La mia prima volta con Xbox One, purtroppo, non può certo essere definita come un’esperienza memorabile e che serberò con amore per gli anni avvenire.
Mi dispiace per tutti coloro che hanno aperto questo articolo nella speranza di trovare una storia strappalacrime e dai toni nostalgici, ma il rapporto tra chi vi sta scrivendo e l’attuale console domestica targata Microsoft non è stato dei più semplici.
Ma partiamo dall’inizio.
Quando si parla di nuove console, posso definirmi un maniaco compulsivo dell’acquisto. Dagli anni Novanta, infatti, ho acquistato qualsiasi console presente sul mercato al Day One, per replicare quella magia provata per la prima volta al lancio di PlayStation, nel 1995. Una magia che, con alti e bassi, ho sempre trovato a ogni generazione videoludica, permettendomi di mantenere costantemente viva la mia passione per questo splendido settore.
In attesa di mettere le mani sulla Player Edition di PlayStation 4, il 22 novembre 2013 mi sono recato presso il mio Gamestop di fiducia, per scoprire di mio pugno se le pessime voci che circolavano sulla line up di lancio di Microsoft corrispondessero a verità. Sborsati i miei soldi, fiero, me ne tornai a casa con il sorriso stampato sulle labbra e con la mia prima Xbox One sotto il braccio.
Momento flashback nel flashback: nei mesi precedenti al lancio dell’attuale generazione di console, la comunicazione di MS nei confronti della propria macchina in arrivo era stata semplicemente imbarazzante. Funzionalità anticipate al reveal di Xbox One erano state modificate, i titoli di lancio poco sponsorizzati e, in generale, si viveva la sensazione di star per mettere le mani sulla copia sbiadita di quella che sarebbe stata PlayStation 4. Sony, dal canto suo, stava cominciando a ingranare proprio sulla comunicazione, trainando una vasta fetta di pubblico verso la propria piattaforma.
Entrato a casa, procedo al mio personale e intimo unboxing e mi preparo al magico momento nel quale la nuova console prende vita per la prima volta davanti ai miei occhi. Un momento che, però, sembra durare nettamente più del necessario. Il download dell’aggiornamento, infatti, non va a buon fine, costringendomi a ripartire dall’inizio e facendomi perdere un’ora abbondante. La stessa cosa accade una seconda e una terza volta, lasciandomi in una sorta di limbo per tutto il pomeriggio.
Grazie a qualche misteriosa divinità dei videogiochi, al quarto tentativo tutto sembra andare per il verso giusto. È giunta l’ora, quindi, di testare i tre titoli acquistati al lancio: Ryse: Son of Rome, Dead Rising 3 e Killer Instinct.
Decido di partire con Dead Rising 3, spavaldo per aver già una certa dimestichezza con la serie. Resisto, esagerando, per poco più di un’ora. Il titolo è macchinoso, graficamente poco appagante e narrativamente saporito come le crocchette del gatto. Quelle in sconto, che le altre costavano troppo.
Passo a Killer Instinct, forte della nostalgia per il capitolo giocato sino allo sfinimento su SNES. Una volta avviato il gioco, scopro felicemente di non trovarmi di fronte a un secondo acquisto del tutto sbagliato, ma, allo stesso tempo, non posso nemmeno ritenermi particolarmente soddisfatto. Il titolo è estremamente tecnico, forse troppo per i miei gusti “casual” nei confronti dei picchiaduro. Mi intrattengo, faccio qualche partita giusto per provare tutti i personaggi e, verso la fine della serata, mi impongo di passare al terzo e ultimo gioco di quella tiepida giornata da videogiocatore.
Non ve lo nasconderò: Ryse: Son of Rome, nonostante tutti i suoi difetti, mi ha divertito e intrattenuto per tutta la sua (breve) durata. Un gioco che, anche nei giorni successivi al Day One della nuova Xbox, ho affrontato volentieri in più sessioni. In poche parole, il titolo migliore della mia tripletta di lancio per la console Microsoft.
Ricordo ancora oggi, comunque, la sensazione d’insoddisfazione generale quando andai a letto. Un’installazione problematica, mescolata a un parco titoli non solo poco vasto (come in tutti i Day One), ma anche per lo più mediocre. Un effetto, per certi versi, opposto a quello che avrei provato poche settimane dopo su PlayStation 4, che al termine del giorno riuscì a farmi chiudere gli occhi con un briciolo di quella magia tanto ricercata nel cuore.
Una buona storia, però, ha sempre un colpo di scena sul finale.
Facciamo un salto di sette anni nel futuro, sino ai giorni nostri. Al momento sono un felice possessore di PlayStation 4 Pro e di Xbox One X, ma non nego che, nell’ultimo anno e mezzo, ritengo che Microsoft stia seriamente scrivendo il futuro modo con il quale concepire i videogames. L’arrivo sul mercato del mai abbastanza elogiato Xbox Game Pass, infatti, ha cambiato sostanzialmente il mio approccio al gioco grazie a un servizio inattaccabile da qualsiasi punto di vista. Dall’altro lato, per essere onesti, PlayStation 4 vanta ancora le migliori esclusive sul mercato, ma sembra essere ancorata a un vecchio concetto di gaming, che potrebbe non avere vita lunga.
Insomma: ipotizzando di poter tornare indietro nel tempo e di poter acquistare solamente una tra le due console, credo non avrei dubbi nel scegliere l’inizialmente snobbata Xbox One.
Nella mia testa, quindi, ha cominciato a farsi spazio una gigantesca metafora che lega le console Sony a Microsoft a due stereotipi di donna che troviamo nel mondo del cinema.
PlayStation 4 è la Thandie Newton di “Rock ‘n ‘Rolla”, la Sharon Stone in “Basic Instinct”, la Eva Green di “Casino Royale”. Una bellezza irresistibile e un carattere determinato, ma che si rende conto di poter fare qualsiasi cosa, perché a lei può essere perdonato tutto.
Xbox One, invece, è la classica ragazza carina, ma mascherata per farla sembrare più bruttina solo per svelarla in tutta la sua bellezza a fine film. Xbox One è la Drew Barrymore in “Mai Stata Baciata”, la Audrey Hepburn in “My Fair Lady” e la Chyler Leigh in “Non è un’altra stupida commedia americana”.
Ecco perché, con l’ottica di voler mantenere una relazione stabile con la mia console domestica, propenderei per la macchina targata Microsoft. Dopotutto, il tempo mi ha insegnato che di lei posso fidarmi, nonostante quella che non può certo essere ricordata come una prima volta memorabile.