Mi chiamo Guybrush Threepwood e voglio diventare un pirata.
Vestiamo i panni di Guybrush Threepwood, un aspirante pirata appena sbarcato su Mêlée, una piccola isola dei Caraibi. La nostra prima destinazione è ovviamente il bar accanto al pontile, dove persino il cane prova ad intimidirci abbaiandoci in faccia (per fortuna, possiamo rispondergli a tono). Nella sala sul retro ci sono tre loschi figuri, maleodoranti ma dall’aspetto importante, intenti a scolare enormi boccali di grog: devono essere pirati, possiamo chiedere a loro. Ci dicono che sono tre le prove da superare per divenire ufficialmente pirati: sconfiggere il maestro della spada a suon di insulti chirurgicamente scelti, compiere un furto a casa dell’affascinante governatrice ed infine trovare il leggendario tesoro dell’isola. Nulla di troppo complicato. Al massimo dovrò andare al circo dei fratelli Fettuccini a guadagnare qualche pezzo da otto facendo l’uomo cannone; oppure comprerò un veliero d’occasione da quel furfante di Stan, cercando di tirare sul prezzo. Chi ha parlato di pirati fantasma?
Stan: Ho cambiato idea. Non te la posso vendere. Prendi indietro i tuoi soldi. Come potrei vendere qualcosa di così amato per me … [Un grosso pezzo della nave si stacca e cola a picco in acqua] … Però è anche vero che un patto è un patto, giusto? Ti saluto! Divertiti, me ne vado!
Se si dovesse definire l’archetipo di un videogioco divertente, Il Segreto di Monkey Island sarebbe un eccellente candidato. Volutamente scevro della benché minima fonte di frustrazione per il giocatore, l’avventura architettata da LucasArts è interamente votata a configurarsi come un micidiale concentrato di sublime sagacia ed umorismo mordente. Realizzato in pochi mesi da Ron Gilbert e due stretti collaboratori, Tim Schafer e Dave Grossman, questo gioco è considerato un picco nel genere delle avventure grafiche: ha istigato una nutrita schiera di sequel ed ha goduto per oltre due decenni di un cospicuo seguito di appassionati, ancora affezionati e nostalgici. Tuttavia, come spesso accade alle pietre miliare di un genere quando sono buttate nella mischia, la prima indimenticabile avventura del prode Guybrush Threepwood riscosse al tempo dell’uscita un successo infimo se comparato alla sua fama e reputazione attuale.
Guybrush: Cerco trenta uomini morti ed una donna. Cannibale: Non voglio sapere altro.
Sebbene le meccaniche di gioco non si discostassero particolarmente da quelle proprie delle avventure grafiche, Monkey Island puntò a differenziarsi dalle opere contemporanee grazie ad un tono narrativo scanzonato e semiserio. Il gioco si svolge in un arcipelago di fantasia intrinsecamente amichevole in ogni sua parte: un’oasi sicura, lontana anni luce dai luoghi altrettanto fantastici ma traboccanti di pericoli dei titoli Sierra.
La caratterizzazione dei luoghi, eccellente in ogni suo aspetto, colorata e piena di dettagli, si pone in secondo piano rispetto a quella delle persone, vero punto di forza della produzione. Nel Segreto di Monkey Island non vi è un singolo dialogo che sia privo di battute spiazzanti oppure rotture improvvise della quarta parete. Quest’ultime rappresentano un vero e proprio fiore all’occhiello del gioco: vi è persino della pubblicità non occulta che invita il giocatore a comprare Loom, altro titolo di LucasArts!
Guybrush Threepwood: Se c’è una cosa che ho imparato, è non pagare mai più di venti dollari per un gioco.
Elaine Marley: Come?
Guybrush Threepwood: Lascia stare. Non so perché l’ho detto.
SCUMM non è solamente il nome del bar malfamato in cui, ad inizio gioco, Guybrush incontra il trio di vecchi pirati ubriaconi che gli assegnano le tre prove. Script Creation Utility for Maniac Mansion (SCUMM) è il motore grafico (non esattamente tale, come vedremo) costruito dalla LucasArts per dar vita alla sua prima avventura grafica, Manic Mansion, datata 1987. Implementato primariamente da Ron Gilbert in persona, lo SCUMM ha avuto una vita inusitatamente lunga: fino al 1998, infatti, sarebbe stato la colonna portante nelle produzioni della casa fondata da George Lucas. Fu rimpiazzato dal GrimE per la produzione di Grim Fandango, il primo gioco tridimensionale della casa californiana.
Come approfonditamente riportato qui, lo SCUMM nacque come una via di mezzo tra un motore grafico propriamente detto ed un linguaggio di scrittura: i designer del gioco avevano la facoltà di creare ambientazioni, oggetti e personaggi senza effettivamente dover scrivere nel medesimo linguaggio di programmazione del codice sorgente (wiki). Sebbene in apparenza solo un dettaglio tecnico, l’architettura dello SCUMM spiega molte delle caratteristiche di Monkey Island, e di tanti altri giochi targati LucasArts. In primo luogo, l’interfaccia: il motore utilizza una serie di verbi, ciascuno corrispondente ad una potenziale interazione con un oggetto di gioco, in pieno stile punta e clicca. È possibile pertanto formare costrutti basati sulla concatenazione di oggetti, persone e verbi: ad esempio, “Raccogli banana […] Dai banana al gruppo di cannibali”. E cosi via.
In secondo luogo, la fluidità tecnica dello SCUMM rendeva i giochi facilmente portabili: anche escludendo il remake del 2009, Il Segreto di Monkey Island è apparso su una manciata di piattaforme.
Otis il prigioniero: Sono qui per aiutarti, non solo per i soldi.
Guybrush Threepwood: Soldi?
Carla il Maestro della spada: Ci pagano per questo, no?
Guybrush Threepwood: Molto appropriato. Combatti come una mucca!
Carla il Maestro della spada: …non hai mai capito come usarlo quell’insulto li…
Ron Gilbert è sempre stato fautore di una filosofia ben precisa, alla quale ha improntato tutte le sue creazioni: il giocatore deve essere lasciato libero di provare una miriade di azioni senza innescare i meccanismi trial and error tipici delle produzioni Sierra. In altre parole, in giochi come Monkey Island non si può morire (al contrario delle famigerate morti casuali dei vari King’s Quest, di cui abbiamo parlato qui), eccezion fatta per una particolare situazione. Come detto, vengono sistematicamente eradicate le possibili fonti di frustrazione per il giocatore e viene dato campo libero all’esplorazione.
Al contrario di svariate saghe nelle quali la spinta propulsiva dei suoi creatori si esaurisce con il primo episodio, Monkey Island può vantare un secondo capitolo eccezionale: La vendetta di LeChuck. Il passaggio alle tre dimensioni ha innegabilmente penalizzato le avventure di Guybrush, come del resto ha penalizzato la maggioranza dei punta e clicca: i giocatori sono migrati verso una forma di intrattenimento basata sulla cura del gameplay a discapito della caratterizzazione narrativa. Eppure, mentre le meccaniche di gioco invecchiano, lo stile e l’arguzia della scrittura sono sospesi nel tempo. Per questo, anche fra tanti anni, vorremo sempre essere pirati.
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In ogni rubrica retro che si rispetti, non può mancare un riferimento a questo grande capolavoro del videogame,ed in particolare delle avventure punta&clicca degli anni 90. Complimenti per l’articolo, ma da amante assoluto di questo gioco non riesco a digerire le immagini tratte tutte (eccetto una) dalla versione rifatta (male esteticamente) del gioco. In una rubrica retro avrei fatto esattamente l’opposto lasciando un piccolo trafiletto con accenno alla remaster.
Rinnovo complimenti e saluti a tutti e spero che sito e community continuino a crescere
Ciao Adelmo