Dopo circa due anni di carestia, il calendario delle uscite Marvel (tra show televisivi e uscite al cinema) di questo 2021 è sicuramente molto affollato, con la mastodontica produzione guidata da Kevin Feige che macina racconti su racconti per avviare il percorso e consolidare il percorso della Fase 4 post-Endgame. All’interno di un quadro quindi a dir poco denso, schiacciato tra Black Widow e Eternals/Spider-Man, si piazza Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli, un film che a primo acchito (perché poi basta riflettere su budget e mercato asiatico) potrebbe sembrare un po’ un outsider e un underdog rispetto all’ecosistema generale Marvel Studios, e in questo è complice forse pure il fatto che si parla di un origin story e non di un personaggio rodato all’interno dell’immaginario cinematografico, né da protagonista e né tantomeno da comprimario.
E se è vero che ora come ora è difficile capire l’effettiva importanza che avrà il personaggio nel Marvel Cinematic Universe, è altrettanto vero che non ci troviamo di fronte ad un film che possiamo definire minore o secondario, con qualche guizzo interessante nella scrittura che in parte riesce a distinguerlo dal resto della compagine. Parliamo tra l’altro della produzione più action – in senso stretto – di questi anni di Marvel Studios, e se tutte le due ore e un quarto fossero state impostate e dirette come il primo atto staremmo parlando di una piccola perla di massacri, botte e grandi coreografie a là The Raid.
Prima di continuare con questa recensione di Shang-Chi e la recensione dei dieci anelli, vi ricordo che il film è da ieri 1 settembre al cinema.
Sul piano narrativo, come evidente e già accennato sette anni fa da un corto Marvel One-Shot, Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli riprende il racconto di Iron Man 3 e in qualche modo corregge uno screzio che al tempo aveva fatto storcere più di qualche naso, ovvero la scelta di rendere il Mandarino un semplice ruolo di un attore fantoccio, maschera delle operazioni terroristiche della più importante minaccia dell’Aldrich Killian di Guy Pearce. Con una sterzata, che insieme al corto del 2014 fa un bel retcon, il Mandarino (Tony Leung) quindi esiste davvero, ha i dieci anelli, che non sono sulle mani (come siamo abituati a pensare dai fumetti e da altre rappresentazioni), ma sulle braccia, e ha due figli, Shang-Chi (Simu Liu) e Xialing (Meng’er Zhang), avuti con una donna proveniente dal misterioso villaggio di Ta Lo, sede di un non ben precisato potere (luogo centrale per il secondo e terzo atto del film).
Provato da un addestramento distruttivo e inumano all’interno dell’organizzazione terroristica/paramilitare del padre (I dieci anelli) e preso da una profonda repulsione per sé stesso e per l’eredità che stava acquisendo, Shang-Chi decide di lasciare tutto e darsi alla macchia, inseguendo una vita volutamente modesta, fatta di piccoli lavoretti, in una San Francisco dove cresce con la migliore amica Katy (Awkwafina) e dove cerca di fuggire dal passato, dalle proprie azioni e dalla propria identità.
Chiaramente non tutto va come deve andare e i nodi alla fine volgono al pettine, avviando una spirale di violenza che riporta Shang-Chi alle proprie origini in un racconto per struttura su binari tradizionali e consolidati, ma con qualche guizzo interessante nel modo di caratterizzare alcune dinamiche tra i personaggi.
Quello che spicca è senza dubbio il rapporto tra Shang-Chi e il Mandarino
Quello che spicca come prima cosa è senza dubbio il rapporto tra Shang-Chi e il Mandarino, il loro dramma familiare, centrale in qualsiasi momento dove non si faccia a botte e fondamentale come elemento propulsivo agli eventi del racconto. Difatti il Mandarino in linea di massima non è assolutamente un villain banale: ha una psiche definita, motivazioni chiare nel suo delirio, e nelle sue azioni c’è una dignità, un dolore e una umanità di fondo che permettono anche ad uno spettatore di empatizzare (fattore sempre importante quando si parla di antagonisti).
Il risultato di una famiglia di chiari e scuri è uno Shang-Chi a sua volta di chiari e scuri, in una caratterizzazione (cosa non scontata) che prevede anche una complessità morale abbastanza definita alle spalle del protagonista, una complessità che in qualche modo illustra come i figli siano condizionati dai desideri e dalle personalità dei propri genitori, e di come sia possibile ritrovarsi, accettarsi e migliorarsi davvero solo una volta compreso chi si è stati e da cosa si è partiti. Shang-Chi è a tutti gli effetti un personaggio impulsivo, a tratti rabbioso e soprattutto fallibile, chiave di volta di un film che nel mettere al centro la famiglia finisce per parlare di generazioni, della pressione delle aspettative dei genitori sui figli, e dei grandissimi sforzi nel liberarsene.
La scrittura di Shang-Chi si focalizza dunque su questo e relativi temi, riuscendo con un certo successo a trovare un fulcro in grado di distinguerlo rispetto al resto della produzione Marvel Studios, nonostante l’utilizzo fin troppo didascalico (e a volte un po’ furbetto) dei flashback e un passaggio narrativo importante e centrale (sempre in flashback) gestito in una maniera così imbarazzante da essere terribilmente straniante, senza minima cura per la sospensione di incredulità dello spettatore.
Il primo atto di Shang-Chi funziona alla grande nella sua attitudine all’azione
Passando invece al resto dell’anima del film, Shang-Chi come detto in partenza è il film più d’azione della scuderia Marvel Studios, e il primo atto dopo il prologo (che comunque vanta un confronto notevole e elegante) è composto in gran parte da una sequela di botte tutte ben coreografate e davvero ben dirette, leggibili e tese, attraverso un utilizzo non eccessivo del montaggio. Una menzione speciale su questo punto va fatta per lo scontro sul bus (una parte è stata pubblicata online), clamoroso e a mani bassissime la scena d’azione migliore del film. Insomma, praticamente tutta la prima ora o quasi di Shang-Chi funziona in maniera a tratti clamorosa, non c’è quasi mai un secondo di stacco a livello di ritmo e a tratti sembra quasi poter diventare una sorta di The Raid in salsa cinecomic, tanto funziona nella sua attitudine all’azione.
È un peccato che però non ci sia stato il coraggio di credere fino in fondo a questa direzione, una impostazione che mi avrebbe fatto gridare al miracolo a fine visione; già il secondo atto infatti rallenta molto e si concede uno spirito ben più narrativo del primo (in modo qualche volta molto maldestro, come detto sopra), con un crollo del ritmo che è difficile non percepire, mentre il terzo atto è il momento in cui il film davvero purtroppo esplode, gonfiato e invaghito dalla propria stessa ambizione in un climax della scala degli scontri a cui ingenuamente non si è messo un saggio freno.
Shang-Chi nel suo terzo atto diventa infatti praticamente un anime, con momenti degni di Dragon Ball (con tanto di riferimenti meta a questo all’interno del film), e in questo passo più lungo della gamba le inquadrature (specie nella seconda parte del terzo atto) non riescono più a seguire l’azione fuori controllo e il montaggio sembra praticamente arrendersi alla generale confusione. Non scherzo quando dico che ci sono minuti interi in cui non si ha minima idea di quello che stia accadendo nel dettaglio, ed è un vero peccato specie quando si confronta questo risultato piuttosto pessimo con la capacità del primo atto di presentare un’azione pulita, divertente ed estremamente fisica.
Passando in conclusione ai collegamenti con il Marvel Cinematic Universe tutto, il finale anticlimatico e le due scene post-credit (rimanete fino alla fine dei titoli di coda) lasciano qualche dubbio sull’effettiva portata degli eventi di Shang-Chi, ma è ancora troppo presto per parlare e qualche elemento chiave potrebbe acquisire maggiore importanza e altro potrebbe emergere in futuro retroattivamente, non si sa mai. Per inciso, Abominio e Wong sono giusto una parentesi del film: non fatevi grandi speranze di rivedere per bene il villain interpretato da Tim Roth, almeno per ora.