The Outsider: la recensione della miniserie HBO

HBO porta sul piccolo schermo una delle opere più introspettive del maestro del brivido

Cinema & Serie TV di Leonardo Alberto Moschetta

Adattare un’opera di Stephen King non è mai compito facile. Nel corso della lunghissima e prolifica carriera dello scrittore americano sono state tante le opere portate sul grande o sul piccolo schermo, non sempre con risultati esaltanti e raramente con la soddisfazione dell’autore stesso.
Da Shining, capolavoro di Stanley Kubrick del 1980, passando per l’ottimo Misery di Rob Reiner, fino al recente e fortunato IT di Andres Muschietti e al molto meno fortunato Doctor Sleep di Mike Flanagan, le storie King hanno affascinato generazioni di cineasti che hanno voluto cimentarsi con esse.

Questa volta a cimentarsi nell’impresa è HBO che, sotto la guida del produttore esecutivo Richard Price, ha deciso di adattare il romanzo del 2018 The Outsider in dieci episodi in arrivo su Sky Atlantic dal 17 febbraio.

Un posto tranquillo

Come spesso accade nelle opere di King, a fare da sfondo alle vicende narrate è l’apparentemente tranquilla provincia americana, nella fattispecie la piccola cittadina di Flint City (Oklahoma).
La quieta routine del luogo viene improvvisamente interrotta quando il cadavere del giovanissimo Frankie Peterson, un ragazzino di undici anni, viene trovato in un parco senza vita e con segni di morsi umani.
A indagare sul macabro delitto sarà Ralph Anderson (Ben Mendelsohn), detective della polizia locale indurito dal lavoro e dalla perdita di un figlio. Ben presto diverse testimonianze oculari e registrazioni video incastreranno l’allenatore della squadra di baseball locale Terry Maitland (Jason Bateman), marito e padre modello, rispettato e amato dalla piccola comunità cittadina.
Compiuto platealmente l’arresto dell’uomo, il detective Anderson si troverà a dubitare di ogni sua certezza in merito alla colpevolezza di Maitland quando alcune filmati collocheranno l’uomo, nel momento del delitto, a una convention letteraria a cento miglia di distanza dalla città.

Il sacro e il profano

Chiunque abbia letto King sa bene come egli riesca a coniugare il paranormale e il fantastico, quasi sempre presente nelle sue opere, con un contesto credibile e realistico. Leggendolo ci si scorda spesso di trovarsi al cospetto di letteratura di genere, poiché riesce a parlare universalmente degli esseri umani e delle loro paure.
The Outsider non fa eccezione e anzi pone l’introspezione psicologica dei protagonisti in primissimo piano. Nella sostanza ci troviamo al cospetto di un thriller psicologico piuttosto che di un horror puro, per lo meno nei primi sei episodi che HBO ci ha permesso di visionare.
L’elemento paranormale è presente ma in modo molto misurato, lasciando spazio soprattutto all’elemento investigativo e all’approfondimento dei personaggi.
Ben Mendelsohn fa un lavoro straordinario nel tratteggiare il cupo e scettico detective Anderson, che ci viene mostrato in tutta la sua fragilità, dilaniato dai drammi del passato e dagli errori del presente ma incapace di accettare una soluzione “non convenzionale” al caso Peterson. Jason Bateman è invece perfetto nel dare il volto invece all’innocuo Terry Maitland, uomo dalla grande umanità e dallo sguardo rassicurante.

Affianco a loro trovano spazio personaggi secondari splendidamente scritti, come da tradizione per King, e che danno la sensazione di poter essere più centrali nella vicenda di quanto non possa in un primo momento sembrare. Tra questi l’agente Alec Pelley, interpretato da un ottimo Jeremy Bobb, e la misteriosa Holly Gibney, personaggio che i lettori più assidui di King hanno già conosciuto in altre opere dello scrittore americano (Mr.Mercedes), portata sul piccolo schermo da una straordinaria Chinthya Erivo.

Celato alla vista

Da un punto di vista della messa in scena The Outsider è un prodotto eccellente che mette in campo una regia misuratissima.
Lo spettatore è raramente posto in una condizione di onniscienza rispetto agli eventi e anzi viene spesso “costretto” ad assumere un punto di vista parziale. Una scelta di grande intelligenza che porta ad empatizzare enormemente con i personaggi ed accresce il senso di insicurezza e inquietudine.
Nella medesima direzione lavora la fotografia con l’utilizzo di una profondità di campo limitatissima sui piani medi e ravvicinati. Non di rado avvertirete un senso quasi di fastidio al cospetto di inquadrature quasi totalmente fuori fuoco. Una scelta ben precisa quella di celare agli occhi dello spettatore l’ambiente intorno ai personaggi ed eliminare ogni riferimento geografico intorno agli stessi. Tutto è sfuggente e nascosto come sfuggente e nascosta è la verità dietro l’omicidio del giovane Peterson. Una verità che richiederà allo spettatore e ai personaggi di ampliare i propri sensi per essere compresa e di abbassare le difese della razionalità.
Anche l’esposizione dell’immagine si muove in questa direzione con la scena che tende a essere sempre leggermente sottoesposta di uno stop o due.
Valida e coerente la scelta della palette cromatica, con una prevalenza di verdi e di grigi e in generale tendente ai torni freddi che ricorda a tratti la prima memorabile stagione di True Detective.

Rarefazione

Il montaggio, coerentemente con la regia, rimane un passo indietro e non cerca mai di ammaliare lo spettatore con tagli repentini o scioccanti. Rispetta i tempi della recitazione, i silenzi e in generale il tempo reale dell’azione.
Anche a livello di macrostruttura ogni episodio non segue binari canonici. Raramente ad esempio gli episodi terminano con un cliffhanger e in generale si cerca di evitare il climax dove possibile. Ne consegue un senso quasi di stanchezza, di pesantezza che, di nuovo, riflette lo stato d’animo dei personaggi e si ripercuote sullo spettatore.
Tutto questo si traduce in un ritmo lento che potrebbe scoraggiare il fruitore meno paziente ma che è perfettamente funzionale al racconto.

A completare il quadro le stranianti composizioni musicali di Daniel Bensi e Saunder Jurriaans, estremamente minimaliste e quasi confondibili con gli effetti sonori, anche per l’uso costante che ne viene fatto. Non vi sono quasi mai specifiche sequenze musicali ma la musica è presente quasi in ogni scena e contribuisce a creare l’atmosfera rarefatta e cupa della serie.

Con The Outsider HBO sembra aver colto perfettamente lo spirito dell’opera originale traducendola in un prodotto televisivo ambizioso, che non strizza mai l’occhio allo spettatore, quasi aspro nella sua rarefazione e cripticità.
Se gli ultimi quattro episodi confermeranno quanto di buono visto sino ad ora riuscendo a tirare in maniera convincente le fila del racconto, ci troveremo di fronte al primo centro pieno di HBO in questo 2020.

Ci sono 2 commenti

Jakka

Ma solo a me si attiva incontrollatamente il sistema parasimpatico quando leggo le recensioni cinema/serie di Leo? Che rarità pezzi con questo livello di analisi, fantastico!

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