Negli ultimi anni le pretese riguardo l’’intelligenza” di un videogioco sono cresciute a dismisura. Si pensi a Red Dead Redemption 2, appena approdato sul mercato: le lodi più sperticate per l’opera Rockstar sono state spese per celebrare il realismo impiantato nel mondo di gioco. Tutti gli elementi presenti a schermo, siano essi oggetti, animali o persone, reagiscono alle azioni compiute dal giocatore in maniera verosimile, a volte complessa, sempre credibile.
Questa “intelligenza” che governa il mondo fittizio è ciò che risucchia il giocatore all’interno di una esperienza immersiva, creando una forma di intrattenimento che ambisce ad essere totalizzante per tutto il tempo che si sceglie di dedicargli.
La creazione di sofisticate Intelligenze Artificiali nei videogiochi è una naturale conseguenza del miglioramento costante delle tecnologie hardware a disposizione. Creare pattern di comportamento evoluti è infatti una sfida tecnica prima che concettuale: i costi in termini di memoria, in particolare, sono ingenti. Vediamo dunque di approfondire alcuni brillanti (e meno brillanti) casi di utilizzo di intelligenza artificiale a fini videoludici.
L’intelligenza artificiale può manifestarsi nelle maniere più disparate, a seconda del tipo di gioco. Red Dead Redemption 2 è l’ultimo esponente, in ordine cronologico, dei cosiddetti open-world: veri e propri mondi aperti in cui il ritmo della storia è interamente nelle mani del giocatore, che può scegliere se eseguire i compiti a lui affidati oppure vagare senza meta. L’intelligenza artificialeA può contribuire a rendere particolarmente appagante la seconda opzione: i grandi orizzonti da esplorare, infatti, sono perennemente a rischio di risultare stantii e poco vitali, ragion per cui i molti team di sviluppo che si sono confrontati con l’ardua sfida di creare un open-world hanno fornito la loro ricetta.
Rockstar sembra aver alzato l’asticella del realismo tuttavia si potrebbe argomentare che un punto di rottura col passato sia stato segnato lo scorso anno con l’uscita di Zelda: Breath of The Wild. L’opera magna di Nintendo ha presentato un mondo scevro di istruzioni da seguire e missione da compiere eppure, cosi facendo, lo ha reso più colmo di avventura che mai grazie all’implementazione di una fisica di gioco complessa e flessibile. Una fisica molto intelligente, si direbbe. L’interazione con gli oggetti, ad esempio alberi o massi, è pressoché totale: padroneggiando la manciata di leggi “fisiche” imposte dagli sviluppatori, il giocatore può eseguire azioni complesse ed ottenere in cambio reazioni altrettanto complesse da parte del mondo di gioco.
Gli stessi NPC (Non Playable Character) sono programmati per avere una routine quotidiana (come sarà, pare, anche in Cyberpunk 2077) e per essere intraprendenti, ossia per interagire con Link il più possibile. In molti hanno citato come esempio di ciò il caso del ponte: se Link si affaccia dalla balaustra, un passante si ferma e lo ingaggia in una conversazione, pensando così di dissuaderlo da un imminente suicidio. Altri open-world fanno meno affidamento sull’intelligenza artificiale nel creare mondi esplorabili, preferendo che l’immersione scaturisca, più classicamente, dalla narrazione. È il caso del recentissimo Spiderman di Insomniac: gli NPC sono un puro riempitivo, quasi del tutto indifferenti al nostro passaggio. Sebbene il divertimento di questo gioco sia promosso da altri aspetti, primo fra tutti la navigazione della mappa, l’impressione è quella di un prodotto che tenta di vincere la battaglia armato di cappa e spada, in un’epoca in cui la polvere da sparo è già stata introdotta.
In giochi d’azione l’intelligenza artificiale ricopre un ruolo ben diverso rispetto agli open-world: è opportuno distinguere fra IA nemica ed amica. Nel primo caso un esempio particolarmente rilevante è rappresentato dai Souls e Souls-like, i quali hanno introdotto una ricchissima libreria di avversari, ciascuno avente i propri pattern di comportamento, individuali e collettivi. La fusione di questa cura per la caratterizzazione degli avversari e del fenomenale level design a mondo non aperto ma interconnesso ha generato dei prodotti dal livello di sfida molto alto che tengono letteralmente incollato il giocatore allo schermo.
Nei giochi che mischiano l’azione all’avventura, il combattimento deve affiancarsi alle fasi di esplorazione ed il comportamento dell’intelligenza nemica, pur non potendo ambire alla varietà tipica di un gioco action, deve contribuire a veicolare la particolare atmosfera che permea il gioco. In tal caso, una nota di eccellenza dovrebbe essere riconosciuta a The Last of Us: il capolavoro assoluto di Naugthy Dog vanta una delle migliori intelligenze artificiali nemiche mai viste.
Clicker e runner, le due tipologie di nemici più frequenti, agiscono in maniera completamente differente tra loro, costringendoci ad organizzare di volta in volta la nostra tattica in base a cosa abbiamo di fronte. I primi, letali in un sol colpo ma ciechi, ci obbligano a muoverci in silenzio ed essere sempre attrezzati con armi da fuoco o coltelli, i secondi, vedenti ma praticamente sordi, ci costringono ad utilizzare il sistema delle coperture. Questa natura sostanzialmente binaria degli scontri con gli infetti rende i combattimenti sempre interessanti e carichi di suspense.
Tuttavia, talmente è complessa la programmazione dell’intelligenza artificiale, che nemmeno The Last of Us è del tutto esente da criticità, le quali si concentrano sull’intelligenza artificiale amica. Durante il suo viaggio, Joel è infatti accompagnato da Ellie: questa ragazzina ha la facoltà di dialogare con noi e, soprattutto, di aiutarci negli scontri, cosa peraltro utile ai fini narrativi come dicevamo qui. La presenza di un alleato rende però particolarmente delicate le fasi stealth dell’avventura: ben presto nel gioco si scopre che, quando i nemici avvistano Ellie, non viene dato l’allarme. Per un gioco che insegue il realismo nudo e crudo, questa è rappresenta un (seppur marginale) difetto.
Del resto, negli stealth o più in generale nei giochi che propongono una componente stealth all’interno del loro gameplay (ad oggi, sono moltissimi), l’intelligenza artificiale è fondamentale. Senza comportamenti credibili da parte dei nemici viene a mancare la credibilità del prodotto, nonché’ la sua principale fonte di divertimento, ovvero utilizzare tutte le meccaniche concesse dai creatori per nascondersi. Maggiore è l’attenzione e la reattività delle guardie, maggiore deve essere la sofisticatezza di noi ladri: da qui nasce gran parte del divertimento. L’esempio supremo di stealth iper-raffinato non può che essere la Metal Gear Saga in cui, a partire da Sons of Liberty (Playstation 2, 2001), sono state introdotte delle migliorie mai viste prima sul fronte dell’intelligenza artificiale, quali le ombre, gli odori, la mimetizzazione e cosi via.
Un sotto-genere che ingloba una fortissima componente stealth dentro un gameplay ad alto tasso di interattività è rappresentato dagli immersive sim: nel 2016 il buonissimo Deus Ex: Mankind Divided riesce a dar vita ad una città di Praga particolarmente coinvolgente, dove il comportamento degli NPC è sul filo del rasoio fra il neutro e l’ostile. Ne consegue una tensione di gioco tenuta alta dall’imprevedibilità delle loro reazioni alle nostre gesta. I giochi Arkane vanno egualmente segnalati come esponente di questo genere relativamente di nicchia: con risultati veramente ottimi in Prey e leggermente meno riusciti in Dishonored (opinione prettamente personale, anche se tuttavia si tratta di esperienze differenti), lo studio fondato a Lione ha creato universi coinvolgenti, dal level design complesso e dalla fisica raffinata (si pensi alla glue-gun in Prey).
Si potrebbero fare numerosi esempi in cui l’intelligenza artificiale rovina l’esperienza stealth. Limitando l’orizzonte alle uscite recenti (ed escludendo lo stealth di MaryJane Watson!) si può citare la trilogia di |Tomb Raider a cura di Crystal Dynamics e Eidos Montreal (incidentalmente, quelli di Deus Ex): le goffissime fasi di infiltrazione, che coinvolgono nemici statici e dal set predefinito di mosse limitatissimo, fungono da punizione espiatoria da sopportare in attesa delle fasi di esplorazione pura in solitaria.
Avendo dunque a disposizione esempi positivi e negativi di intelligenza artificiale videoludica, viene naturale chiedersi, al di la dei già citati limiti hardware, il perché non sia possibile applicare pedissequamente ai giochi le conoscenze acquisite in questo campo in generale.
I videogiochi fanno un uso peculiare dell’intelligenza artificiale. In ambito scientifico lo scopo è creare intelligenze capaci di processare delle informazioni provenienti dall’ambiente circostante e, su questa base, eseguire un’opportuna catena di azioni in modo tale da massimizzare le probabilità di raggiungimento di un obiettivo prefissato. Nei giochi, tuttavia, l’intelligenza è semplicemente un fattore concomitante alla creazione di un’esperienza di gioco più piacevole e soddisfacente possibile. Infatti, laddove lo sviluppo di intelligenze estremamente sofisticate dovesse scontrarsi con esigenze di giocabilità e fruibilità, sarebbe legittimo attendersi una drastica semplificazione dei pattern di comportamento implementati, oppure l’inserimento di tecniche di cheating. Quest’ultime tracciano un solco quasi ideologico fra l’intelligenza artificiale propriamente detta e ciò che viene utilizzato in ambito videoludico, perché viene introdotta la facoltà di “imbrogliare” all’interno del codice. Facciamo un esempio: supponiamo di essere in fase stealth e di avere un gruppo di guardie alle calcagna. Ai fini ludici, potrebbe essere benefico far trapelare la posizione del giocatore invece che mantenere una situazione statica per lunghi periodi. Gli sviluppatori conferiscono dunque ai nemicie la facoltà di interrogare il motore grafico del gioco ed ottenere cosi le nostre coordinate. Da un punto di vista prettamente scientifico, questa concessione invalida la solidità concettuale dell’intelligenza artificiale ma, in fin dei conti, stiamo pur sempre parlando di videogiochi. Mica di esercizi scientifici fini a loro stessi.