Mortal Kombat 11: una Fatality per i picchiaduro giapponesi?

Editoriale di Farow

Dopo il Reveal Event tenutosi il 18 gennaio, Netherrealm Studios ha messo in chiaro una cosa: Mortal Kombat si prepara a tornare più in forma che mai. L’undicesima iterazione del pluripremiato simulatore di chiropratica si è mostrata come sempre violentissima, sanguinolenta e spettacolare. Forte del passaggio al performante Unreal Engine 4 e sorretta da quanto di buono si sia visto nel capitolo precedente e in Injustice 2, la creatura di Ed Boon parrebbe avere tutte le carte in regola per sbaragliare la concorrenza e portare a casa il premio di picchiaduro dell’anno. In questa sede però non ci concentreremo solo su chi i giochi potrebbe condurli, bensì anche su coloro i quali sono appostati alla finestra. Ci riferiamo ovviamente alle grandi case di sviluppo giapponesi, il cui strapotere, ha iniziato a mostrare il proprio fianco già da diversi anni. Condividendo la medesima sorte dei protagonisti di Mortal Kombat, quest’ultime rischiano di subire una fatality a prova di antiemetico. Serrati i pugni e assunta un’espressione poco rassicurante, analizziamo lo stato di salute dei picchiaduro nel Sol Levante.

  Emoglobina in alta risoluzione

Prima di fare i bagagli e spingerci in direzione del lontano oriente, sarebbe bene spiegare il perché di tanta eccitazione nei confronti di Mortal Kombat 11. L’episodio numero dieci della serie e la seconda avventura degli eroi DC hanno mostrato l’indiscutibile bravura dello studio di Chicago. Oltre a proporre una modalità in giocatore singolo – ahinoi sempre più trascurata dai titoli dello stesso genere – curata e dal taglio cinematografico, i pilastri di Netherrealm hanno presentato due sistemi di combattimento davvero solidi, conditi da una giusta spolverata di tatticismo e da un’importante mole contenutistica. Riuscire a ottenere tali risultati da un ormai vetusto Unreal Engine 3 è stato d’altro canto qualcosa che ha fatto ben sperare i fan più sfegatati, i quali non vedevano l’ora di osservare i miracoli dettati dal suo successore. Injustice 2 ha inoltre introdotto alcune meccaniche piuttosto interessanti, come la possibilità di personalizzare i propri beniamini con nuovi gadget e vestiario alternativo: certo, l’armatura alla Kryptonite di Batman fa sempre la sua maledetta figura ma scegliere tra i vari e letali kunai per Scorpion ha tutto un altro sapore. Si fa presto quindi a comprendere perché, una volta sollevato il velo di mistero posto durante i Game Awards 2018, gli appassionati siano andati completamente in visibilio. Senza soffermarci più di tanto sulla trama, della quale conosciamo ancora troppo poco, potremmo fin da subito trarre alcune piacevoli conclusioni dai filmati di gioco mostrati alcuni giorni fa.

Come affermato in precedenza, l’Unreal Engine 4 sembra aver dato la spinta in avanti desiderata un po’ da tutti, conferendo al titolo un look decisamente più realistico. Seppur sgorgato con parsimonia – si spera che sia possibile regolarne la quantità nell’impostazioni – ogni singola goccia di sangue è ora ricreata con incredibile fedeltà. Gli amanti dell’emoglobina saranno inoltre felici per l’introduzione di alcune violentissime sequenze, una via di mezzo tra prese standard e X-Ray. Ci riferiamo, ad esempio, al prelibato boccone del braccio di Scorpion ingurgitato da Baraka, il tutto durante una rapidissima scenetta.

L’intento principale degli sviluppatori sembra infatti proprio questo: Mortal Kombat 11 sarà il capitolo più spettacolare dell’intera saga, coniugando l’esagerazione visiva che da sempre la contraddistingue con la fluidità delle transizioni di Injustice 2. Per quanto un traguardo simile possa essere di sicuro benefico per Fatality, Brutality e X-Ray (ora chiamate Fatal Blow), è d’obbligo sottolineare come l’impatto generale dei comuni colpi inferti sia stato decisamente ridimensionato. Proprio come l’episodio ambientato nell’universo DC, semplici pugni e calci non sembrano più devastare l’avversario, bensì appaiono più leggeri e misurati. La telecamera infine è stata distanziata dal terreno di scontro, sicuramente per rendere giustizia ad alcuni degli scenari più realistici, meglio illuminati e dettagliati del genere in questione. Se da un lato la meraviglia visiva apportata da tale scelta possa essere apprezzabile, dall’altro è innegabile come ciò contribuisca a una minore concentrazione del giocatore sui due “kombattenti”.

Al netto di alcune piccole perplessità, l’inconfondibile stile, il combat system tattico e perfezionato, la grande varietà e validità di contenuti costituiscono gli assi nella manica a favore di Mortal Kombat 11. Per Boon e compagni, staccare brutalmente la testa alla statuetta dei prossimi Game Awards, salvo incredibili sorprese, potrebbe essere ancora una volta a portata di mano. Cosa dire però dei diretti concorrenti? Badate bene, il focus della nostra disamina non è il voler rappresentare Mortal Kombat come il chiodo definitivo nella bara dell’industria giapponese in quanto a picchiaduro, bensì notare come lo strapotere nipponico, indiscusso negli anni novanta e a inizio millennio, non sia oggi così incontrovertibile. Da qualche tempo a questa parte, l’occidente ha ricordato di avere tutti i mezzi necessari per tenere testa ai mastini di Capcom e Bandai Namco, le quali – chi più, chi meno – hanno commesso determinati passi falsi.

Pugni di ferro, spade leggendarie e auree potentissime

Tra le due succitate, partiamo dalla compagnia che più di tutte ha deciso di puntare sul sicuro, vale a dire Bandai Namco. Considerando solo in seguito il gioiellino di Arc System Works dedicato al mondo di Akira Toriyama, soffermiamoci sui due capisaldi della casa di Tokyo: Tekken e Soul Calibur. Il primo, vera e propria killer application durante l’era PlayStation, sembrava aver perso mordente con il sesto capitolo, vittima del fattore “more of the same” e con un Tag Tournament 2 non apprezzato allo stesso modo da tutti i fan. Di contro Tekken 7 si è dimostrato un picchiaduro più che valido, anche sul versante tecnico e con un maggior occhio di riguardo nei confronti della trama. A distanza di circa due anni dalla commercializzazione, il titolo gode oggi di buona salute, con una seconda stagione di DLC ancora fresca e tutta da gustare. Con buona pace di chi sognava un’insperata quanto azzeccatissima inclusione di Kiryu Kazuma (Yakuza), personaggi storici come Anna, Lei e Marduk si sono successivamente aggiunti al roster, affiancati da ospiti d’eccezione quali Noctis (Final Fantasy XV) e Negan (The Walking Dead). Sebbene sia lontano dai fasti del terzo capitolo, Tekken 7 ha saputo compiere un evidente passo in avanti rispetto al predecessore, dimostrando come Bandai Namco desideri migliorarsi.  Allo stesso modo, Soul Calibur 6 è riuscito a riscuotere consensi generalmente positivi di pubblico e critica, proponendo una diversa chiave di lettura degli eventi in Soul Blade. Senza far gridare al miracolo e ancora distanti da quel meraviglioso approdo su Dreamcast, il picchiaduro all’arma bianca è ancora in grado di allietare i giocatori, grazie a un sistema di combattimento incredibilmente fluido, intuitivo e divertente. Seppur non memorabile, una narrazione che si lascia seguire con piacere ha trovato il giusto spazio al fianco della graditissima “Bilancia dell’Anima”: ereditata dal pregevole Soul Calibur 3, tale modalità consente di vivere una campagna con il proprio alter-ego personalizzato, portando a termine missioni e compiendo scelte sulla falsariga di un gioco di ruolo. Al momento sono ancora pochi i personaggi aggiunti tramite contenuto scaricabile: stiamo parlando della folle Tira e di 2B, l’androide protagonista di NieR Automata. Per quanto gradevole, Soul Calibur 6 – così come Tekken 7 – resta appunto solo un “buon gioco”, a prova del fatto che una casa come Bandai Namco dovrebbe e potrebbe fare molto di più.

 

 

Nonostante la compagnia di Tokyo abbia proposto recentemente un buffet non particolarmente gustoso, c’è però un piccolo pasticcino pronto a completare la cena. La ciliegina sulla torta risponde al nome di Dragon Ball FighterZ, nato dalla preziosa collaborazione con Arc System Works. Non tenendo conto della serie Xenoverse, catalogabile più come brawler, FighterZ ha guadagnato l’entrata nell’Olimpo dei picchiaduro competitivi. La resa degli scontri, i filmati, i modelli dei personaggi, ricalcano alla perfezione i tratti del manga e dell’anime di riferimento, rendendo degno omaggio alle gesta dei Guerrieri Z. Dal punto di vista del gameplay, le combo automatiche ricordano da vicino quelle di Marvel vs Capcom, rendendo più facile la vita dei neofiti, mentre i giocatori più navigati e incalliti avranno già esplorato il vasto catalogo di mosse e concatenazioni disponibili. Se da un lato il gioco base consente ai fan di gongolarsi tra una Kamehameha e un Final Flash, non si possono ugualmente tessere le lodi per i contenuti aggiuntivi: ben venga Broly, si accomodi pure Bardak ma Goku e Vegeta (forma normale) mal si digeriscono, specialmente se si tiene conto delle versioni Super Sayan e SSGSS già presenti per entrambi i lottatori. Per farla breve, Bandai Namco può continuare a dormire sonni tranquilli, facendo però attenzione a chi, sulla riva opposta dell’oceano, si prepara a muovere guerra. Nel frattempo, continuiamo a sperare che si ricordino di Gundam Battle Assault 2.

Un Hadoken sempre più debole

Avete presente quando Street Fighter V ritornò con gran prepotenza e mise tutti a tacere? E quando Marvel vs Capcom Infinite ci fece ricordare i suoi elevatissimi standard? Esatto, nemmeno noi. Fra tutti, proprio colei che ha contribuito a glorificare il genere picchiaduro dovrebbe ridestarsi dal suo stato comatoso. In quel di Capcom – visti gli scivoloni del calibro di Umbrella Corps – si sono avvertiti i primi segni di ripresa grazie all’ottimo Resident Evil 7, seguito a ruota dal remake del secondo storico capitolo, il quale ha già ottenuto splendidi risultati. Verrebbe da chiedersi quindi perché non siano stati ancora profusi i medesimi sforzi anche in questo campo. Ci saremmo volentieri aspettati che, a seguito di un memorabile Street Fighter 4, la casa di Osaka riuscisse facilmente a capitalizzare con la pubblicazione dell’attesissimo seguito. Siamo rimasti con l’amaro in bocca dopo aver provato per la prima volta Street Fighter V e la motivazione è presto detta: contenuti ridotti all’osso, modalità in un numero risicato, assenze ingiustificate e un comparto tecnico tutt’altro che perfetto. Solo col passare degli anni e l’arrivo di diversi aggiornamenti gratuiti, il picchiaduro di Capcom ha iniziato ad assumere una fisionomia più definita, completata dalla pubblicazione dell’edizione Arcade. Meglio tardi che mai, direte voi: vero ma anche falso. Esattamente come accaduto con No Man’s Sky, l’immagine del prodotto è stata lesa da un day one disastroso, a tal punto da non riuscire a recuperare l’attenzione delle fette di pubblico più ampie. 

Per quanto concerne Marvel vs Capcom Infinite, quarto capitolo della serie, c’è da fare un discorso sostanzialmente differente. Di base il titolo dedicato agli scontri tra i due universi non si è rivelato poi malvagio: un roster abbastanza ampio e variegato, assieme a un gameplay come sempre molto divertente, hanno reso lieti i match contro i nostri amici sul divano. Cosa trovare di buono in questo prodotto oltre quanto già elencato? Praticamente poco e nulla. Tralasciando una modalità storia alla quale sono riusciti ad appassionarvisi solo i parenti degli sceneggiatori, troviamo un comparto multigiocatore claudicante, a causa di un matchmaking spesso impreciso e dai tempi d’attesa siderali, e numerose incertezze sui versanti grafici e addirittura artistici. Non ci saremmo meravigliati se Capcom avesse confessato di aver realizzato i modelli di Thor e Capitan America scannerizzandone due pupazzetti made in China. Sebbene sia cosa comune che nei vari fighting game alcuni personaggi non siano perfettamente bilanciati, in Infinite questo squilibrio è ancor più ravvisabile: si dica ciò che si vuole ma, al debutto, chiunque avrebbe potuto vincere facilmente scegliendo Dante di Devil May Cry. Può essere quello in questione definito come un pessimo picchiaduro? Assolutamente no, così come non è possibile che i soli match uno contro uno sorreggano la spesa per l’intero titolo. Chiunque si sarebbe aspettato molto di più da parte di una saga così blasonata, cosa che purtroppo non si è verificata. Che Infinite sia stato vittima del nostro hype è chiaro ma si sa, le cose si fanno in due e anche stavolta è stato impossibile nascondere lo zampino di Capcom.

 Il 23 aprile potremo finalmente avviare Mortal Kombat 11 e dare inizio a un tripudio di budella spappolate, ossa frantumate e imprecazioni da scomunica. Se da un lato presteremo attenzione a valutare ogni passo in avanti svolto da Netherrealm, dall’altro sarà impossibile non pensare a come la sua competizione possa rispondere. Lo scenario degli ultimi anni vede lo studio di Chicago perennemente in vantaggio, sia per risultati di vendita sia di critica, sfornando puntualmente prodotti estremamente solidi. Le risposte provenienti dall’oriente hanno trovato finora grandi difficoltà anche solo nello scalfire le corazze dei titoli occidentali, con solo poche eccezioni degne di nota (vedasi Dragon Ball FighterZ). Il panorama dei picchiaduro è a oggi profondamente diverso, lontano ricordo di quanto visto durante gli ultimi echi del vecchio millennio. Visti gli inciampi – di maggiore o minore gravità – Capcom e Bandai Namco farebbero bene a rivedere le proprie strategie d’attacco, poiché l’avversario parrebbe pronto a sferrare un colpo poderoso. In attesa di tale riscontro, sarebbe per noi opportuno iniziare ad allenarci per scegliere il nostro destino, il tutto pregando di non finire affettati come un salame dopo una fatality.

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