Forte di un grandissimo successo lo scorso anno che la ha fissata nell’Olimpo delle serie più attese di questa stagione televisiva, in questa recensione di The Umbrella Academy 2 cerchiamo di capire se il ritorno della serie Netflix sia riuscito a tenersi in pista, mantenendo la stessa vivacità del debutto.
La risposta breve è che sì, la seconda stagione della serie guidata da Steve Blackman (e trasposizione dei fumetti di Gerard Way, frontman dei My Chemical Romance, e Gabriel Bà) funziona molto bene per quello che vuole essere. Ha una scrittura che scorre veloce e invoglia alla visione, qualche sequenza ambiziosa, un accompagnamento sonoro al solito azzeccato, un cast carismatico – grazie a relativi ruoli – e in generale appare come quello che ci si aspetterebbe da un prodotto di intrattenimento leggero, simpatico e senza particolari pretese.
Tuttavia, nonostante lo show punti direttamente verso un tono decisamente sopra le righe, che volutamente mira alla caricatura del superpotere e quindi (giustamente) a situazioni ai limiti di logica e sospensione di incredulità, lo script si impappina parecchio quando si tratta di viaggi temporali e risulta un po’ pedante e trascinato nei momenti più melensi/sentimentali, come in quelli più impegnati per quanto riguardo temi sociali.
Parlo complessivamente in ogni caso di una stagione molto solida e fluida, tra l’altro funzionante nel ritmo grazie pure alla presenza ben gestita di qualche colpo di scena, come necessario per un prodotto seriale di questo tipo, predisposto ovviamente al bingewatching.
Prima di continuare con questa recensione di The Umbrella Academy 2, vi ricordo che potete trovare i nuovi dieci episodi da oggi su Netflix.
The Umbrella Academy 2 si apre esattamente a partire dal finale della stagione precedente, con i vari membri della Umbrella Academy che fuggono dal 2019 per evitare l’Apocalisse causata dal potere di Vanya. Qualcosa però va storto nel viaggio, e il risultato è che ogni membro del gruppo finisce isolato in un periodo differente dei primi anni ’60 in quel di Dallas, dovendosi quindi inventare una vita da zero in una società che sicuramente non gli appartiene.
Cinque è l’ultimo ad arrivare, e si ritrova (manco a dirlo) al centro di un’altra Apocalisse, questa volta provocata da una guerra nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica in piena escalation da Guerra Fredda. Cinque fa in tempo a vedere i propri fratelli combattere nella scena d’azione migliore della stagione (accompagnata dalle note di My Way di Sinatra, costruita a mo’ di long take e con VFX di tutto rispetto), prima di essere salvato da Hazel, che ricorderete essere il sicario della Commissione (l’organo di controllo del tempo) redento al termine della scorsa tornata di episodi.
Riavviato il tempo a qualche giorno prima dell’olocausto nucleare, Cinque (Aidan Gallagher) si trova a dover affrontare una corsa contro il tempo per riunire i fratelli e per capire cosa diavolo stia succedendo, ripetendo un po’ lo stesso soggetto della precedente stagione, aggiungendo però in questo caso l’elemento del contesto storico, che si sposa con un po’ tutti i personaggi centrali.
In questa seconda stagione si aggiunge la variabile del contesto storico
Allison (Emmy Raver-Lampman) si trova come naturale al centro della lotta contro la segregazione razziale di quegli anni, e sposa uno degli affascinanti leader del movimento; Klaus (Robert Sheehan) fonda una setta facendo leva sulle sue capacità di comunicare con l’oltretomba (e con il defunto Ben); Luther (Tom Hopper) sfrutta la sua forma fisica da gorilla per fare il lottatore e diventando così il protetto di un malavitoso proprietario di un nightclub locale; Vanya (Ellen Page) viene investita, perde la memoria e finisce a vivere con una famiglia – molto problematica – in campagna, senza idea di chi sia o come sia arrivata a quel punto; Diego (David Castañeda) finisce in manicomio perché a causa del suo complesso da eroe non può fare a meno di cercare di uccidere Harvey Oswald per salvare Kennedy.
Ogni personaggio ha una sua dimensione netta, circa, almeno fino metà della stagione, dopo di cui la squadra si riunisce e il background di ognuno tende a sfumare in virtù degli eventi finali.
Mentirei se dicessi di avere digerito del tutto le sottotrame dedicate ai vari membri della Academy
Mentirei se dicessi di avere digerito del tutto le sottotrame dedicate ai vari membri della Academy, e specie per quanto riguarda Klaus si potevano forse rendere meno centrali le parentesi più melense, che aggiungono relativamente poco al personaggio come all’interpretazione di Robert Sheehan, interpretazione che riesce a brillare soprattutto quando la scrittura smette di prendersi troppo sul serio.
Lo stesso circa accade con Luther e Vanya, ma con il primo la cosa è decisamente circoscritta, a tratti simpatica e più equilibrata, complice un personaggio pensato proprio nel contrasto tra stazza e sensibilità, mentre con la seconda quegli spazi eccessivi e trascinati finiscono per regalarci un personaggio interessante, quello di Sissy (Marin Ireland). Nonostante non sia nulla di nuovo o particolare, ovvero la donna che si emancipa e evidenzia la mediocrità, le costrizioni e il fallimento di una certa classe piccolo-borghese statunitense (stile Revolutionary Road, per intenderci), quello di Sissy rimane uno degli elementi più interessanti e attuali della scrittura drammatica della serie, in realtà (per fortuna) molto limitata.
Ugualmente attuale è l’attenzione – più che sensata, visto il periodo trasposto e l’ambientazione texana – verso la questione razziale, che viene intercettata dal personaggio di Allison con una priorità ovviamente secondaria nella sceneggiatura e senza grosso piglio o grandi soluzioni, se si escludono il potere della ragazza di controllare la realtà con la voce e le ovvie conseguenze dell’abilità in tandem con l’argomento trattato.
Archiviate le soluzioni forse più macchinose dal punto di vista tematico, in questa recensione di The Umbrella Academy 2 è tempo di passare al vero nocciolo folle della serie e soprattutto del suo brillante immaginario, che infatti quando sceglie di darsi troppo un tono finisce per zoppicare, laddove invece a briglia sciolta mostra un grande ritmo, colpi di scena azzeccati e ben gestiti e personaggi carismatici.
Al centro di tutto questo, di cui direi è un po’ il simbolo, si piazza chiaramente Cinque, interpretato da Aidan Gallagher, che in un cast già perfettamente funzionante è di sicuro la stella più brillante, simpatica e vivace, insieme a Sheehan, un certo ritorno e la nuova aggiunta Ritu Arya, che qui interpreta Lila, una nuova aggiunta. Non posso davvero dire molto di Lila senza incappare in spoiler, ma posso dirvi che il personaggio in sé, il suo rapporto con Diego e persino il suo accento sono semplicemente irresistibili, parte di un tassello che finisce per muovere buona parte del racconto.
Per quanto riguarda nello specifico Cinque, lo stesso concept alla base del personaggio (un vecchio letteralmente nel corpo di un ragazzino, in un mondo su di giri e caricatura di sé stesso) è un’idea che funzionava nella prima stagione come in questa seconda. Lo showrunner Steve Blackman e relativo team di sceneggiatori devono averlo capito, visto come calcano la mano su Cinque anche in misura maggiore rispetto a quanto ricordo avessero fatto negli episodi precedenti; una scelta che ripaga a mani a basse, e di questo è testimone una incredibile sequenza con elementi gore all’inizio del settimo episodio, forse addirittura migliore di quella di apertura.
La colonna sonora si affianca alla regia e si piazza come un pilastro fondamentale dell’impatto complessivo
Nei due casi appena citati, come in generale in ogni momento memorabile della serie e della stagione, la colonna sonora si affianca alla regia e si piazza come un pilastro fondamentale dell’impatto complessivo, prendendo in prestito brani pop (o relative cover, come vedrete) in contesti incredibilmente adatti. Anche questa era una firma estremamente distinguibile del debutto dello show, e fa davvero piacere vederla riproposta con questa efficacia, con appena meno insistenza e leggermente più attenzione, rispetto a quanto ricordo della prima stagione.
Buona parte del successo dello show va comunque fatto risalire al gusto del ridicolo, che emerge qui, oltre che dagli elementi di raccordo e i meccanismi dell’immaginario, con i nuovi assassini inviati dalla Commisione per impedire ai fratelli di incasinare ulteriormente il tempo. Parlo di tre fratelli svedesi super macchietta che si lanciano coltelli a vicenda per gioco, adorano i gatti e sparano a vista, serve altro?
Gli stessi protagonisti e gli eventi che li coinvolgono sono la reificazione stessa del ridicolo; la Umbrella Academy è un gruppo disfunzionale e ingenuo, messo insieme da rapporti maldestri a partire da una infanzia problematica. Questo è però appunto parte di una equazione che è parte integrante del fascino della serie e della sua capacità di divertire e intrattenere, intrattenimento che in questo pacchetto di episodi viene rafforzato da un minutaggio limitato (finalmente da serie TV) e un uso molto intelligente di una manciata di colpi di scena.
Ora, in questa recensione di Umbrella Academy 2 voglio far notare che alcune svolte sono decisamente telefonate per chiunque abbia visto più di dieci film o romanzi nella propria vita, ma alcune sono genuinamente azzeccate, con il notevole punto a favore di una buona trasparenza con lo spettatore per quanto riguarda il twist principale. Vi troverete con ogni probabilità a smascellare in quel determinato momento (come in qualche altro, ma soprattutto in quel frangente), eppure lo show vi lascia la possibilità di scoprire da soli quella determinata informazione in una specifica scena, con un po’ di intuizione. È una chicca minore, che non cambia minimamente l’esito finale, però fa sempre piacere vedere uno sceneggiatore che gioca e sfida in maniera corretta con lo spettatore.
Questa capacità di gestire questo numero limitato di colpi di scena si accompagna anche al ritmo della serie e alla leggerezza della scrittura, attributi che ovviamente tendono al binge tipico della scuola Netflix.
Detto questo, prima di terminare questa recensione di The Umbrella Academy 2 vorrei fare un paio di appunti. Il primo, che forse è il più pesante, è relativo alla totale confusione nel gestire i viaggi nel tempo. Sono pienamente consapevole che inserire viaggi tra epoche si traduce in un potenziale mal di testa per chi scrive, ma questo è uno dei casi in cui sinceramente da spettatore la cosa più mi ha straniato; la serie si contraddice esplicitamente riguardo le proprie stesse dinamiche più e più volte per passaggi importantissimi e macroscopici. Non sto parlando di sviste, ma di veri e propri svarioni, chiaramente derivati dalla totale pigrizia (o arrendevolezza) degli sceneggiatori nell’approcciare con un minimo di logica questo elemento.
Il secondo appunto è che forse la serie meriterebbe un po’ più di budget, pur comprendendo l’ottica serial, per cui infatti non approccio minimamente il discorso qualità effetti visivi e compagnia (i valori produttivi un po’ tirati si vedono abbastanza anche nei limiti delle scenografie, per esempio). Pure dunque con tutti i discrimine del mondo, non sono riuscito a digerire la scelta di ignorare il climax dell’ultimo episodio e di saltare a piè pari per budget buona parte dello scontro del finale (che chiaramente il racconto vorrebbe impostare in un certo modo) con un trucchetto risolutivo, perché risulta un pugno in un occhio per la sospensione dell’incredulità di chi guarda. Netflix, visto il materiale e il successo annesso, magari diamo due spicci in più alla produzione per la terza stagione (nonostante questa sia già un ottimo lavoro), no?