C’è vita oltre la morte? Genesi e analisi del Permadeath

Quando morire non è la fine di tutto

Editoriale di Farow

Che peccato, hai perso! Ritenta la prossima volta, sarai più fortunato.

Non c’è bisogno di essere degli indovini per prevedere quale potrebbe essere la mossa successiva, quella più ovvia. Chiunque, tentato da un invito così sfrontato, non resisterebbe e si getterebbe di nuovo nella mischia. Non stiamo fortunatamente parlando di gioco d’azzardo o gratta e vinci, bensì di una situazione videoludica – anzi di una meccanica – più anziana di quanto si possa pensare: trattasi di Permadeath, vale a dire la morte permanente, quella schermata di Game Over che poneva fine tanto alle nostre avventure quanto alle risorse in nichel nelle sale giochi. Mai avremmo permesso a una semplice scritta di impedire il nostro massacro di soldati in Metal Slug; piuttosto che arrenderci ai fantasmini di Pac-Man avremmo speso tutto il capitale a disposizione. Visti gli esempi, pensereste erroneamente che tutto ciò possa essere relegato all’oblio del passato, ai bei tempi andati che non torneranno più. Per quanto ironico possa sembrare, il Permadeath è oggi più vivo che mai, pronto a stroncare di colpo qualunque gloriosa cavalcata proprio sotto il nostro naso. Come reagire quindi alla frustrazione? Riprovare più volte oppure arrendersi, magari puntando un’altra preda più facile? Scopriamo assieme se c’è veramente vita oltre la morte.

Iniziamo immediatamente facendo una dovuta precisazione: col trascorrere degli anni, la morte ha assunto svariate forme e valenze all’interno dei videogiochi. Alcuni prevedono che il protagonista non sia affatto capace di tirare le cuoia, mentre altri l’hanno plasmata e rimodellata, conferendole un valore del tutto nuovo. Baluardo del recente passato è From Software, la quale con la saga Souls ha fatto del fallimento il mentore del giocatore. Quella ignobile scritta “Sei morto” si è tramutata in un’opportunità per imparare dai propri errori, studiare con più metodo il comportamento dei nemici e – in qualche modo – crescere. Cosa accadrebbe però se non avessimo dalla nostra parte i falò o, per meglio dire, i famigerati checkpoint? Crudele come pochi, morendo sotto l’ombra scura del permadeath siamo costretti a ricominciare daccapo l’intero gioco. La maggioranza dei videogiochi arcade del passato che prevedevano tale meccanica (sorvolando sull’ovvio interesse nel far spendere quanti più quattrini possibili agli avventori) non consentivano di selezionare alcuna difficoltà. Fortunatamente la morte permanente è oggi relegata alle singole modalità “estreme”, vette di cattiveria e perfezionismo, appannaggio dei giocatori più spericolati. Col medesimo gusto per la scoperta che contraddistingue la famiglia Angela, analizziamone due esempi con le relative reazioni.

Demoni e Kartoffeln

È probabile che il team di Id Software segua una dieta bilanciata a base di piombo, benzina ed Heavy Metal. Si spiegherebbe così facilmente l’elevata aggressività degli ultimi titoli sfornati dallo studio texano. Spingendo al massimo sull’acceleratore, Doom (2016) e Wolfenstein: The New Colossus mostrano il loro vero volto da flagellatori. Da un lato troviamo Ultra Incubo, settaggio riservato a psicopatici e masochisti, ove i demoni tenteranno di sbudellarci in ogni modo immaginabile. Dall’altro invece c’è Mein Leben!, difficoltà che incarna tutto l’odio di Blazkowicz per i mangiacrauti e l’utilizza per massacrare di legnate il giocatore. Queste folli e dolorose maratone condividono la medesima spada di Damocle, pendente e pericolante sui nostri capi: morire equivale all’essere catapultati direttamente alla casella di partenza. Un conto è perire in carrozella durante i primi minuti di gioco, un altro è passare a miglior vita per mano di un proiettile vagante, proprio ad un passo dal traguardo. Non c’è santo che tenga, la probabilità di tramutare il pad in un’opera di Pollock è davvero elevata. Per loro stessa natura, questi giochi si propongono a un pubblico adulto, di cui solo una parte dispone del tempo necessario per completarli in ogni aspetto. Sviluppare quindi le opportune abilità attraverso la dovuta pratica potrebbe richiedere ben più di qualche partita. Eccezioni a parte, i regolari appassionati difficilmente riuscirebbero a conciliare la propria libertà dal lavoro con tali angoscianti requisiti, diventando facili prede della frustrazione da completista.

A nostro parere, questo preciso tipo di Permadeath presenta una scarsa ragion d’essere: la difficoltà tarata alle stelle e l’impossibilità di prevedere l’esatto comportamento dei nemici rappresentano un coacervo di cattiveria gratuita e poco altro. Il rapporto tra i succitati elementi e l’effettiva abilità del giocatore risulta quindi sbilanciato, dovendo quest’ultimo ricorrere a subdoli escamotage, come scorciatoie non convenzionali, sfruttamento di glitch vari e salvataggi tenuti al sicuro nel cloud. Essendo costretti a barare, dove risiederebbe infine il divertimento? Perché, in fin dei conti, anche le modalità estreme dovrebbero divertire l’utente e non rappresentare un ostacolo odioso che separa noi e il famigerato completamento.

Ascendere a divinità

Nel lontano 2009, un bug legato a un singolo trofeo impedì al sottoscritto di portare a casa il platino di Dragon Age: Origins. A distanza di ben dieci anni, spinto da fantastiche recensioni e un interminabile amore per i giochi di ruolo, costui ha aggiunto Divinity: Original Sin 2 alla propria collezione. Una volta avviata l’applicazione, una piccola icona è riuscita ad attirarne l’attenzione, vale a dire un teschio con le corna e la dicitura: Modalità Onore, il fallimento non è un’opzione. Quale folle si getterebbe in un’avventura potenzialmente da oltre cento ore, con solo due personaggi anziché un team completo e con la minaccia del Permadeath? Esatto, io. Una volta terminato il tutto, troverete una recensione su queste pagine? Doppiamente corretto ma prima che ciò accada, è giusto che vi si ponga una domanda: cosa distingue la suddetta modalità con quelle viste nei titoli Bethesda? Per farsi beffe della cupa mietitrice, nel prodotto di Larian Studios è bene porre il tatticismo prima di ogni cosa. Anche il nemico più terrificante o le orde più numerose possono essere sconfitte, previste e aggirate con la giusta strategia. Il gameplay a turni, tipico di questo genere, consente al giocatore di prendersi tutto il tempo necessario per calcolare le proprie mosse e anticipare quelle avversarie. Niente frenesia, nessun fattore proiettile vagante: tutto risuona con le vibrazioni dell’intelligenza. Certo morire, al pari di DOOM e Wolfenstein, riesce in ogni caso a generare bizzarre mescolanze di blasfemie ma possiede allo stesso tempo la singolare capacità di farci riflettere e dire: Ok, adesso che so come superare quella sezione, potrei anche ricominciare da zero. La vasta gamma di opzioni fornite dall’editor del personaggio e il bottino ogni volta generato casualmente fanno in modo che – seppur con qualche sospiro – ciascuna nuova partita risulti sempre differente e stimolante. In questo caso, così come cantavano i Woods of Ypres, “la morte non è una via d’uscita” ma solo un modo per tornare in vita ancor più potenti.

Come abbiamo potuto notare, morire in un videogioco può provocare reazioni differenti: ira funesta, sconforto, lucida consapevolezza e addirittura coraggio. Tutto risiede nel saper stuzzicare nel modo giusto il proprio pubblico, agire con cognizione di causa nel proporre una sfida logica e sempre – in qualche modo – risolvibile, senza però sacrificare uno degli elementi più importanti per un videogioco, ovvero il divertimento. Ora però la palla passa a voi: siete abbastanza folli da accettare di buon grado una valanga di sadismo immotivato oppure preferite cimentarvi in avventure alla vostra portata? Quali sono le vostre esperienze più traumatiche una volta approcciato il Permadeath?

Lascia un commento