solo in teoria è una perdita di tempo. Girovagare per trovare la giusta via per proseguire dopo aver lasciato la Switch sul comodino per una settimana non porta ricompense, data la natura lineare (ed intrisa di back-tracking) del gioco. D’altronde, si potrebbe parlare di come Breath of the Wild abbia reso più complicato mettere mano ai capitoli precedenti, ma quella è tutta un’altra storia.
Botte da orbi, con pochi fronzoli e spiegazioni. Tematicamente allineato con Elden Ring, Sifu è il gioco della relativamente giovane e ignota casa di sviluppo Sloclap. Esperimento riuscitissimo di doppiaA che brilla nel design e nasconde le ristrettezze di budget. Condivide l’uso della difficoltà come strumento didattico con le opere From, tuttavia ha presto ceduto alla richiesta popolare di una selezione del livello di sfida. Essendo il gioco più di senso compiuto tra quelli nella funesta lista riportata poc’anzi, non ho da esprimere lamentele su aspetti specifici. Il problema è puramente nel tempismo: dopo aver affrontato un lungo viaggio di apprendimento nell’Interregno, non ero preparata ad un’altra paziente transizione da studente a maestro di kung-fu.
La regola d’oro del videogiocatore esperto predica che gli open world vadano centellinati nel tempo. Per questo sto rifuggendo dall’iniziare Horizon Forbidden West: sebbene apprezzi il personaggio di Aloy e sia curiosa di scoprire come si evolve, sono consapevoli che non ritroverò la bellissima sensazione di scoperta di Elden Ring, e nemmeno l’inventiva e fascino delle quest criptiche di cui sono disseminate Sepolcride, Liurnia e così via.
Per i medesimi problemi di tempismo che hanno afflitto la mia esperienza con Sifu, sto postponendo Returnal. Anch’esso basato sulla ripetizione, seppur con meccaniche diverse, potrebbe rivelarsi più frustrante del necessario data la fatica pregressa da difficoltà. Forse, a volte, anche i videogiocatori devono prendersi una vacanza.
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Credo che quella sensazione di vuoto post Elden Ring l’abbiamo provata un pò tutti, quando trovi un gioco del genere a cui dedichi tante ore, ma te le ripaga tutte alla grande, diventa difficile trovare poi qualcos’altro di soddisfacente.
Nel mio caso mi sono “bruciato” Demon’s Souls e Jedi fallen order, salvo poi invece prendermi molto con Code Vein, Dark Souls 2 e 3, che sono diventati i miei primi souls finiti, ER a parte.
Mi ha sicuramente fatto apprezzare un genere che fino a quel momento mi affascinava ma non mi convinceva sul prenderlo seriamente con l’impegno necessario.
In sostanza uno dei miei top 5 giochi di sempre per tanti motivi.
Consiglio vivamente Returnal dopo un periodo di disintossicazione. Saranno madonne anche li.
Più che un articolo questo sembra uno sfogo da burnout videoludico. 🤣🍿