I trofei mi hanno rovinato la vita

Utili come i soldini di cioccolato

Editoriale di Farow

Prendiamo tutti un bel respiro e diciamolo assieme: i trofei sono come la Corazzata Potëmkin. Sia chiaro, lo stesso discorso vale per gli achievement, solo che chiamarli “trofei” è più semplice e ben si sposa con la pigrizia del sottoscritto. Per quanto non portino alcun beneficio monetario, questi sono comunque riusciti a cambiare l’approccio al videogiocare di svariati individui. A partire dall’avvento della settima generazione di console, una frase ha spesso preceduto l’acquisto di un determinato videogioco: “Questo devo platinarlo assolutamente”. Una premessa stupida e pleonastica, poiché il completamento del prodotto in questione sarebbe già di per sè previsto. Cosa cambia quindi? Semplice: il focus principale non è più stato quello di arrivare ai titoli di coda, bensì di bullarci degli amici al bar. In questa corsa al premio “Ce l’ho più grosso io” si rispecchia quindi il mutamento più evidente, ovvero il considerare i trofei come parte integrante del nostro senso di soddisfazione.

Poter sentir squillare il famigerato “ding” – dato dall’ottenimento del trofeo di platino – è sempre fonte di grandissima euforia, nemmeno avessimo visto la nostra squadra del cuore trionfare in Champions League. Al contrario, osservare quella misera percentuale, tipica di un gioco abbandonato dopo poco tempo o portato a termine frettolosamente, può avere effetti catastrofici sul nostro apparato nervoso. Da ciò si potrebbe quindi constatare uno dei pochi lati realmente positivi dei trofei: la famigerata lista può aiutarci a tenere traccia delle cose da fare prima di riporre il gioco sullo scaffale in scioltezza. Non potrebbe ovviamente mancare però l’altra faccia della medaglia, l’esagerazione malsana che rovina l’esistenza. Nel caso in cui un determinato titolo – spesso e volentieri con una componente online pressoché infinita – presenti obiettivi quasi impossibili da raggiungere, il soggetto in questione si scoraggia e preferisce tenere i propri soldi al sicuro nel portafogli oppure abbandonare la nave vigliaccamente. Molti tra voi lettori penseranno che questo sia un atteggiamento da pusillanimi e chi vi scrive non potrebbe non concordare, se solo non si fosse comportato nello stesso identico modo più e più volte. Circostanza analoga fu quella che coinvolse Wolfenstein II: The New Colossus, il quale – oltre a una pletora di collezionabili da raccogliere completamente inutili – richiedeva di essere concluso alla difficoltà “Mein Leben”.

Per chi ne fosse ignaro, questa modalità prevede la “permadeath”, vale a dire la morte permanente: una volta al tappeto, avremmo dovuto ricominciare tutto il gioco daccapo. Onde evitare ischemie cerebrali, terminata l’avventura del caro Blazko e accoppato qualche gerarca nazista nel tempo libero, il titolo Bethesda è stato relegato alla mensola. Altro effetto collaterale è stato non apprezzare più di tanto il videogiocare su PC, quasi sempre a causa della mancanza dei trofei. Da buon collezionista seriale è quantomai obbligatorio esibire la propria collezione su PlayStation, in barba a tutti gli amici. Si potrebbe obiettare che anche Steam possieda un sistema praticamente identico, ma la devianza psicologica fa sì che questa venga trattata con disprezzo, quasi si tratti di un dischetto tarocco comprato sulle bancarelle.

Non è però giusto sottolineare solo le caratteristiche negative dei trofei. Se non fosse stato per l’obiettivo “Il limite del possibile”, probabilmente The Witcher 3 non sarebbe mai stato completato a “Marcia della morte” (dove i nemici ci vanno giù pesante con la cattiveria), privandoci totalmente della vera esperienza da Strigo. Allo stesso modo, i ladri fantasma di Persona 5 non avrebbero mai potuto accumulare oltre 150 ore di gioco e Crash Bandicoot avrebbe potuto benissimo fare a meno delle dannate reliquie. Le coppe di Sony e i punteggi Microsoft non si limitano quindi a fornirci un punto della situazione, bensì ci spingono a mungere ogni singolo minuto dal prodotto in cui abbiamo deciso di investire tempo e denaro.

Come nella vita bisogna saper prendere tutto – o quasi – con leggerezza, parimenti il completamento di un gioco non deve rappresentare per l’utente un’ossessione, una competizione da vincere a ogni costo. A tale conclusione il vostro scrittore vi è giunto dopo aver platinato Yooka-Laylee: preso singolarmente, il figlio di Playtonic Games e Team17 sembrerebbe una passeggiata attraverso un prato fiorito. Telecamera ingestibile, un set di comandi non sempre reattivi e timing completamente sballato nei minigiochi (Kartos, che tu possa marcire nell’inferno pixelloso da cui sei nato), rendono l’avventura dei due animaletti più insostenibile di una tortura cinese. A che pro arrecare del male fisico e psicologico alla propria persona? Non ne vale la pena, vogliatevi bene.

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