Project Zero: il ritorno di un viaggio durato (quasi) vent’anni

Sul palco dell'E3 è stato annunciato il ritorno di uno dei brand a me più cari di sempre e oggi vi spiego perché

Anteprima di Salvatore Cardone

L’ultimo giorno di E3, in qualche modo, riesce sempre a regalare quella chicca che non t’aspetti. Complice anche la presenza di Nintendo sul palco, una delle software house più attese al varco di questa particolare edizione della fiera losangelina, molte persone (tra cui il sottoscritto) erano pronte a scommettere sull’arrivo di un qualche colpo a sorpresa, quel qualcosa in grado di farti saltare dalla sedia, per intenderci. E così è stato.

E no, diciamolo subito, non mi sto riferendo all’attesissimo sequel di Zelda: Breath o the Wild o a Metroid Dread. Per quanto i due titoli sopraelencati rappresentino certamente dei capisaldi dell’offerta futura e presente di Nintendo, l’annuncio che ha rubato in maniera completamente inaspettata il mio cuore è un altro e riguarda una saga decisamente meno famosa ma comunque da non sottovalutare.

Siamo verso la fine della conferenza, tutto sembra andare verso una direzione tutto sommato lineare. Poi però, di colpo, un frame riporta indietro la mente a quasi vent’anni fa, rendendo il mio E3 2021 più bello che mai. Pur senza potersi vantare del fattore esclusività, Nintendo ha riportato sotto le luci della ribalta il brand Project Zero, conosciuto anche come Fatal Frame o semplicemente “Zero”, uno dei capisaldi dell’industria horror dei primi anni 2000 e che, inspiegabilmente, è letteralmente sparito da ogni radar, senza lasciare traccia.

La compagnia di Kyoto, che già in passato ai tempi di Wii aveva dimostrato di voler in qualche modo puntare sul marchio, seppur con poche fortune, ha scommesso nuovamente sul brand in questione, riproponendo, in una veste decisamente diversa, uno dei capitoli più ingiustamente “snobbati” della saga: quel Maiden of Black Water, sfortunata esclusiva Wii U.

Siete rimasti contenti di questo annuncio? Io sì, anche ben oltre quello che si potrebbe immaginare. Del resto, il mio amore per Project Zero affonda ancora una volta le radici nel mio turbolento – ma allo stesso tempo unico – passato. Stavolta, però, è necessario spostare le lancette e il calendario un po’ più indietro, perché la mia storia d’amore con il brand in questione è iniziata poco meno di vent’anni fa, nel lontano 2003 seppur, a questo punto, mi sembrano trascorsi soltanto un paio di giorni.

Il primo Project Zero non si scorda mai!

Il natale del 2002 è rimasto, ancora oggi, uno dei più memorabili della mia vita. Avevo all’incirca quindici anni e venivo da un periodo eccessivamente lungo di digiuno da ciò che era la sfera videoludica. Vuoi per la pubertà, o per il semplice fatto che all’epoca non possedevo più una console veramente al passo coi tempi per godermi quella che era comunque una delle mie principali passioni, stavo finendo per allontanarmi in maniera decisa dal medium videoludico. Poi avvenne il miracolo. Mi ricordo ancora quella giornata: tornavo da una partita di basket, ero profondamente stanco e non vedevo l’ora che quella giornata finisse. Non ho mai avuto un bel rapporto con il weekend e le domeniche, e specialmente quelle in compagnia di tutta la famiglia sono sempre state un mio personalissimo boss finale da sconfiggere. Quel giorno, però, si respirava un’aria diversa.

Mio cognato si presentò in casa con un bustone abnorme, e guardandomi negli occhi in qualche modo mi fece capire che era qualcosa che potesse interessarmi. Poche ore dopo, di comune accordo, mi fecero osservare il contenuto della confezione e per poco non ci rimasi secco. Era lei: la primissima Xbox, di cui ancora oggi sento una terribile mancanza. Nel bundle erano presenti anche alcuni dei titoli più importanti della lineup di lancio della console, tra cui il primissimo Halo che, senza saperlo, avrebbe scritto la storia del medium da lì a poco. La velocità con la quale mi “liberai” di quei titoli, però, fu talmente repentina che da lì a poco mi ritrovai a mani fondamentalmente vuote. Con un piccolo gruzzoletto tra le mani, in compagnia di mio fratello, mio compagno di giocate all’epoca, mi recai in una delle sedi principali della mia città de La Feltrinelli, che all’epoca offriva grandi promozioni sui videogiochi.

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Essendo appassionati del genere horror, rimasti orfani di qualcosa di veramente “figo” post Silent Hill, la nostra attenzione è subito ricaduta su qualcosa che avrebbe attirato l’attenzione di chiunque fosse alla ricerca di un prodotto dalle caratteristiche sopraelencate: Project Zero. Quella copertina sembrava ispirare tantissimo e leggendo la trama del gioco sul retro della confezione eravamo entrambi convinti di aver scovato una sorta di hidden gem del mercato videoludico. All’epoca, poi, non era facile come ora, grazie all’evoluzione di internet, scoprire quanto effettivamente un prodotto potesse essere apprezzato o meno e, di conseguenza, a scatola fondamentalmente chiusa, abbiamo investito i nostri soldi e ci siamo portati a casa una copia del gioco.

A caccia di fantasmi… con una macchina fotografica

Me lo ricordo come se fosse ieri: non vedevo letteralmente l’ora di avviare la partita, e ne avevo tutte le ragioni.

Grazie ad un setting incredibilmente affascinante, che si sorregge fortemente sul folklore e sulla bellezza estetica tipica delle derivazioni di stampo nipponico, Project Zero si presentava subito col botto. Una storia spaventosa, un’ambientazione carica di fascino e un sistema di gioco tanto semplice quanto (per l’epoca) squisitamente e genuinamente particolare e per certi versi innovativo. Project Zero ha saputo stupirmi e appassionarmi per tutta la sua durata, e non tutti i giochi hanno centrato questa impresa. La fase iniziale del gioco ad esempio, quella introduttiva per intenderci, fu già sufficiente a generare in me un hype incredibile. Il giovane reporter Mafuyu Hinasaki, insieme ai suoi colleghi, parte per una spedizione nella Magione Himuro, un luogo che si narra fosse popolato da spettri vendicativi e irrequieti da diversi anni.

Inutile dirvi che tutto ciò corrisponde al vero: Mafuyu non fa più ritorno, così come gli altri membri della spedizione, costringendo così la sorella minore, Miku, la protagonista del titolo, a partire alla ricerca del fratello scomparso. Lo ammetto: il plot narrativo non sembra neanche tanto originale, e non posso negarlo, ma ha sempre avuto quel qualcosa di magico che mi ha saputo catturare senza possibilità di fuga, anche e soprattutto grazie ai numerosi intrecci narrativi e alle tantissime influenze tipiche del folklore e della letteratura di stampo nipponico. Il viaggio di Miku si muove attraverso quella che è a tutti gli effetti una classica villa infestata, per poi scoprire che, in realtà, non è tutto così semplice. Project Zero non racconta soltanto una storia di fantasmi, ma anche la crudeltà umana, l’influenza dei culti religiosi e tanti altri temi delicati, racchiusi in un prodotto che nella sua semplicità ha sempre avuto il merito di saper risultare una sorta di treno in corsa, per tutta la sua durata.

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E, a dirla tutta, nemmeno il gameplay mi è mai dispiaciuto. Quella piccola novità del non poter uccidere i nemici ma soltanto catturarli, ma soprattutto quella necessità di dover scappare da loro (come è un po’ giusto che sia in questo caso) non faceva altro che accrescere in me quella convinzione di aver trovato il mio personalissimo paradiso videoludico, e a conti fatti non avevo poi nemmeno tanto torto. La splendida e spietata Magione Himuro aveva così tanto da raccontare che era lecito fermarsi di continuo, mettere la pausa e scambiarsi due chiacchiere con mio fratello, per chiedere cose tipo “oh, hai visto quel fantasma in lontananza?”, per poi continuare, spinti proprio dal desiderio di capire cosa stesse effettivamente succedendo in quel luogo così dannatamente spaventoso ma allo stesso tempo affascinante.

Quel desiderio, in realtà, non ci abbandonò mai, fino alla fine. Ho (e abbiamo) talmente amato tutto ciò che ha rappresentato il titolo dal primo all’ultimo minuto dell’avventura che, in tutta sincerità, raggiungere i titoli di coda mi portò una sensazione di smarrimento e di angoscia difficile da spiegare. Lo spettacolare e drammatico finale mi fece tornare un po’ alla realtà, nonostante abbia saputo lasciarmi quella sensazione di aver in qualche modo partecipato a qualcosa di importante e irripetibile.

Crimson Butterfly: il miglior Project Zero?

Dopo aver amato e sviscerato il primissimo capitolo della serie, lo ammetto, avevo un po’ perso le speranze di rivedere Project Zero, per quanto il lavoro di Tecmo avesse riscontrato un discreto successo. Per fortuna, però, le cose hanno preso una piega decisamente più positiva quando, per puro caso, ho scoperto che un secondo capitolo della serie era effettivamente in sviluppo e sarebbe approdato anche sulla mia fiammante Xbox, seppur con qualche mese di ritardo rispetto alla versione PlayStation 2.

Il nuovo capitolo della serie porta il nome di Project Zero II: Crimson Batterfly, e conservando quell’aria tipica di una serie in cerca di una definitiva consacrazione, sin dalle primissime battute ha saputo restituirmi quelle stesse identiche emozioni, miste a sano e puro terrore, del suo predecessore. Il fatto poi che su Xbox il titolo potesse essere giocato anche in prima persona, chiaramente, rendeva tutto ancor più spaventoso, anche se, fidatevi, da questo punto di vista il titolo faceva già benissimo il suo lavoro anche in terza persona. Non voglio essere ipocrita, ho sempre considerato i sequel, i secondi capitoli, le seconde stagioni e via dicendo incapaci di raggiungere le vette qualitative dei primi lavori, per quanto la storia mi e ci ha insegnato che non sempre questa verità sia de considerarsi assoluta.

E, proprio in questo caso, sono stato molto contento di sbagliarmi. Project Zero 2: Crimson Batterfly è riuscito per lunghi tratti a superare suo fratello maggiore, sia a livello di dinamiche di gameplay sia a livello di narrazione e qualità di dialogo, per quanto, a livello di ambientazione, il fascino della Magione Himuro sia rimasto in qualche modo inavvicinabile. Le due protagoniste sono le gemelle Miyu e Mayu, profondamente segnate da un legame tanto forte quanto a tratti al di là della normale questione “familiare”. L’incipit narrativo, ancora una volta, non è esattamente dei più originali: dopo uno strano dialogo, le due sorelle si ritrovano lentamente avvolte da un’atmosfera sempre più surreale in cui Mayu, quella che ad occhio sembra un po’ la più debole delle due, viene attratta da una misteriosa farfalla cremisi, il cui exploit cromatico sembra quasi “stonare” in mezzo a tanta oscurità.

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Inutile dirvi che, da lì a poco, le cose prenderanno una brutta piega. Le due gemelle si ritrovano infatti in luogo di puro terrore, un misterioso villaggio finito intrappolato in loop temporale di paura, orrore e disperazione. Diversi anni prima, infatti, gli abitanti del villaggio hanno tentato in maniera sconsiderata e spietata un rituale sacrificale che, ovviamente, ha finito per rivoltarsi contro i suoi stessi protagonisti. Le forze invocate ovviamente sono sfuggite al controllo degli abitanti del villaggio che di conseguenza sono rimasti intrappolati dalle loro stesse azioni, finendo per per rivivere quel momento giorno dopo giorno, senza via di scampo. Miyu e Mayu, dunque, si ritrovano quindi costrette a lottare contro un esercito di fantasmi e spiriti vendicativi mossi unicamente dal desiderio di strappare alla vita chi ancora appartiene all’altro mondo.

Per le due giovani parte così un viaggio con una duplice missione: salvarsi e scoprire cosa si nasconde dietro agli orrori del villaggio. Le due protagoniste, però, vivranno in maniera fondamentalmente diversa questa avventura. Se la protagonista vera e propria, Miyu, ossia quella controllata dal giocatore, vive più attivamente gli eventi, il discorso cambia per quanto riguarda Mayu, costretta dalla sua fragilità a nascondersi e a scappare dalle minacce continue, cosa che la relega dunque ad un ruolo più “passivo” e indifeso. Miyu, quindi, oltre al cercare di salvarsi e di mettere fine a ciò che sta accadendo si trova di fronte anche alla necessità di dover salvare in continuazione la sorella, che sembra avere un legame particolare con gli eventi correnti. Andando avanti con la storia ed esplorando bene ogni anfratto si scopre che nulla di quanto successo, compreso l’arrivo delle due gemelle nel villaggio, sia un caso poiché è stato lo stesso villaggio in qualche modo ad attirarle in quel luogo. Il rituale di cui parlavamo poc’anzi è infatti legato profondamente alla concezione e al rapporto tipico tra gemelli e di conseguenza soltanto un simile “potere” può mettere fine definitivamente a questo orrore ormai ancestrale.

Tale missione rende dunque necessario un sacrificio importante, il che riesce a rendere la storia ancor più drammatica di quanto non lo sia già sin dai primissimi minuti. Il villaggio sembra infatti spezzato in due, tra colpevoli e persone fondamentalmente innocenti, che sono state strappate alla vita senza alcun tipo di colpa, così come le due gemelle che alla fine però sembrano in qualche modo destinate a compiere quelle azioni.

Il finale “canonico” (il gioco ne prevede diversi, così come il primo) è in linea con il filone di tutto il gioco, e riesce a rendere l’avventura ancor più memorabile, per quanto tristemente spietato e drammatico, seppur con un piccolo frame finale che fa in qualche modo tranquillizzare i più deboli di cuore come il sottoscritto.

Il piccolo “passo falso” di Project Zero 3

Sulle ali dell’entusiasmo, figlio del grande successo riscosso dal secondo capitolo della serie, stavolta non avevo molti dubbi sul ritorno di un terzo Project Zero.

E difatti avevo ragione! Project Zero III: The Tomented venne annunciato e poi distribuito nel giro di qualche anno, con la promessa di risultare il più completo e “perfezionato” capitolo del brand. Inutile ribadirlo: ero felice come non so cosa, ma nel mentre gli anni e soprattutto la vita cominciavano a scorrere in maniera troppo veloce intorno a me, facendomi rivalutare le mie priorità. Avevo altri impegni, avevo passioni che stavano in qualche modo minacciando il primato fino a quel momento inattaccabile dei videogiochi e di conseguenza, lo ammetto, ho vissuto il lancio del terzo capitolo in maniera molto più fredda. L’ho recuperato dopo il day one, e da quel che avevo letto e sentito in giro, mi sembrava in qualche modo inferiore ai suoi predecessori.

Project Zero III: The Tormented voleva in qualche modo chiudere il ciclo, facendo un po’ come ha fatto Dark Souls III, nel tentativo di chiudere un cerchio ripartendo esattamente dall’inizio. La nuova protagonista, Rei Kurosawa, giovane reporter in rampa di lancio, è una collega di Miku Hinasaki, la protagonista del primo capitolo, con la quale condividerà a breve una storia di terrore, di smarrimento, ai limiti della follia.

Il compagno di Rei è tragicamente scomparso durante un incidente automobilistico, lasciando la giovane inevitabilmente segnata dagli eventi. Poco dopo, Rei, di ritorno da un servizio in quella che si vocifera essere una casa infestata, è costretta a familiarizzare con una realtà fino a quel momento sconosciuta. In una foto, infatti, la ragazza scorge il volto del suo defunto amore, e di conseguenza si reca nella villa per trovare risposte. Dopo aver esplorato la villa, la vita di Rei è inevitabilmente destinata a cambiare. La villa, detta “Maniero del Sonno”, è un luogo di grande terrore e mistero, in cui vengono rapite, proprio nel sonno, le anime delle persone, specialmente quelle divorate dai sensi di colpa.

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Ed è proprio qui che rimangono intrappolate sia Rei sia Miku, entrambe dilaniate dai sensi di colpa per la perdita dei propri cari. Parte così un nuovo viaggio tra fantasmi, folklore e orrori di ogni sorta, in cui però si avverte una carenza di idee, che fino a quel momento non erano mai mancate. Sia chiaro, la storia è decisamente molto interessante, per quanto il “villain” principale possa essere in qualche modo ancora una volta pescato in parte dal passato (parliamo di una sacerdotessa, di una maledizione, insomma di roba già vista) e di conseguenza meno interessante rispetto ai primi due capitoli. Anche a livello di gameplay, il titolo si mostrava molto meno audace e più conservativo, per quanto questa soluzione non mi è mai apparsa veramente limitante, anzi. Project Zero III è stato a tutti gli effetti quello che doveva e voleva essere: la degna conclusione di un percorso che ha portato alla nascita e all’evoluzione di una saga che aveva e ha ancora tanto da dire, per quanto l’ispirazione tematica possa sembrare latitare in alcuni momenti della storia.

Certamente, anche l’averlo vissuto in maniera diversa per le ragioni che vi dicevo poc’anzi può aver in qualche modo alterato la mia concezione del titolo, che ha anche avuto il “merito” non esattamente suo di chiudere in qualche modo il filone principale, avviando la serie ad un percorso di, è il caso di dirlo, dissoluzione sempre più inesorabile e incomprensibile.

Il tanto atteso ritorno, direttamente dal palco dell’E3

Da lì in avanti, per la saga Project Zero, c’è stato solamente il vuoto. Gli esperimenti successivi al terzo capitolo “canonico” sono infatti passati decisamente più in sordina, risultando tutt’altro che che memorabili, per colpe anche non proprie.

Questo è sicuramente il caso, in particolare, di Project Zero: Maiden of Black Water il capitolo che è stato annunciato durante l’E3 2021 che tornerà in una nuova veste uscendo dalla sfera di Nintendo e soprattutto dai limiti della console di riferimento della release originale. Il titolo venne lanciato infatti in esclusiva Wii U, e sappiamo tutti quanto questa console abbia “penalizzato”, a causa della sua scarsa distribuizione, le sue esclusive, specialmente quelle terze parti e non nate sotto il marchio Nintendo. D’accordo, inizialmente avevo immaginato e sperato che si trattasse di un nuovo capitolo della serie, ma avendolo mancato, di fatto, per me è come se lo fosse e poco importa se si tratta di una remastered, di un remake o di un semplice porting. Maiden of Black Water ha difatti tutte le potenzialità per fare molto bene, e ne sono fermamente convinto, al di là del mio amore per la saga. Per chi non lo sapesse il gioco cerca di distanziarsi in qualche modo dai suoi predecessori, con alcune modifiche alla formula base che riguardano in particolare aspetti quali il setting e i protagonisti. Tanto per cominciare, gli sviluppatori hanno deciso di dare più spazio ad ambientazioni esterne, senza abbandonare gli edifici infestati tipici del credo della serie, ma comunque in grado di dare una ventata d’aria fresca ad un brand sì forte dei suoi dogmi ma comunque alla ricerca di un qualcosa di nuovo.

Seguendo un po’ le orme di Forbidden Siren, poi, in Maiden of Black Water torna in qualche modo la meccanica del protagonista multiplo, ognuno con la sua storia e i suoi demoni da sconfiggere e soprattutto con la sua visione delle cose, in grado di offrire una chiave di lettura sempre variegata agli eventi in questione. Questi dettagli, uniti all’ovvio restyling tecnico che verrà fatto, possono giocare un ruolo chiave nella buona riuscita del progetto che, a dirla tutta, non mi sarei mai aspettato di vedere veramente messo in pratica.

Sarò sincero: ho cercato e sto cercando ancor di più ora con tutte le mie forza di rimanere più “blind” possibile intorno alla produzione, ma sono sinceramente convinto che possa risultare fondamentale ai fini dell’avvicinare una gran fetta di pubblico ad un brand inspiegabilmente fin troppo sconosciuto. Del resto, la fame di survival horror è più forte che mai, e ne abbiamo avuto la conferma con il successo di Resident Evil Village, per quanto il titolo di Capcom abbia preso strade decisamente diverse per quanto concerne il suo personalissimo concetto del come e in che modo trasmettere paura al pubblico.

Certo, sbilanciarsi ora sarebbe veramente complesso. Io però sono una persona molto istintiva, e sono pronto a scommettere i miei “two cents” sul fatto che questo esperimento potrà fare da apripista ad un possibile ritorno più concreto della serie.

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Il mio cuore si è fermato per qualche secondo, lo ammetto. Vedere Project Zero, seppur in chiave di remastered o comunque di remake, tornare sulla ribalta mi ha sinceramente emozionato. Mi sono passati davanti quasi vent’anni di vita, in cui sembra che il ciclo degli eventi si sia preso gioco di me e delle mie scelte. Sono partito con Project Zero e sto ripartendo ora con Project Zero, seppur con qualche anno in più e soprattutto un punto di vista per forza di cose più oggettivo e competente. Quello che è rimasto invariato però è il mio sorriso, lo stesso sorriso di vent’anni fa, quando mi resi conto di aver speso bene quei miei risparmi ma anche lo stesso di martedì sera, nel momento in cui ho realizzato che si stava scrivendo una piccola pagina della mia personalissima storia, videoludica e non.

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