Il catalogo di Capcom è sempre stato variegato e capace di coprire i generi videoludici più disparati, se non addirittura di crearne. Questa versatilità era tangibile sin dalla generazione pixel, dove spaziando tra un Megaman ad Commando, tra uno Street Fighter e un Forgotten Worlds, dimostrava di sapersela cavare più che egregiamente. Tuttavia qui in occidente le prime foto di Resident Evil giunte sulle pagine delle riviste furono doppiamente sorprendenti, in primis perché la qualità generale del gioco traspariva già da poche immagini, in secondo luogo perché un titolo a tema orrorifico di Capcom non si era mai visto da queste parti. Certo, un leggero gusto per il macabro si trovava nello scanzonato Ghost&Goblins, i toni maturi non mancavano in Mercs o Final Fight, ma un gioco davvero horror, pensato per un pubblico adulto?
La cosa difficilmente avrà sortito lo stesso effetto sui giocatori giapponesi, in quanto loro avevano già provato un titolo pubblicato solo sul mercato interno per il Famicon di Nintendo: Sweet Home. E’ bene citarlo, perché nonostante non sia mai stato importato ufficialmente in America o Europa, la sua importanza è fondamentale per arrivare a Resident Evil e conferma ancora una volta l’ecletticità di una Capcom che sulla stessa console pubblica gli adattamenti dei giochi Disney come Duck Tales o Cip&Ciop (Chip&Dale in originale) e poco dopo quello che è considerato il precursore del genere survival horror.
Sweet Home viene diretto da Tokuro Fujiwara, che aveva già ricoperto questo ruolo nello sviluppo di altri titoli importanti di Capcom, tra cui alcuni citati sopra. Le caratteristiche di questo gioco sono più quelle di un RPG, tuttavia presenta diverse caratteristiche di game design o stilistiche che diventeranno pilastri della struttura del primo Resident Evil come gli enigmi, i finali multipli, il backtracking, il caricamento con la porta che si apre, l’inventario limitato e le sale dedicate al salvataggio e l’immagazzinamento, gli oggetti specifici per ogni protagonista. Il progetto viene portato avanti in concomitanza con l’uscita di un film che verte sulla medesima vicenda, ovvero quella di un gruppo di documentaristi che si avventura in una casa abbandonata che nasconde pericoli agghiaccianti. Inizialmente RE viene immaginato come un rifacimento di Sweet Home, ma durante lo sviluppo le cose cambiano e la trama si sviluppa sull’idea di zombie ed esperimenti scientifici, tema molto differente rispetto alla scuola horror tipica del cinema nipponico. Tra le altre idee accantonate c’erano anche comprimari diversi da Barry e Rebecca, come il cyborg gigante Gelzer e Dewey, l’umorista della squadra, dedito a fare battute per stemperare la paura. La direzione del progetto fu affidata a Shinji Mikami, mantenendo Fujiwara come produttore, importando in modo perfetto quelli che erano aspetti di game design inizialmente pensati per un adventure-RPG, dentro un gioco dove si spara e c’è più azione, superando agevolmente anche lo scoglio di transitare queste meccaniche dal 2D al 3D.
Curioso notare come il titolo originale con cui la serie è distribuita in Giappone sia quello più calzante. Biohazard infatti è il termine usato per indicare pericoli di natura batteriologica od organica, risultando adatto a qualsiasi episodio della serie, i quali lo usano come denominatore per giustificare l’origine di nemici e creature mostruose. All’epoca non era così infrequente che un gioco avesse titoli diversi tra oriente e occidente, per ragioni spesso dovute alla pubblicizzazione o alla commercializzazione (sempre Capcom distribuì Street Fighter Zero come Street Fighter Alpha in Occidente). Per questo motivo da noi il gioco viene pubblicato come Resident Evil, alludendo forse in modo più marcato alla magione che fa da teatro agli eventi del primo capitolo, ma che non sempre finisce per rappresentare episodi che propongono una variazione più dinamica di scenari (come il 3 o il 5, ad esempio). C’è da dire che il primo vero survival horror moderno in 3D fu Alone in the Dark, della casa francese Infrogames di Bruno Bonnell, giunto su PC pochi anni prima. Seppur ancora grezzo, fu rivoluzionario e gettò in modo inequivocabile le basi della formula di questo genere videoludico, a cui Capcom si rifarà in modo evidente.
Il successo dell’esordio è clamoroso: Biohazard diventa uno dei giochi più venduti sulla prima Playstation, ammirato anche dall’utenza Saturn che chiede (e ottiene) una conversione, contribuendo ad una diffusione della serie che si può definire in modo ironico, ma calzante dato l’argomento, come “virale”. I motivi di tale riscontro sono la forte partecipazione di ogni singolo aspetto, di ambientazione come di giocabilità, a creare un’esperienza dell’orrore a tutto tondo.
Sia la forma che la sostanza risultano congeniali per scuotere l’utente, enfatizzando l’idea di pericolo dei protagonisti. La trama e le atmosfere sono inquietanti, dipanando il segreto dietro Villa Spencer un poco alla volta e sempre tramite una narrazione che sviluppa gli eventi correnti con dei filmati e ricostruisce i retroscena attraverso delle fredde e impersonali note scritte, che tengono alto l’alone di mistero.
La giocabilità non era da meno nel creare tensione: i proiettili erano limitati e i rifornimenti centellinati, lasciando l’utente in bilico se affrontare un nemico o scappare, sempre con l’immaginario fiato sul collo della paura, con lo sguardo ad un caricatore studiato per sembrare sempre e solo come un bicchiere mezzo pieno, in barba all’adagio che sprona all’ottimismo. Lo stesso inventario non dava conforto: pochi oggetti potevano essere trasportati nello stesso momento, obbligando a fare scelte sofferte, come il non poter disporre di ogni arma dell’arsenale per fare spazio a qualche kit medico od oggetto indispensabile per l’esplorazione, facendo sentire indifesi. Un’impostazione che volutamente metteva dei limiti per mantenere sempre i nervi a fior di pelle.
Il seguito arriva con Resident Evil 2, che questa volta vede un’altro piccolo cambio di squadra, con Hideki Kamiya alla direzione e Shinji Mikami che passa alla produzione, prendendo il ruolo del suo predecessore Fujiwara. Il titolo espande in tutto e per tutto le parti migliori del precedente, dedicando più spazio ai luoghi visitabili e ampliando lo scenario di ciascun protagonista, al punto da occupare due CD. L’azione si articola non solo nel commissariato di polizia di Raccoon City, ma anche attraverso numerosi altri posti, segnando un salto nella portata produttiva e di immaginario paragonabile a quello che L’Alba dei Morti Viventi ebbe per il genere zombie nella cinematografia. Che l’opera di George Romero fosse stata oggetto di ammirazione in Capcom era risaputo e difatti la casa produttrice volle certificare la cosa ingaggiando il celebre regista per dirigere un corto pubblicitario per promuovere Resident Evil 2 in televisione.
In seguito Romero ricevette l’incarico di stendere una bozza di sceneggiatura per un adattamento filmico di Resident Evil. E qui Capcom prese uno degli abbagli più grandi della sua carriera, in quanto a detta di chi l’aveva letto, il copione vergato dal maestro del terrore era molto fedele al videogioco, oltre che essere più che valido come storia in sè. Capcom tuttavia non ne rimase convinta e accantonò tutto, per avallare in seguito la trasposizione firmata da Paul Anderson, la quale però si è ben presto distaccata in modo secco dal filone originale, diventando un action-horror molto grossolano, ben lontano dall’atmosfera angosciosa e claustrofobica che i videogiochi avevano ripreso a loro volta dalla trilogia dei morti viventi.
Una conversione di RE2 venne sviluppata anche per Nintendo 64, segnando un piccolo portento di compressione dati e ottimizzazione grafica, contenendo i due dischi della versione PSX in un’unica cartuccia. Anche in questo caso, come avvenuto per RE1 su Saturn, la conversione di un capitolo già uscito diventò funzionale ad un accordo per un episodio studiato appositamente per un’altro hardware. L’arrivo di RE1 su Saturn spianò la strada allo sviluppo di Code Veronica per Dreamcast, mentre quello di RE2 per Nintendo64 anticipò Resident Evil 1 Remake e Resident Evil 0 per GameCube.
Dopo il successo di RE2, Mikami inizia a lavorare su quello che vorrebbe fosse il terzo capitolo. Prende così forma Resident Evil Code Veronica, mettendo in cantiere una mole di contenuti altrettanto corposa quanto quella tra l’1 e il 2. Prima però c’è un obbligo contrattuale da adempiere: Capcom infatti si era impegnata con Sony per pubblicare tre capitoli numerati sulla prima Playstation, pertanto era necessario produrre alla svelta qualcosa. Resident Evil 3 Nemesis (intitolato Biohazard 3 The Last Escape) viene sviluppato più in fretta, con molte risorse grafiche e ambientazioni basate su modelli avanzati e prototipi scartati da Resident Evil 2. La scelta di ambientare la vicenda nella stessa Raccoon City che aveva ospitato il secondo fu facilmente dovuta al giustificare in modo semplice il riciclo di gran parte del materiale rimasto (tra cui lo stesso Nemesis, lieve variazione del Mr.X già affrontato in RE2), trovando riscontro anche nelle dimensioni (passando dai due dischi di RE2 ad uno solo di RE3). Sebbene manchi di innovazioni tangibili, la popolarità crescente della serie ne traina le vendite.
Le novità maggiori Mikami le tiene in serbo per Code Veronica, sfruttando la capienza dei giga-disc della Dreamcast per far fare un salto tecnico alla serie, cambiando la composizione dei fondali da immagini pre-renderizzate a scenari realizzati in poligoni tridimensionali e limitando le inquadrature fisse. Per la stessa trama si cerca di puntare in alto, creando una vicenda ricca di colpi di scena e momenti forti. La passione per il cinema si fa sempre più evidente, inserendo citazioni a pellicole come Psycho e Matrix, arrivando ad omaggiarne anche delle specifiche inquadrature e sequenze. Si ritorna alla compresenza di due protagonisti, ma con un’importante differenza. Anziché far muovere due personaggi diversi nello stesso scenario e con variazioni minori, stavolta a ciascun eroe è dedicata un’intera e specifica porzione di gioco, raggiungendo una longevità praticamente doppia rispetto ai precedenti.
Resident Evil Gun Survivor fu il primo derivato del filone principale, creato per supportare la pistola ad infrarossi Guncon per PSX. Questa periferica era stata sviluppata per consentire una conversione quanto più fedele possibile di quei cabinati da sala giochi in cui si puntava una pistola contro lo schermo simulando l’effetto di una sparatoria. Capcom non aveva un titolo arcade da convertire, pertanto decise di svilupparne uno appositamente per il mercato console, sulla stessa piattaforma su cui i RE principali stavano spopolando. Gun Survivor presenta un protagonista e una trama inediti, ricevendo un seguito intitolato Dead Aim, giunto su PS2 assieme ad un’altro sparatutto su binari che però si limita a riproporre gli eventi di Code Veronica.
I due capitoli Outbreak per Playstation 2 sono stati poco considerati qui in Europa, per motivi prettamente “tecnici”, tuttavia furono molto innovativi e in assoluto il miglior esempio di come implementare meccaniche multigiocatore e cooperative non soltanto in Resident Evil, ma nei survival horror in generale. Entrambi sono ambientati a Raccoon City durante l’epidemia e vedono come protagonisti non degli agenti speciali ma delle persone comuni, come ad esempio una liceale, una cameriera, un sorvegliante, un idraulico, ciascuno con una peculiare abilità (come portare molti oggetti, oppure combinare erbe mediche, creare armi improvvisate, usare meglio le pistole e via dicendo) ma anche con specifiche mancanze. Tra le novità era presente anche la percentuale di infezione da virus-T, da tenere costantemente d’occhio, che in caso di morte con un grado alto rianimava il proprio personaggio come zombie, il quale attaccava gli alleati.
Ottima anche l’esplorazione della città di Raccoon, passando da luoghi mai visti nei capitoli principali, che donavano grande identità e freschezza a questi episodi (come lo zoo invaso dal T-Virus, con l’inedito ma spaventoso elefante zombie). Gli Outbreak erano studiati per sfruttare il modem di PS2 per giocare in rete con altri utenti, tuttavia questa periferica ebbe una diffusione molto limitata in Europa, data la scarsa capillarità della connessione ad internet su console e le linee ancora lente rispetto quelle nipponiche. Per questa ragione Outbreak 1 giunse dalle nostre parti completamente sprovvisto di tale opzione, fruibile solo con i comprimari controllati dal computer, mentre il secondo supportò la connettività di Playstation 2, rimanendo comunque rivolto ad un’utenza di nicchia. L’apprezzamento da parte della comunità però fu talmente elevato che i fan si adoperarono per creare dei server privati per prolungare il gioco in rete anche dopo che i server ufficiali furono spenti.
A convincere era specialmente la giocabilità, che ricreava una vera esperienza survival, in cui scegliere ciascun personaggio era indispensabile per favorire il gruppo ma comportava delle debolezze che rendevano un giocatore lontano dall’essere un soldato invincibile, valorizzando l’esperienza multiplayer. Arrivare alla fine di ogni area era quindi frutto di una cooperativa ben implementata, che offriva spunti di gioco più interessanti rispetto alla banale “sparatoria in due” provata successivamente in Resident Evil 5 e 6.
All’uscita di Gamecube, Nintendo cercò di offrire un catalogo più adulto ai suoi acquirenti, siglando con Capcom un accordo che avrebbe portato parecchi titoli della compagnia sulla console. Tra questi c’era la saga di Resident Evil, la quale avrebbe dovuto essere ospitata proprio su questo dispositivo inteso come piattaforma di riferimento per le successive proposte, al pari di come era stato per Playstation per la trilogia precedente.
Giungono così il rifacimento di Resident Evil 1 e il nuovo Resident Evil 0, offrendo un punto di partenza ideale per una base di utenza che magari prima non aveva provato la serie, essendo rimasta legata alle console di Nintendo. Qualitativamente i due titoli furono eccellenti e in particolare RE1 fu un ottimo esempio di come realizzare un rifacimento, migliorandolo in tutto e per tutto. Lo Zero invece fungeva da prologo, introducendo una meccanica di gestione asincrona di due personaggi. Le vendite di entrambi furono parecchio al di sotto delle aspettative però, al punto che Shinji Mikami dichiarò in un’intervista, anni dopo, che la svolta action del 4 venne decisa proprio per cercare di vendere più copie dopo la tiepida accoglienza riservata dalla fanbase Nintendo a RE1Remake e allo Zero.
Prima di arrivare al nuovo episodio, venne sviluppato un prototipo scartato, molto diverso nelle atmosfere, dimostrando come un cambio netto di direzione artistica a sviluppo ancora in corso, non fu un caso isolato al Biohazard immaginato come rifacimento di Sweet Home. Il primo materiale su Resident Evil 4 infatti verte su Leon che si aggira per un castello popolato da bambole assassine, armature medievali che si muovono da sole e da altre tipologie di nemici forse più calzanti con un Silent Hill, che non con la tematica pseudoscientifica tipica della serie di Capcom (come mostrato nel filmato del cosiddetto “3.5“)
Archiviata questa idea, si giunge alla versione finale del quarto, che introduce una tridimensionalità completa, in tutto e per tutto, nella gestione della telecamera e nei fondali, oltre che la famosa inquadratura di spalle a 3/4 che diventerà fondamentale e sarà copiata da tutti nel campo dei giochi con visuale in terza persona. Una semplice scelta prospettica che però ha ridefinito tutto quanto un genere, al punto da essere impiegata trasversalmente da oriente ad occidente. Si cambia anche la trama, ma in modo più appropriato, proponendo come alternativa ai soliti zombie gli infettati dai parassiti plagas. Nelle fasi finali del gioco è bene notare come siano già presenti fortissime influenze action e shooter, curiosamente le stesse che verranno poi criticate aspramente in Resident Evil 5 e 6. Per quale ragione quindi ci fu questo cambio di valutazione? Il motivo è presto detto: negli anni successivi il mercato venne letteralmente inflazionato dagli sparatutto, inclusi quelli online cooperativi, portando anche Capcom a credere che se avesse spinto la serie verso quel genere, avrebbe potuto allargarne l’utenza. Ma fu proprio la crescente saturazione che portò molti giocatori a mal sopportare che anche i survival horror convergessero su quel tipo di meccaniche, dal momento che l’offerta generale si stava appiattendo eccessivamente, portando sin troppi titoli a somigliarsi tra loro. Come non bastasse, persino il derivato Resident Evil: Operation Raccoon City insistette ulteriormente sugli stessi identici aspetti che ormai venivano considerati abusati ovunque, suscitando un malcontento generale. Anche Dead Space, che fu la grande rivelazione di quegli anni nel campo dei survival horror, finì nell’arco di pochissimo tempo a tramutarsi esso stesso in uno sparatutto cooperativo.
Resident Evil 5 e 6, ottennero buone vendite, tuttavia è bene contestualizzare questo dato in quanto il mercato dei videogiochi fece un salto in quegli anni, aumentando il bacino di utenza generale e incrementando in proporzione anche la base di utenza che molti marchi potevano raggiungere. Il pubblico a cui si proposero RE5 e 6 fu dunque proporzionalmente molto più ampio e per giunta su piattaforme dove la pirateria era molto meno diffusa (basti pensare al ridimensionamento del fenomeno negli ultimi quindici anni rispetto a quanto lo fosse nell’era Playstation 1 e 2), inoltre entrambi vendettero anche sulla spinta di una credibilità ancora forte che il marchio esercitava, ma che iniziava ad essere messa in discussione da ogni lato, e di una campagna pubblicitaria tanto imponente quanto però costosa. Ecco spiegato come mai il quinto e sesto capitolo abbiano piazzato così tante copie ma al tempo stesso furono così criticati.
Ricezione ben diversa ottennero altri due capitoli di quella che, nello stesso periodo, era partita come una sottosaga, ma che aveva finito per recuperare parecchi aspetti di ciò che aveva reso così particolare Resident Evil come serie. I due Revelations infatti abbassano l’incidenza della componente sparatutto, per riportare la giocabilità e le atmosfere su binari più consoni al survival horror di cui si sentiva ormai la mancanza. Su WII intanto viene ripresa la formula degli sparatutto su binari grazie ai controlli motori del WIImote, con due derivati poi convertiti anche su Playstation 3 per supportare la periferica Move. Umbrella Chronicles e Darkside Chronicles esplorano diversi capitoli oscuri della saga, come le avventure di Wesker in solitaria dopo la caduta della Umbrella e i retroscena tra Leon e Jack Krauser.
Lo sviluppo di Resident Evil VII dunque si basa sul presupposto di rifondare il marchio all’insegna di quegli elementi che avevano contraddistinto la serie al suo esordio. Il titolo riesce nell’intento e soddisfa in egual misura sia il pubblico che le necessità commerciali, segnando un buon compromesso tra fidelizzazione degli appassionati e incasso. A questo capitolo è stato dedicato un articolo in cui si tratta in modo specifico il suo game design.
Come non bastasse Capcom riesce in un certo modo a creare qualcosa di innovativo, pur mantenendo il tutto tradizionale nella sua giocabilità. La formula è sempre quella del survival horror, con ambientazioni claustrofobiche, backtracking e ricerca di oggetti chiave per sopravvivere, enigmi da risolvere per procedere, munizioni contate per sconfiggere i nemici. Inoltre, cambiando la visuale da terza a prima persona, si è aggiunto il supporto ai dispositivi per la realtà virtuale, con il risultato che REVII diventa uno dei migliori esempi di come coniugare una tipologia di gioco classico con una tecnologia ancora pionieristica e spesso sottosfruttata per proporre esperienze poco interattive e più simili a demo tecniche. Prima di giungere a questo risultato passa quasi in sordina l’ultimo prodotto ancora legato al rincorrere la moda, ovvero Umbrella Corps. Si trattava sempre di un derivato ma interamente basato sul multigiocatore competitivo a squadre e con pochissimi fondi, sfruttando il riciclo di risorse grafiche da vecchi episodi della serie e con meccaniche totalmente anonime e prive del benché minimo guizzo di originalità. Come non bastasse proprio l’aver riutilizzato fondali di titoli precedenti senza adattarli nel modo giusto ad uno sparatutto PVP ne pregiudicò anche la funzionalità in modo pesante. Per quanto il villaggio di RE4 o l’ingresso del commissariato del secondo capitolo fossero scenari suggestivi e iconici per gli appassionati, non erano certo stati modellati per risultare efficaci in battaglie a squadre tra personaggi in grado di sparare.
La contemporaneità invece ha visto i “semplici” rifacimenti di capitoli come il secondo e il terzo, ricreati utilizzando un motore grafico performante. In particolare con il terzo si nota anche una maggiore ricerca della qualità nel produrre derivati, con Project Resistance. Il titolo è sviluppato come modalità inedita in affiancamento al rifacimento di Resident Evil 3, risultando molto più tematico e calzante, come multigiocatore in termini di survival horror, rispetto agli esperimenti precedenti.
Di questo se ne è parlato più diffusamente nell’anteprima della Beta.
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Bella saga, che ha avuto alti, Altissimi e bassi.
Dei capitoli numerati mi manca solo RE3, al quale giocherò tra qualche mese grazie al remake.
RE5 e RE6 effettivamente sono più action che survival, ma che dire, giocati in due sono dvvero divertenti.
Si so che un horror dovrebbe far paura e non divertire, ma, se volevo tensione a quei tempi mi bastava sbattere dentro la console Dead Space e Dead Space 2 😀
re5 e 6 non erano dei brutti giochi, tuttavia uscirono in un periodo in cui il genere sparatutto era davvero inflazionato. come non bastasse negli stessi anni i survival horror erano diventati rari, questo rese la deviazione ancora più difficile da tollerare per i giocatori. ma se ci pensi pure Re4 era un capitolo molto action, specie nel finale, con i ganados mercenari armati di gatling addirittura, il pezzo con le esplosioni e il camion, la parte finale sull’isoletta con mille soldati da ogni parte. tutte cose che sembrano uscite dritte dal 6.
Davvero molto bella questa Retrospettiva, peraltro su una delle serie a cui ho voluto più bene. Videoludicamente sono davvero cresciuto con i RE, soprattutto col secondo capitolo giocato sulla prima mitica PlayStation. Fino al quarto ho amato visceralmente tutti i capitoli, dopo la serie ha preso una piega che non è stata più di mio gradimento. Il quinto così e così, il sesto mediocre ed il settimo in prima persona giusto per provare a sfruttare l’onda di VR.
Ribadisco grande rubrica, mi auguro si faccia più spesso, soprattutto con quei giochi e quelle serie divenute iconiche. Complimenti all’autore.
ti ringrazio. per i prossimi articoli a tema retrogaming suggeriscimi pure altri argomenti, tipo serie, giochi, periodi, su cui vorresti leggere qualcosa.
Dato che l’hai chiesto approfitto 😀 Si potrebbe parlare di periodi videoludici specifici, come la prime console, oppure l’era del 3D e della prima PlayStation. Ma anche della Console War, soprattutto negli anni più belli e più “agguerriti”. Oppure di serie in particolare, ma qui ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta: Super Mario, Street Fighter, Tekken, Tomb Raider e chi più ne ha più ne metta. Mettendo da parte per un attimo l’argomento gaming, si potrebbe persino parlare di qualcosa di cinematografico. Magari film che hanno “subito” un revival. Mi riferisco ad esempio pellicole come Jumanji, Ghostbusters. Insomma, di roba da scrivere ce n’è e di voglia di leggere altrettanto!
della retrospettiva sulla prima playstation se ne è occupato un altro redattore. però ho trattato alcuni punti importanti del periodo 32 bit nella retrospettiva sul saturn.
sulle console war in generale vedo come potrei strutturarlo. sulle serie citate vedo di preparare qualcosa, ovviamente c’è l’imbarazzo della scelta, ma proprio per questo avere qualche suggerimento specifico aiuta.
sui suggerimenti cinematografici giro il consiglio ai colleghi che se ne occupano.