Tra gli amanti dei videogiochi le distopie sono sicuramente molto apprezzate, poiché sono in grado di veicolare messaggi e stimolare riflessioni riguardanti questioni etiche attraverso scenari e situazioni molto forti, che colpiscono nell’animo il giocatore. La maggior parte di questi titoli si collocano in un futuro non ben determinato, in cui la nostra civiltà così come la conosciamo non esiste più; le ragioni della distruzione dell’umanità sono le più svariate, ma spesso sono legate ad una cattiva gestione del progresso scientifico. Abbiamo infatti rivolte di intelligenze artificiali, pandemie derivanti da esperimenti, ingegneria genetica e disastri nucleari.
Certo, è proprio grazie al progresso tecnologico se oggi abbiamo la possibilità immergerci nella realtà virtuale videoludica; nell’ultimo secolo infatti la tecnologia si è evoluta in tempi brevissimi, spesso tramutando in realtà quella che fino a qualche decennio prima era solo fantascienza. Le scienze hanno compiuto passi inimmaginabili, portandoci sempre più a sentirci e crederci degli dei. La tecnica infatti non è altro che uno strumento con cui noi esseri umani dominiamo la natura, modificandola. In passato però i mezzi a nostra disposizione erano limitati e poco potenti perciò l’essere umano non era in grado di provocare danni a lungo termine; ora è evidente che il nostro potere è cresciuto, tanto da rischiare di mettere in pericolo l’intero ecosistema terrestre, umanità compresa. Questo tipo di riflessione ha dato vita a moltissime opere appartenenti al genere della distopia, spesso ambientati in scenari post-apocalittici; sicuramente siamo in un momento storico in cui la coscienza ecologica è diffusa e ciò si riflette nella narrativa, ma a mio parere il motivo del successo di certi titoli non sta solamente nel valore etico che portano. Per mezzo del videogioco le paure profonde dell’uomo vengono esorcizzate: il giocatore si fa attore e spettatore.
Una delle opere più apprezzate degli ultimi anni è sicuramente Horizon Zero Dawn; ci ritroviamo in un mondo molto strano, dove sembra dominare la natura, gli uomini vivono in comunità tribali ma qualcosa stride in questo contesto arretrato, incontriamo infatti delle creature meccaniche predatrici. La trama infatti non è ambientata in un passato immaginario ma in un futuro post-antropocentrico, in cui l’essere umano sembra non essere più la specie potente del pianeta, capace di decidere della sua distruzione; ed è proprio la minaccia di una distruzione che ha portato ad un’involuzione umana, ad un ritorno agli albori, con la rinuncia ad ogni forma di tecnologia, evitando così ogni tentazione di dominio incontrollato e scriteriato della natura. Qui è forte il tema dell’etica del progresso con la riflessione che a fare la differenza sia l’utilizzo e lo scopo con il quale si creano nuove tecnologie. Possiamo anche intravedere la tematica del mito dell’antichità come culla dell’innocenza, la stessa innocenza che viene attribuita ai popoli tribali che intrecciano le proprie vite con la natura, imparando a convivere con essa, senza rivolgere i prodotti della loro tecnica contro sé stessi e contro l’ambiente in cui vivono.
Nel mondo contemporaneo la sperimentazione genetica è una ramo della scienza molto discusso ed è spesso oggetto di accesi dibattiti a sfondo etico. L’eugenetica ha come scopo il miglioramento della specie umana attraverso la selezione genetica e può rivelarsi utile per esempio nel caso in cui si voglia impedire la trasmissione di agenti patogeni tra una generazione e l’altra. Il controllo del patrimonio genetico di una persona può però essere utilizzato per decidere come saranno gli esseri umani del futuro, costruendo organismi selezionati e con caratteristiche predeterminate, non lasciando più spazio alla casualità tipica della natura. Di fronte a tutto questo sorgono spontanei alcuni interrogativi: con quali criteri vengono selezionate le caratteristiche degli individui? Chi ci assicura che tali selezioni vengano effettuate per “il bene comune” e non per scopi politici/personali?
Nella saga Bioshock la riflessione sull’ingegneria genetica si fonde in una trama complessa, con chiari riferimenti alla storia del Novecento, in uno scenario distopico, nato dalla fantasia utopica di un magnate che voleva fuggire da ogni gabbia morale ed istituzionale, creando una città ideale. In questo contesto liberale, privo di limiti, si fa largo anche una di sperimentazione genetica per mezzo di una sostanza, l’ADAM, che arriva a creare una sorta di popolazione degenerata, fisicamente e mentalmente, trasformando il sogno fatto di libertà e prosperità in un incubo disperato, dove vige la legge del profitto e del più ricco; la scoperta dell’ADAM, finita nelle mani di un capitalista, ha dato il via ad un’economia dove la bio-etica è totalmente ignorata, dove lo sfruttamento minorile e di cavie umane viene ritenuto lecito, in nome della massimizzazione dei profitti.
L’ipotesi si un olocausto nucleare è sicuramente alla base di Fallout, che ci ha dato la possibilità di vivere le conseguenze della guerra nucleare, che si estendono nel lungo periodo, condizionando pesantemente la quotidianità. Effettivamente uno degli utilizzi più redditizi delle scoperte scientifiche risiede proprio nella costruzione di armi, dove la scienza si pone al completo servizio del potere e del profitto; fu proprio così che nacque la bomba atomica, da un’alleanza tra scienziati e governo degli stati Stati Uniti sotto il nome di Progetto Manhattan, per il quale lavorarono i più brillanti fisici dell’epoca. Eventi devastati come questo devono sicuramente portare a riflettere e di certo una saga come Metal Gear Solid aiuta a farlo, mettendo spesso in primo piano la problematica della corsa alle armi nucleari; il tema della deterrenza è centrale, abbiamo infatti il tentativo di impossessarsi si armi sempre più devastanti, in maniera tale da evitare eventuali attacchi nemici, ma instaurando un circolo vizioso difficile da spezzare. Nello specifico, nell’episodio Peace Walker, si inserisce l’interessante riflessione sulla pace, su quanto essa possa essere fragile e su quanto essa stessa porti ad una corsa agli armamenti, in nome di quella deterrenza che sembra tanto necessaria.
L’intelligenza artificiale ci affascina, non possiamo negarlo; la nostra mente in segreto desidera misurarsi con un’intelligenza non naturale e provare a comprendere fino a dove può arrivare. Tutto il filone della fantascienza ha lavorato moltissimo su questa tematica che interessa l’etica, la psicologia, la sociologia e moltissimi ambiti dell’umano. Riuscire a creare un’intelligenza quasi indistinguibile dalla nostra significherebbe essere stati in grado di compiere un’impresa divina poiché equivarrebbe a replicare la caratteristica peculiare degli esseri umani, che reputiamo ci distingua dal resto del regno animale. Ma cosa succederebbe se i confini tra umano e non umano diventassero così sottili, così sfumati, da non risultare più percepibili? Cosa succederebbe se anche i cosiddetti robot iniziassero a provare sentimenti, ad avere una coscienza, a provare vere emozioni? Questi interrogativi sono alla base di opere cinematografiche dal successo planetario, ma anche di videogiochi come ad esempio Detroit: Become Human, un’avventura grafica ambientata in un futuro distopico in cui gli umani sono chiamati a relazionarsi con degli androidi, immessi sul mercato per facilitare la vita delle persone; se in un primo momento ciò sembra essere un evento positivo, analizzando più a fondo la situazione è ben chiaro quanto la diffusione di robot abbia portato più problemi che benefici; sostituendo gli uomini sul lavoro si è assistito infatti ad aumento vertiginoso della disoccupazione, per non parlare di tutto il peso etico che porta un’I.A. in grado di provare emozioni come rabbia o sentimenti come l’amore. In casi come questo infatti le relazioni tra uomo e macchina si complesse, delicate e molto pericolose.
I sociologi del novecento hanno spesso parlato di controllo, uno strumento potentissimo e molto utilizzato durante il secolo scorso, quando abbiamo assistito ad una vera e propria esplosione dei tentativi di controllo delle grandi masse, in particolar modo da parte delle forze politiche. Un controllo contro cui noi, volgendo il nostro sguardo al passato, puntiamo il dito, senza forse renderci conto che spesso siamo inconsapevolmente vittime di esso, nel presente; si tratta di una manipolazione dolce, sottile, di cui possiamo fare esperienza ad esempio in Bioshock, nel nostro rapporto con Atlas. Durante il gioco portiamo a termine i nostri compiti, siamo guidati nel farlo e ciò ci sembra giusto, dal momento che un videogioco solitamente si basa sul completamento di missioni. Con nostro sconcerto però scopriamo che per tutto il tempo siamo stati solamente un burattino, abilmente manovrato a suon di “per cortesia” (in originale “whould you kindly…”), perché fin da piccoli siamo stati condizionati psicologicamente affinché potessimo eseguire qualsiasi ordine ci venisse imposto utilizzando la formula citata. Ecco quindi che i consigli si trasformano in ordini e le nostre azioni perdono ogni valore di fronte all’assenza di autonomia della volontà. Bioshock è un’opera che ci mette di fronte a grandi questioni riguardanti la nostra libertà di pensiero e di azione; il progresso ci ha portati a vivere in una società di massa, dove i nostri desideri sono in realtà spesso preconfezionati e le nostre azioni nascono dalla voglia di soddisfare bisogni che non sono realmente nostri, ma vanno ad incrementare il guadagno di qualche grande azienda. A mio parere non siamo così diversi da Jack, succube dell’influsso di Atlas, perché per la maggior parte di noi è davvero difficile scindere la nostra reale volontà da quella che ci viene imposta o meglio, suggerita, dall’esterno. Come a Rapture, oggi siamo nell’era della libertà dichiarata, ma quanto siamo davvero liberi?
I titoli citati sono solo alcuni di moltissimi videogiochi che celano riflessioni sul rapporto tra scienza/progresso ed essere umano; tutti ci portano ad osservare come l’intervento tecnico dell’uomo sveli un’insospettata vulnerabilità del mondo e della realtà, ai quali possiamo recare danni potenzialmente irreversibili.