The Umbrella Academy – Apocalisse familiare

Analizziamo la nuova famiglia di supereroi apparsa su Netflix, andando a scoprire quanto di umano possano narrarci 7 speciali vite sgangherate.

Cinema & Serie TV di Alessandro Palladino

La figura del supereroe è ormai una pluralità di rappresentazioni che stanno davvero strette nelle virtù incarnate da figure come Superman e affini. Eroismo, giustizia, senso del dovere e l’appartenenza al “bene” sono concetti superati da anni, frutto di un idillio utopico che poco si raffronta alla realtà cruda dell’istinto umano. Certo, è bello immaginarsi questi superuomini marchiati dalle più alte virtù della nostra specie, ma se dovessimo inserirli nel marciume sociale che ci circonda difficilmente rimarrebbero puri e senza macchia.

A seguito di tali riflessioni e idee creative, abbiamo assistito all’alba di supereroi quasi “noir” se vogliamo: figure piene di lati oscuri e difetti tanto quanto lo è ognuno di noi comuni mortali. Anzi, forse proprio i loro poteri e il modo in cui vengono visti dalla società sono i fattori che più conducono alla perdizione, alla naturale decadenza causata dalle grandi responsabilità e dal continuo contatto con i veri mostri che affollano i vicoli bui. Da tali riflessioni nascono quindi opere come Watchmen e The Boys, le quali fanno della loro crudezza e realismo un vanto, criticando soprattutto il contesto socio-politico moderno o passato e lasciando perdere la gloria delle grandi imprese tanto eroiche quanto stucchevoli.

All’interno di tale panorama dalle tinte scure vediamo emergere un’altra opera nel quadro delle serie televisive: The Umbrella Academy, lo show prodotto da Netflix con l’ideazione di Steve Blackman e basato molto fedelmente sull’omonimo fumetto di Gerard Way. Dopo averne spulciato a dovere la prima stagione, è evidente come non ci si trovi davanti allo scenario proposto dalle cancellate serie Marvel o alle corde teen di quelle DC, nonostante un loro esperimento più maturo con Titans. Quello che The Umbrella Academy porta in tavola è una forte storia psicologica e di formazione, condita da sufficienti elementi fantascientifici e soprannaturali. Non sono i “poteri” a essere al centro dell’attenzione, non è una figura semi divina come il Dr Manhattan a farci riflettere sui temi più importanti, ma è il fragile quanto affascinante rapporto tra i sette eroi Hargraves a comunicarci quanto sia difficile vivere la propria vita con la maledizione di essere speciali.

Del resto, nessuno di essi ha chiesto di esserlo e la premessa narrativa è piuttosto chiara nel descrivere la predestinazione forzata del gruppo. Il primo ottobre del 1989, quarantatre donne rimasero improvvisamente incinte e partorirono nello stesso arco di tempo, dando alla luce altrettanti bambini. Sette di questi furono letteralmente comprati dal miliardario Sir Reginald Hargraves al fine di addestrarli come una squadra di supereroi. È evidente fin dalle prime scene come Hargraves non si interessi di essere un padre, tanto da delegare i compiti più familiari ai suoi due eccentrici assistenti, piuttosto è quasi un militare votato al fornire al mondo una squadra di supereroi efficiente e finanziariamente proficua. Non dà neanche i nomi ai suoi pargoletti e alla fine dovranno darselo da soli più o meno tutti, cercando di lasciarsi da parte l’identità numerica così degradante per qualsiasi essere umano. Cresciuti nella spietatezza, nella bizzarria e nella stretta disciplina, i sette piccoli Hargraves cercano di preservare la propria innocenza nei momenti di pausa tra una simulazione di combattimento e l’altra, senza un vero e proprio affetto o una guida interessata alla loro vita al di fuori delle mansioni da supereroe. L’unica eccezione è la numero sette, Vanya, la quale viene isolata come “senza poteri” dallo stesso Reginald e lasciata a marcire dentro casa.

Divenuti adulti, per un motivo o per un altro, finiscono tutti per separarsi da quella famiglia disastrata cercando finalmente di vivere il mondo fuori dalle mura suntuose della villa. Ciò porta alla costruzione dell’identità vera e propria che scorgeremo nella serie, ma solo dopo la morte dell’eccentrico miliardario e la conseguente riunione forzata dei Ragazzi Meraviglia. La rimpatriata familiare dopo anni di indipendenza ci permette di apprezzare i grandi sforzi fatti nella selezione del cast per la serie. Primo tra tutti è Robert Sheehaan nei panni di Klaus, il quale è un folle carismatico drogato che si riempie di pasticche per sopprimere il suo potere di vedere i morti. L’attore non è al suo primo rodeo in un ruolo del genere in un gruppo di eroi disfunzionali, infatti una delle sue più grandi interpretazioni è proprio quella di Nathan, il ragazzo immortale nella famosissima Misftis. Insieme al giovane Numero 5, interpretato da Aidan Gallagher, rappresentano i due personaggi migliori della serie proprio per la grandissima caratterizzazione e per l’impressionante interpretazione del ruolo, il primo per maestria e l’altro per puro talento. Specialmente se si considera la rocambolesca evoluzione di entrambi e gli eventi che finiscono per legarne le personalità ai poli opposti: uno è un insano bastardo dal linguaggio confuso, l’altro è un sopravvissuto cinquantenne in un corpo da bambino.

Sebbene sia indubbio che i due abbiano puntati i riflettori addosso per tutta la durata della serie e fin dalle sue prime battute, anche gli altri Umbrella sono altrettanto interessanti e ben fatti. Uno di essi è la sofferente Allison o Numero 3, una star del cinema affermata che ha utilizzato il potere della sua voce lava-cervelli per ottenere tutto ciò che voleva e mettere a tacere la propria bambina troppo lamentosa. Gesto che le è costato il matrimonio e l’affidamento, tanto da farle rinnegare la sua natura da eroina e farla riflettere sulla falsità della vita che si è costruita con l’inganno. Al suo fianco, nella sottotrama che la coinvolge, c’è l’innocente e fedele Luther o Numero Uno, l’unico vero e proprio eroe idealistico dello stampo classico. Il ragazzone tutto muscoli e peluria non solo si è fatto spedire sulla luna per proteggerla da chissà quale minaccia inventata da Hargraves, ma ha anche scommesso più e più volte la sua stessa vita pur di mandare avanti il sogno del suo paparino. Naturalmente aveva una cotta per Allison e la passione non è mai stata sedata, specialmente se si passano quattro anni da solo sulla superficie lunare. Mentre lei cercava la popolarità e più gente possibile al proprio fianco, lui voleva solo rimanere solo e isolarsi da tutti per paura di non essere accettato per quel che era veramente; due perfetti ingredienti per raccontarci una storia d’amore tanto intensa quanto importante per il tema della costruzione identitaria nella società odierna.

Il più frizzante del gruppo, Diego o Numero 2, ha un po’ lasciato l’ideale da supereroe per dedicarsi all’attività di vigilante in tandem con la collaborazione di alcuni detective della polizia. Forse è il personaggio più debole della serie, il quale non ha una vera e propria caratterizzazione indipendente ma finisce per fare da comprimario al resto del gruppo nonostante alcuni spunti narrativi molto interessanti. Allo stesso modo Vanya è interpretata da una Ellen Page che fatica davvero tanto a esaltarne l’evoluzione, sebbene dia bene l’idea di una persona distrutta e insoddisfatta della propria vita. Però, al contrario di Diego, ha un grandissimo impatto nella trama e lo spazio a lei dedicato si migliora qualitativamente a partire dall’episodio 5, andando a finire in un climax tanto esaltante quanto sorprendente per chi non ha mai letto l’opera originale, malgrado una storia d’amore funzionale ma non entusiasmante.

La narrazione rimane più o meno fedele a quella del primo albo del fumetto, infatti vediamo la Umbrella Academy riunita dopo anni al fine di sventare un’imminente apocalisse profetizzata dal Numero 5 proveniente dal futuro, eccetto per il Numero 6 o Ben che è morto tempo addietro ma che “vive” attraverso il potere di Klaus (e ha più spazio rispetto alla graphic novel). Vengono però inseriti elementi inediti o provenienti da momenti successivi rispetto alla trama in oggetto. Hazel e Cha Cha (Mary J. Blige), le due nemesi più concrete della prima stagione, sono un chiaro esempio di questa tecnica. Tuttavia sono elementi che non appaiono mai fuori posto e vengono perfino esaltati attraverso un ampio respiro per la loro sceneggiatura. I due assassini della Corporazione sono due nemesi eccezionali proprio perché viene chiarito fin da subito che sono dei semplici lavoratori e non c’è alcun motivo d’odio dietro il loro compito, perfino la stessa Corporazione a caccia di Numero 5 non lo odia, anzi vuole utilizzarlo come asset.

L’annullamento della lotta tra il bene e il male crea tutta una serie di dinamiche favorevoli alla caratterizzazione dei nemici e del complicato rapporto professionale tra loro e chi vuole interferire nel continuum spazio temporale. Hazel soprattutto viene fatto passare come quello più voglioso di riflettere sulla propria vita, creando un rapporto con lo spettatore che mai ci si aspetterebbe da una nemesi classica del panorama supereroistico, specialmente se si guarda agli assassini mercenari. Ma è proprio questa la forza di The Umbrella Academy: riuscire ad andare fuori dagli schemi con una subdola eleganza, senza strafare e lasciando tutto il tempo necessario allo sviluppo del pensiero di ogni membro del cast e alle scene ad essi dedicate. La regia e la sceneggiatura sono infatti i pilastri qualitativi della serie, soprattutto quando riesce a coniugare ottime inquadrature d’azione con una colonna sonora tanto d’eccezione quanto variegata nei temi. Una menzione speciale va al doppiaggio italiano, riuscito eccellentemente nella caratterizzazione delle tonalità anche grazie alla presenza di voci esperte del panorama, come Maurizio Merluzzo e Lorenzo Crisci.

Allo stesso modo, non si avrebbe una tale fattura d’autore senza un occhio di riguardo alle scelte cromatiche e d’ambientazione, con tanto utilizzo del neon in contrasto alla stantia villa Hargraves dal sapore steampunk. Non manca però l’aria retrò della Corporazione e del Negozio di Ciambelle, la decadenza del mondo post apocalittico e la follia dei rave party, una pluralità di tematiche, luoghi e linee temporali creata appositamente per combaciarsi a quella dei sette eroi protagonisti. Ed è questo, in sintesi, il vero potere dello show: la capacità di creare spaccati diversi basati più sulle difficoltà della vita che sull’eroismo o sulla lotta contro una grande minaccia (e il finale aperto è un chiaro esempio della volontà di non focalizzarsi sulla risoluzione dell’apocalisse).

I veri eroi non sono i fanciulli Hargraves nei loro alias da vigilanti, bensì è evidente l’intento di presentarli nella loro vita umana e negli sforzi che devono compiere per poter vivere normalmente sebbene un rapporto complicato con l’ideologia dei poteri inculcata da Reginald. Per quanto appaiano cresciuti, The Umbrella Academy racconta la crescita vera e propria della banda disfunzionale e incarna questo ideale nella figura chiave in Numero 5: un adulto intrappolato nel corpo di un ragazzino troppo arrogante per ammettere di essere un umano aldilà dei suoi immensi poteri. Ma, in fondo, tutti sono stati fermati nel tempo e chiusi nel loro guscio cresciuto, ingabbiati nell’influenza della loro infanzia malsana e messi di fronte alla libertà vera e propria solo dopo la morte della loro unica vera figura genitoriale. Riusciranno a rompere le proprie catene nella prossima stagione?

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