Tetsuya Mizuguchi: quando il videogioco diventa arte sinestesica

Cavie inconsapevolmente estasiate di un esperimento ludo-cognitivo

Monografia di Stefano Calzati

Sinestesia [si·ne·ste·ṣì·a] – Fusione in un’unica sfera sensoriale delle percezioni di sensi distinti.

Se nella vostra carriera di giocatori avete mai avuto la fortuna di mettere mano su un’opera di Tetsuya Mizuguchi, genio assoluto che trascende i media, avrete subito capito, o intuito, il concetto psicologico che ne fa da fondamenta, un game design che si plasma attorno alle abilità cognitive di ogni essere umano e se ne impossessa, portando il soggetto all’estraneazione totale dal mondo circostante, per essere trasportato su un nuovo piano percettivo.

Laureato in “estetica dei media” presso la Nihon University per poi prendere una strada che non avrebbe mai immaginato, quella dell’industria videoludica, quando capì che il suo sogno era creare qualcosa che potesse coinvolgere i sensi umani tramite l’intrattenimento e l’interazione, andando a toccare corde che la sola arte potrebbe appena sfiorare. Lo fece da uno degli ingressi principali, la SEGA del 1990, periodo di avanguardia tecnologica per la casa di Tokyo, lavorando prima sui cabinati da sala giochi, in veste di designer, poi come capo-progetto di quel SEGA Rally Championship che fa ancora brillare gli occhi degli appassionati di racing arcade, immortale come una Lancia Delta vestita dell’elegante livrea Martini Racing.

Poligoni vintage e derapate. Emozioni forti.

Un titolo nato da un gruppo di programmatori giovanissimi alle prime esperienze, mosse però da una passione viscerale e tracimante, eppure Tetsuya, nonostante il successo di critica e pubblico coronato dal sequel del 1998, ha in mente altro, forse da sempre. La spinta definitiva per scolpire la sua prima e identitaria opera, arriva proprio quello stesso anno, durante un viaggio a Zurigo. Un festival, centinaia di persone che non si limitano a ballare ma usano il loro corpo per diventare un tutt’uno con la musica, mutando al cambiare del ritmo, dei colori. Un’immagine di trasporto totale, psichedelica, quasi surreale, che fa ricordare a Mizuguchi il concetto di sinestesia. Li vede la musica diventare movimento, i colori diventare suoni e ogni elemento sensoriale cambiare di posto fino a fondersi l’uno all’altro, un gioco delle tre carte psicologico che da vita a un’idea fulminante, quella che serve a un artista per evolversi, entrando nella storia indelebile dell’industria, quella immune dai progressi tecnologici e del decadimento temporale. SEGA ascolta le sue idee, dando al suo team, la divisione interna United Game Artists, carta bianca per la creazione di qualcosa di totalmente nuovo, slegato dagli altri franchise della casa per nobilitare ancora di più la softeca di Dreamcast. Una fiducia che Mizuguchi riempie col suo estro, travasando in esso tutte le sue esperienze e ambizioni, senza dimenticarsi che un videogioco non è mai solo una trasposizione del proprio ego, cercando quindi di dar vita a un prodotto che possa includere e divertire quante più persone possibili, partendo da un curriculum arcade che gli ha insegnato l’importanza dell’immediatezza, del prêt-à-jouer, studiando sistemi di controllo semplici e al contempo raffinati, capaci di gettare subito il giocatore in un fiume in piena di adrenalina, fin dal primo avvio.

Nasce Ulala, avvenente reporter spaziale d’assalto di Space Channel 5, protagonista del più grande musical videoludico di sempre, un La La Land cosmico, un Grease retrofuturista dove tutta la sua avveniristica scenografia sembra disegnata negli anni ’50 per poi essere trasportata fast-forward di 500 anni, esattamente come il suo sound. Giornalismo in prima linea contro un’inevitabile invasione aliena, da combattere danzando con le dita sul pad, battendoli al loro stesso gioco, ammaliandoli con le sensuali e fluidissime animazioni della nostra alter ego, sapientemente istruita da coreografi digitali, microfono alla mano, corpo in balia della musica e pistola laser nella fondina, tutto in nome di una fetta di share da conquistare. Un titolo che porta le stimmate del cult, cui seguirà anche una Part 2, nel 2002. Ma è proprio tra i due atti di questo musical che Mizuguchi porta all’esasperazione le sue teorie psico-ludiche, con un titolo che sarà la sua ossessione, il suo capolavoro, l’opera che più di tutte sconfina nel campo dell’arte pura, degna di essere esposta al MOMA in forma giocabile.

2001, odissea nel cyberspazio di Rez. Opera magna, capolavoro, esperienza. La sua estetica è un viaggio nel mainframe al fine di distruggere le sue difese, un virus che si insinua e infetta un organismo cibernetico, portando alla mente Gibson, Neuromante e tutta la sotto-cultura cyberpunk che è seguita, ma fermarsi qui vorrebbe dire mancare clamorosamente il bersaglio, semplificare ai limiti della legalità.

“Durante lo sviluppo ce lo ripetevamo di continuo. Doveva essere qualcosa senza tempo, senza luogo, totalmente libero da ogni cultura.”

Rez ripudia la superficialità e le etichette, laddove la logica suggerisce che sia uno sparatutto su binari, brillante ed elegante nel suo essere classico, il sistema nervoso si rende conto di stare reagendo a impulsi nuovi, provocati artificialmente, la pelle d’oca diventa emozione espressa in braille e la coscienza comincia ad eliminare il superfluo, prima la stanza in cui ci troviamo, poi la cornice del televisore, infine il pad, immersi fino alle orecchie in un liquido amnotico techno, trance, con reminiscenze hip-hop. Ogni movimento delle dita, ogni esperienza tattile si trasforma in un suono, un flash quasi subliminale, un colore acido, il ritmo sale dalle mani per diffondersi in tutto il corpo, i piedi tengono il tempo, le palpebre dimenticano di battere e le pupille vengono bombardate da uno spettacolo pirotecnico di ispirazioni a Kandisnky, disgregazioni poligonali che si trasformano in figure conosciute, architetture virtuali che rimandano a culture reali, antiche, estinte. Sinestesia indotta, una serie di emozioni di stampo artistico che si trovano a dipendere tutte dal divertimento, fondendosi e confondendosi in un’esperienza mistica, spirituale, di confine. Un’orchestra meccanica e perfetta che suona sotto gli ordini di un direttore che si rende conto di aver cristallizzato il tempo attorno alla sua multisensoriale creatura.

Date a una persona totalmente indifferente al videogioco la possibilità di provare Rez, così puro, narrativamente asettico (benché un racconto, a modo suo, ci sia eccome), non troppo esigente nei confronti del giocatore. Il soggetto resterà probabilmente senza parole, estasiato da un’emozione che semplicemente non poteva conoscere. Chi mai avrebbe pensato che il videogioco potesse essere anche questo? Un esperimento, un generatore di caos percettivo, la sensazione di volteggiare nel software che gestisce la console di un DJ, agendo in prima persona sul suono che trasmetterà alle casse. Una creatura altre sì ancora acerba, relegata e monitor dalle risoluzioni preistoriche. Per questo Mizuguchi decise, negli anni, prima di riproporlo in HD, dandogli giustizia estetica e soddisfacendo un suo preciso desiderio, per poi giungere alla sua evoluzione finale, quell’Infinite compatibile con i visori VR, meta di un viaggio, o di un trip se preferite, iniziato ben prima del 2001, quando vide le immagini di un set per la realtà virtuale della NASA, la mente proiettata già verso il futuro, quell’istinto che illumina i più grandi, gli innovatori, gli artisti.

Rez è però anche spartiacque lavorativo. SEGA va incontro al triste destino che tutti conosciamo a causa delle scarse vendite della sua “macchina dei sogni”, le ambizioni vengono drasticamente ridimensionate e United Game Artists viene sciolta come un’aspirina nel Sonic Team, dopo la pubblicazione di Space Channel 5 Part 2 nel 2002. Mizuguchi capisce di ritrovarsi ingabbiato in una realtà che ha dovuto fare i conti con la falce del business, privato della sua libertà creativa e pronto a lasciare, per fondare nel 2003, insieme ad altri esuli SEGA, Q? Entertainment. La coincidenza con l’imminente rivelazione di PlayStation Portable al mondo è di quelle che capitano una volta nella vita, un colpo di fulmine con il gioiellino portatile di Sony, un’occasione perfetta per reinventare il genere dei puzzle game, afflitto da immobilismo e mancanza di idee veramente rivoluzionarie e incisive. Lumines accompagna il lancio mondiale del “nuovo Walkman”, avveniristico come la console che l’ha ispirato, ipnotico come quel Tetris che fece la fortuna del Game Boy e che, in origine, avrebbe dovuto essere proprio parte integrante del progetto Q?, che non andò in porto per questioni di diritti. Lumines è immersione totale, pensato nella sua modalità principale per partite lunghe, estenuanti, capaci di alienare il giocatore alla sua ovvia ripetitività, ipnotizzandolo appunto, escludendolo dalle stimolazioni esterne.

Qui Mizuguchi non si limita a giocare finemente col concetto di sinestesia, ma con la sua impostazione “costringe” il giocatore a vivere il Tetris effect, o “sindrome di Tetris”; un fenomeno che si manifesta in chi si impegna in attività che richiedono alti livelli di concentrazione, spesso ripetitive, che, nel caso specifico dell’opera di Pazitnov, porta i soggetti a ragionare su come ordinare con successo (mentalmente più che fisicamente) oggetti reali sulla base delle proprie esperienze virtuali, influenzando talvolta anche i sogni. Un loop inconscio duraturo, uno scherzo della mente che l’ex SEGA rende parte integrante dell’esperienza ludica. Cubi fluorescenti che si imprimono nelle retine e scavano attraverso il nervo ottico per raggiungere il cervello, sul ritmo battente, musicalmente innovativo di una colonna sonora clamorosa, che cambia repentinamente bpm e sonorità tra una skin e l’altra, stampandosi nei timpani come i solchi di un vinile. Aprendo una parentesi personale, non è un caso che a distanza di anni dall’ultima partita ricordi quasi perfettamente la sequenza delle tracce e il loro corredo estetico. Anni che si sono azzerati con la remastered uscita settimana scorsa, in un percorso di perfezionamento che, dopo molti seguiti e spin-off, chiude il cerchio tornando dove tutto era cominciato.

Tetris Effect è un nuovo inizio, il ritorno sulle scene di un maestro, un progetto che promette di condensare tutta la sua filosofia fino a farla esplodere in un Big Bang di sensazioni.

L’episodio più completo e multisensoriale di sempre (con le vibrazioni del rumble HD dei Joy-Con di Switch che si propagano in tutto il corpo a tempo di musica), un obiettivo fortemente voluto dal nostro, il quale, dal 2014 fondatore e CEO di Enhance Inc., è riuscito a salvare dal tempo anche l’opera che più di tutte mostra al mondo il suo amore per la musica, incastonato tra Rez Infinite e Tetris Effect (e si ritorna alle geniali ossessioni, alla sinestesia, al coinvolgimento psicofisico), previsto entro la fine dell’anno su PlayStation 4 compatibile con PSVR, vera e propria bomba dell’E3 2018, primo lavoro originale di questa sua terza vita videoludica. Un po’ Rez (e Child of Eden), un po’ Lumines e tantissimo Tetris, questa nuova evoluzione del più famoso videogioco russo di sempre (e non solo) promette di essere addirittura il lavoro più visionario e completo dell’artista Tetsuya, con un trailer che è una vera dichiarazione d’intenti. Arte moderna interattiva e viva, un nuovo cult pronto a far esplodere le sinapsi di quanti hanno costantemente brama di sperimentare nuove stimolazioni sensoriali. Più pragmaticamente, il ritorno di un maestro, un personaggio unico che ha donato all’industria opere composte da strutture chimico-virtuali uniche, occultesostanze entrate in circolo per via cutanea, auricolare, oculareormai per sempre parte del nostro organismo e flusso di pensiero.

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