Durante un recente periodo di efficienza videoludica, ho portato a termine il chilometrico recupero della saga di Yakuza, dall’episodio Zero fino a Yakuza 6: The Song of Life. Voglio rassicurarvi, però, che ciò è avvenuto nell’arco di oltre un paio d’anni. L’incipit di una tale impresa titanica nacque dal consiglio di un collega di redazione. La voglia di portare avanti l’ercoliana fatica venne invece dalla travolgente esperienza di giocare la storia delle origini di tale Kazuma Kiryu. Un mafioso giapponese dal cuore d’oro che, nel capitolo Zero sopra tutti gli altri, si dimostra degno di concentrare su di sé una trama avvincente ma poggiata su una tela di gameplay pericolosamente ripetitivo.
Nell’epoca in cui molti studi di sviluppo, grandi e piccoli, indie e non, si scervellano su come creare un’ossatura di gioco che non sia meramente l’alternanza tra cut-scene e gameplay, la serie di Yakuza se ne infischia altamente e propone esattamente quanto citato poc’anzi. Immutatamente per sette capitoli, quasi tutti nei dintorni delle venti ore di gioco (fatta eccezione per lo Zero, vicino alle trenta ore), si naviga la mappa di Kamurocho (quartiere fittizio di Tokyo modellato sul reale Kabukicho, distretto a luci rosse della capitale giapponese), menando a destra e a manca, in attesa del goffo inizio di una cutscene (siamo nell’epoca di The Last of Us Parte 2, gli standard di transizione tra filmato e giocato sono cambiati).
Dal punto di vista meccanico, Yakuza non ha una vera caratteristica distintiva
Se non fosse per il carisma del suo protagonista, la serie Yakuza semplicemente non potrebbe godere della sua popolarità. Inspirata ad un’opera seminale come Shenmue, l’epopea di Kiryu non adotta fino in fondo il game design dirompente (seppur datato) di Yu Suzuki. Infatti, si potrebbe dire che dal punto di vista prettamente meccanico, Yakuza non ha una vera caratteristica distintiva, se non gli stili di combattimento (che però hanno guadagnato in variabilita’ solo nello Zero). Trattasi di beat ‘em up ambientato in una mappa medio-piccola, in cui il tempo viene scandito da scontri casuali, missioni di varia priorità da compiere e mini-giochi. Il pezzo forte della produzione Ryu Ga Gotoku è la narrazione. Una storia ricca e ben scritta in cui, capitolo dopo capitolo, vengono iniettati nuovi personaggi e nuovi accadimenti, sempre sfaccettati ed interessanti, che tengono incollato allo schermo il giocatore.
Yakuza, come Metal Gear, amalgama assurdo e solennità nella narrazione
Il tono finto serioso non ha paura di fare escursioni nel campo del ridicolo e lo fa secondo un gusto ironico tipicamente giapponese che ricorda alcuni passaggi della Metal Gear Saga. E proprio come Solid Snake, Kazuma Kiryu non ride mai, eppure è un personaggio molto divertente. Guarda il mondo con occhi seri e non si scompone mai, ma si ha sempre il sospetto che sia perfettamente conscio delle stranezze che lo circondano. E’ un eroe indubbiamente buono, eppure non è una figura bidimensionale (specialmente nel già citato capitolo Zero che esplora le sue origini). Un po’ Samurai che vive secondo il suo Codice, un po’ Montalbano che si erge a baluardo di moralità, Kiryu pone il giocatore nella posizione di osservatore privilegiato del magico mondo di Kamurocho.
Un po’ Samurai che vive secondo il suo Codice, un po’ Montalbano che si erge a baluardo di moralità
Uno spaccato di realtà giapponese fedelmente riprodotta che, pur nei suoi eccessi ludici, non perde mai l’aurea di autenticità conferitagli dal team di sviluppo. La serie Yakuza è un prodotto profondamente giapponese e la sua opera di conquista del pubblico occidentale è stata intrapresa senza compromessi sul suo DNA. Per chi fosse anche solo minimamente curioso del Sol Levante, questi giochi potrebbero essere interpretati come documentari interattivi: ristoranti, negozi, supermercati ed intere strade sono modellati sulla realtà con precisione maniacale. Le storie che vengono raccontate sono scritti da autori che riflettono con lucidità ed autoironia sulla loro stessa cultura.
Kiryu è un orfano delle cui origini si sa solamente della crescita nell’orfanotrofio Sunflower e del rapporto paterno instaurato con il Capitan Kazama, che lo ha allevato come un figlio per motivi che il gioco svela solamente ad un certo punto. Il prologo dello Zero narra delle fasi iniziali della scalata al Tojo clan, organizzazione criminale che contende per il controllo di Kamurocho. Il Tojo si organizza in famiglie, ciascuna provvista di un Patriarca, che le da il nome, e di un capitano, che dirige le operazioni per le strade. Kiryu inizia nei ranghi bassi della famiglia Kazama, assieme al suo fratello per giuramento (sworn brother) Nishkiyama. La storia dell’ascesa da ragazzino sbarbatello a Dragone di Dojima è entusiasmante.
Spiccano comprimari d’eccezione, caricaturali al punto giusto, che movimentano Kamurocho creando una miriade di luoghi memorabili a cui sono legati episodi significativi.
Il Dragone di Dojima trova la sua controparte nel Mad Dog di Shimano
Ad esempio, il bar Serena fa da sfondo a molte scene d’intermezzo nel corso dei sette capitoli; qui Kiryu porta gli alleati di turno per escogitare un piano d’azione. Molti di questi sono legati solamente ad alcuni episodi della serie. Infatti non credo ci sia un solo personaggio che abbia la medesima longevità scenica del protagonista (ad occhio il detective Date-san mi sembra il comprimario presente in più giochi). Tuttavia, sebbene Kiryu non abbia un vero e proprio alleato eterno o avversario acerrimo, la sua controparte viene incarnata da Goro Majima, il mad dog di Shimano. Un pazzo furioso in pantaloni di pelle, che non si configura mai come buono o cattivo, quanto come una wild card che spariglia le carte in tavola, quando la storia lo richiede. L’episodio Zero fa un lavoro veramente sublime nell’esplorare le origini di Goro, infondendolo di genuina umanità senza nulla togliere alla sua follia esagerata. Avendo cominciato il recupero di Yakuza proprio dallo Zero, sono rimasta molto affezionata alla storia di Majima, che, pur non prendendo mai il sopravvento su quella di Kiryu, arricchisce immensamente la tela narrativa della saga.
Dopo aver speso così tante ore in quel di Kamurocho, resta la curiosità immensa di visitare il Giappone. Il pregio principale di cui, secondo me, si fregia la serie Yakuza è infatti l’autenticità. Al netto delle esagerazioni e delle scazzottate infinite, non ho faticato ad accordare alla storia di Kiryu la credibilità che chiede. Avendo giocato i giochi in lingua originale, un elemento che ha favorito la mia immersione è la voce di Kiryu medesimo. Il doppiatore giapponese Takaya Kuroda presta un vocione profondo al nostro mafioso-giapponese-dal-cuore-d’oro-preferito, mantenendo al contempo una sottile ironia che fa capolino di tanto in tanto in mezzo a molta solennità. Come Metal Gear non sarebbe lo stesso senza David Hayter (ed infatti Phantom Pain diverso lo è, visto che la voce era quella di Kiefer Sutherland), Yakuza non sarebbe lo stesso senza Kuroda. Non posso porre le due serie sullo stesso piano, ma di entrambe ho apprezzato la vena creativa senza compromessi. Non tutti ce l’hanno.