Uno dei temi che ha maggiormente scosso l’utenza nell’ultimo periodo è nato da un immancabile report di Jason Schreier su Bloomberg. L’argomento dell’inchiesta era l’eccessivo attaccamento di Sony ai suoi blockbuster, a discapito di progetti videoludici ritenuti minori in termini di potenziali vendite. Tra i tanti spunti di riflessione, o meglio di guerriglia social, che l’articolo ha portato alla ribalta c’erano il remake di The Last of Us, con una preferenza nello sviluppo data a Naughty Dog rispetto ai meritevoli Visual Arts Service Group, e la cancellazione dei lavori su Days Gone 2. Un’esclusione di peso, quest’ultima, che ha diviso l’utenza e che ha avuto strascichi importanti.
A favorirli è stato David Jaffe, creatore dell’originale God of War, che oggi veste i panni dello YouTuber e che dedica diversi video a interviste e approfondimenti. Uno di questi ha avuto come protagonista John Garvin, ex game director di Days Gone. Tra le tante dichiarazioni rilasciate in totale libertà, visto che oggi Garvin non è più un dipendente di Sony Bend, hanno colpito quelle relative alle proposte di miglioramenti e aggiunte di gameplay per un eventuale Days Gone 2. Ad accendere la miccia delle reazioni internazionali, però, è stata un’altra provocazione, lanciata direttamente contro l’utenza.
Secondo Garvin, infatti, come avevamo riportato con una notizia molto discussa, la colpa della cancellazione di Days Gone 2 è anche di chi non l’ha supportato a dovere al lancio. Nelle parole dell’ex game director, infatti, se amiamo un gioco dobbiamo acquistarlo a prezzo pieno, nel periodo del debutto. In caso contrario, non siamo autorizzati a lamentarci se Sony o chi per essa decide che i profitti non sono stati sufficienti a giustificare il lavoro su un sequel. Un’accusa, se così si può definire, che ha diviso la community dei videogiocatori tra chi approva la posizione di Garvin (pochi), chi la ritiene una strada non percorribile visto lo stato in cui molti giochi vengono messi sul mercato e chi si ferma ancor prima ritenendo Days Gone un gioco mediocre che non merita tutto il parlare che si fa del suo sequel mancato.
Il marasma che si è attivato porta però a una riflessione sullo stato attuale del mercato videoludico
La lotta tra i sostenitori del Day one e coloro che sono a favore dell’attesa delle edizioni complete e rifinite, nonché scontate, di un gioco è una delle tante che dividono la community dei giocatori. Coinvolte nella questione ci sono però moltissime variabili, che vanno dagli sviluppatori ai publisher, passando per le piattaforme di gioco e per i nuovi servizi in abbonamento per il gioco in cloud. Tutto concorre a dipingere una nuova idea di mercato del videogioco e ad attribuire ai titoli un nuovo valore percepito, diverso rispetto a quello del passato.
Proviamo ad analizzare insieme questi aspetti e a capire quanto di vero ci sia nelle parole di John Garvin, quanto sia effettivamente realizzabile la sua idea di supporto agli sviluppatori e quanto invece spetti a chi crea un gioco guadagnarsi la fiducia del pubblico.
Il rito del Day one di un videogioco è come un tango. Da una parte ci sono gli sviluppatori e i publisher che fanno la parte della sensuale ballerina, dall’altro i ballerini che pendono dalle sue labbra. Tra stripteaser rilasciati anni prima del debutto ufficiale, trailer costruiti ad arte per trasmettere un’idea del gioco molto superiore a quello che in molti casi si può davvero offrire, campagne marketing asfissianti, edizioni speciali a profusione e bonus preorder che spesso sono tanto fumo e poco arrosto, i creatori di un titolo sparano mitragliate di feromoni agli eccitatissimi gamer. I quali, dal canto loro, si lasciano facilmente raggirare dal profumo afrodisiaco di una Day one edition, dallo sguardo ammiccante di un set armatura esclusivo per chi effettua un preordine, dall’irresistibile voglia di mettere le mani per primi sulla promessa procacità di un titolo vergine nel giorno del suo lancio sul mercato.
Un tango che a volte funziona e a volte no, come dimostrano le parole di John Garvin e come suggerisce l’esperienza. Non tutti sono disposti a sborsare il prezzo pieno per ogni gioco che solletichi l’interesse, o magari le possibilità economiche non permettono di coltivare la passione per i videogame acquistandoli tutti nel periodo di uscita. Negli ultimi anni, in particolare, a influire negativamente sulle possibilità di vendita di un titolo al Day one è la percezione diffusa che la rifinitura non sia mai ottimale. Tutti ritengono, spesso a buon diritto, che la necessità di arrivare sul mercato entro una determinata finestra temporale faccia chiudere agli sviluppatori un occhio, o anche più di uno, su bug, mancanze, incongruenze, glitch e problemi vari di cui un progetto soffre.
Da un lato abbiamo giochi sempre più grandi (e solo a volte proporzionalmente più ricchi), dall’altro aumentano le possibilità di imbattersi in qualcosa che non funziona. Il problema è che, sebbene alcuni dei difetti non possano non essere noti a chi il gioco lo crea e lo sottopone a test, la possibilità di correggere gli errori rilasciando patch nei mesi successivi al lancio rende il prodotto comunque idoneo alla vendita. Salvo rari casi, come nel recente disastro di Cyberpunk 2077, questo claudicante meccanismo è riconosciuto e accettato da entrambe le parti coinvolte, con i giocatori che non resistono all’hype e sono disposti a giocare un gioco castrato o fallato e gli sviluppatori/editori che sanno di poter tirare considerevolmente la corda prima che si spezzi.
In base a questo sistema il problema di Days Gone 2 e la dichiarazione di John Garvin non avrebbero senso di esistere
Il fatto è che a sbilanciare gli equilibri ci sono le altre variabili di cui parlavamo, capaci di remare contro alle vendite nel Day one o nelle sue immediate vicinanze, di dare il tempo al passaparola e alle recensioni di diffondersi e di convincere gli utenti indecisi a rimandare o annullare un acquisto. Un fenomeno che, dal punto di vista del consumatore, rappresenta una forte tutela, ma che impedisce all’industria di portare a termine il suo “scaltro giochino” (lecito, sia ben chiaro, come accade analogamente in altri settori) e di fare cassa.
A destare curiosità è il fatto che tali variabili coinvolgono per la maggior parte le stesse figure protagoniste dello sviluppo e della commercializzazione dei giochi. In altre parole, sembra che molti publisher si diano la proverbiale zappa sui piedi con azioni commerciali che, nel tentativo di promuovere o risollevare le sorti di un gioco, in realtà lo portano spesso a una deleteria svalutazione. In questo modo, tra pregiudizi dell’utenza, mancata trasparenza degli sviluppatori e semplici ragionamenti economici si arriva alla nuova percezione del valore intrinseco di un titolo che è l’oggetto di questa riflessione e dunque al mancato profitto che ne determina l’insuccesso.
Come dicevamo, uno dei principali responsabili del dubbio con cui si guarda all’acquisto al Day one di un gioco è proprio lo studio di sviluppo. Non parliamo ovviamente dei singoli dipendenti, che spesso sono costretti a orari e ritmi disumani come testimoniano le numerose inchieste sul cosiddetto crunch, ma dello sviluppatore inteso come entità globale. Sempre più frequentemente, infatti, il gioco che viene lanciato nei negozi e negli store digitali assomiglia a una versione early access, una bozza che deve ancora essere limata e rifinita prima di poter diventare il prodotto che era stato presentato in origine.
Siamo stati abituati, negli anni, ad assistere a downgrade grafici importanti per giochi che erano stati presentati puntando molto sulle prestazioni audiovisive. Abbiamo sbattuto il muso contro l’eliminazione inattesa di caratteristiche, contenuti e meccaniche di gameplay promesse e non inserite nell’edizione di lancio di un titolo, oppure rimosse in via definitiva. Abbiamo stretto i denti di fronte a bug che impedivano di procedere con le missioni, che corrompevano i dati di salvataggio, che ci costringevano a riavviare missioni lunghissime o a ripartire da capo con la nostra avventura. Abbiamo tollerato l’instabilità del frame rate in giochi ottimizzati male, spesso con la consapevolezza che questo tipo di problema non sarebbe stato risolto del tutto neanche dalle patch correttive.
Ecco allora che acquistare un gioco al Day one non è più, come una ventina di anni fa, un investimento sicuro su un prodotto di qualità certa, almeno nella maggior parte dei casi. Acquistare un gioco al Day one è prova di fiducia, o un atto di fede se preferiamo, che spesso viene ripagato ma che in molte occasioni si rivela azzardato. L’acquisto è accettazione di un compromesso: da una parte l’impossibilità di resistere all’hype e al bisogno di provare l’esperienza tanto attesa, dall’altro la consapevolezza che di lì a qualche mese il tutto sarà molto più equilibrato, completo e fluido. Dal bilanciamento tra queste due forze in gioco deriva la divisione tra giocatori che investono al lancio e altri che aspettano, una divisione che per certi titoli di rilievo influisce in modo decisivo sui profitti.
Se si tornasse a una situazione in cui onestà e qualità vengono messe al centro del mercato non ci sarebbero ostacoli a conquistare ampie fette di utenza nel periodo in cui il gioco può vantare il prezzo pieno. Il problema è che questo implicherebbe il mancato rispetto di scadenze commerciali, il discostamento dai piani finanziari che, com’è inevitabile, stanno alla base dell’industria e la dilatazione temporale di una serialità che per qualcuno è fondamentale. Ma fino a quando il meccanismo reggerà, ossia fino a quando la quota di giocatori che accettano il compromesso di cui sopra sarà sufficiente, non è prevedibile un cambio di passo in tal senso.
Dietro a un grande uomo c’è una grande donna, si diceva. E dietro a un grande gioco, di solito, c’è un grande publisher, se con “grande” si guarda alle dimensioni e non solo alla qualità intrinseca. Il problema è che in moltissimi casi questi rinomati editori contribuiscono in modo decisivo al meccanismo della perdita di fiducia negli sviluppatori e alla svalutazione preventiva di un gioco. Giusto per tornare al discorso delle scadenze commerciali e delle valutazioni finanziarie, queste derivano spesso proprio dai publisher, i quali determinano tempi, modi e target a cui gli studi di sviluppo devono attenersi, a costo di sacrificare aspetti del gioco che potrebbero minarne la godibilità iniziale.
Non è tutto. Anche le campagne di marketing con pubblicità a tappeto sono un’arma a doppio taglio. Spesso queste si concentrano su aspetti specifici del gioco che sono di sicuro appeal per i giocatori, oppure sfruttano un franchise universalmente riconosciuto e amato, o ancora insistono sui bonus per il preordine già citati, contribuendo a creare aspettative enormi. Per ogni utente che viene conquistato in questo modo ce ne sarà almeno un altro che arriverà a nausea per il martellamento mediatico e che potrebbe scambiare la troppa pubblicità per insicurezza sulle qualità intrinseche del gioco stesso.
Soprattutto, impostando l’asticella dell’hype troppo in alto il rischio è quello di non riuscire mai a raggiungerla. Ecco allora che un gioco con aspetti di gameplay innovativi e una storia interessante risulta insoddisfacente per qualcuno solo perché trailer e informazioni pubblicitarie avevano lasciato intravedere aspetti di gameplay rivoluzionari e una storia stellare. Se il nostro partener ci solletica per tutto il giorno promettendo una cena con i fiocchi e ci presenta un piatto di pasta al pomodoro, per quanto ci abbia messo tutta la cura possibile e si sia superato rispetto alle sue doti culinarie ci lascerà comunque con un senso di insoddisfazione.
Ultima, ma non ultima, è la questione dei prezzi
Se una delle certezze dei giocatori moderni è che un gioco al Day one non è quasi mai nella sua veste definitiva (anche se qualche eccezione meritevole c’è, va riconosciuto), l’altra è che nel giro di pochi mesi, a volte poche settimane, il suo prezzo calerà drasticamente. Senza contare il lecito meccanismo della compravendita tra privati o le campagne promozionali dei negozi fisici, basta fermarsi agli store digitali per imbattersi in una serie continua di offerte e sconti che neanche Poltrone e Sofà.
Sappiamo tutti, insomma, che se le condizioni economiche attuali o il backlog non ci consentono di comprare l’ultima uscita al Day one, aspettando un paio di mesi la troveremo già a prezzo ridotto. Non solo, ma se la nostra pazienza è sufficiente a farci arrivare a un annetto di attesa potremmo portare a casa il gioco a metà prezzo o meno. Il che risulta ancor più vantaggioso se pensiamo che, per quel periodo, i difetti principali saranno stati risolti e saranno persino disponibili contenuti aggiuntivi. Spingendosi ancora oltre, è quasi scontato che i titoli di primo piano ricevano una Definitive Edition o una Complete Edition che, a prezzo pari o inferiore a quello del primo lancio, garantiranno prestazioni e longevità di molto superiori.
Di fronte a queste premesse, l’atto di fede dell’acquisto al Day one risulta ancora più pio. Come può John Garvin illudersi che la volontà di sostenere un franchise, peraltro sconosciuto a tutti prima della sua uscita e accompagnato da recensioni professionali non entusiasmanti, sia sufficiente a far sborsare agli utenti una somma che di lì a poco sarà molto inferiore? Se gli stessi publisher ci mettono una manciata di settimane a far calare il prezzo, l’idea che trasmettono è che quello fissato inizialmente fosse ingiustamente pompato.
Non dobbiamo dimenticare, e non lo facciamo, che i giorni immediatamente dopo il debutto sono quelli che rappresentano il picco delle vendite di un gioco, che poi vanno diluendosi. In questo senso è comprensibile la volontà di convincere gli indecisi e aumentare le vendite sul lungo periodo con offerte solleticanti. Il problema è che così facendo si toglie valore al gioco stesso. Se trovassi un titolo a settanta euro dopo due anni dalla sua uscita lo riterrei un prodotto nel quale i suoi creatori ripongono massima fiducia, indipendentemente dalla qualità effettiva che può avere in termini videoludici. Al contrario, vedendo uno sconto importante dopo un mese il sospetto che mi nascerebbe è che il gioco non ha soddisfatto l’utenza, o non è la “bomba” che i trailer di annuncio mi avevano promesso.
In questa situazione già complessa si aggiungono le piattaforme di gioco in streaming che, come accade in altri media, stanno invadendo il mondo dei videogiochi. Anche soffermandosi solo su PlayStation Now e PlayStation Plus e su Xbox Game Pass si può osservare come l’inclusione di giochi recenti in questi servizi contribuisca alla loro svalutazione. In questo caso è un fenomeno più ristretto rispetto a quello che coinvolge le politiche dei publisher, se non altro perché gli iscritti a questi servizi in abbonamento non sono una maggioranza.
La possibilità di trovare un gioco incluso in un servizio online dopo pochi mesi dal lancio, o addirittura al debutto, ha un duplice effetto. Sulla platea dei non abbonati potrebbe trasmettere le stesse impressioni di uno sconto importante, ossia l’idea che il gioco non valga il suo prezzo pieno. Sugli abbonati, invece, il rischio è quello di “diluire” la forza della novità di un gioco rendendolo uno delle centinaia già disponibili in una libreria. Casi come quello di The Medium e Outriders su Xbox Game Pass o Oddworld: Soulstorm su PlayStation Now sono esemplificativi.
Se io fossi un utente non abbonato a un servizio di streaming e non fossi fan di uno dei titoli proposti mi chiederei se valga la pena acquistare al Day one uno di questi giochi, considerando che vengono inclusi gratuitamente come se fossero prodotti minori. Qualcuno potrebbe vedere la loro presenza come la dimostrazione che abbonarsi ai servizi online è vantaggioso, ma qualcun altro potrebbe leggere diversamente il fatto e rivalutare il valore intrinseco dei giochi.
Se io fossi un abbonato, invece, dopo l’entusiasmo iniziale per essermi ritrovato giochi inediti a disposizione rischierei di provarli senza troppo coinvolgimento, giusto per vedere come sono. Lanciarsi in un Outriders “perché tanto è gratis” o viverlo dopo essere andati in negozio a comprarne una copia sono due momenti dal sapore completamente diverso. Anche se non ce ne rendiamo conto, i due approcci potrebbero influire pesantemente sul giudizio complessivo che diamo a un gioco, proprio per la presenza o l’assenza del valore aggiunto dato dal nostro sacrificio economico. Ci sono sempre le eccezioni, ovviamente, e riconosciamo che in qualche occasione la gratuità di un gioco al lancio gli permette di essere conosciuto e apprezzato dal grande pubblico.
L’ultima categoria che resta da incolpare è quella di noi giocatori, perché non siamo del tutto esenti da responsabilità. Se acquistare un gioco a scatola chiusa e senza un minimo di spirito critico è una libera scelta che spetterebbe agli sviluppatori favorire, mostrare il dovuto supporto alle produzioni che amiamo spetta a noi. Quante volte abbiamo criticato un gioco senza neanche averlo provato, solo per gusti personali o pregiudizi, riempiendo gli articoli sui siti specializzati e le pagine social di commenti denigratori? Un fenomeno simile, moltiplicato su grandi numeri, determina l’innescarsi di un passaparola nocivo e deleterio.
Quante volte accettiamo che le recensioni della stampa o, ancor peggio, quelle degli utenti minino le nostre certezze circa il prossimo acquisto? Perché non lasciamo che sia la trama, il gameplay, il personaggio o solo l’atmosfera regalata da un trailer a farci capire che un gioco merita la nostra fiducia, anche pagandolo a prezzo pieno, invece che farci condizionare dal parere di sconosciuti che potrebbero essere molto diversi da noi?
Il videogiocare è una passione che spesso nasce da bambini e che, quando eravamo piccoli, ci trascinava verso questo o quel gioco solo per condizionamenti interni (un colore, una forma, un protagonista, una frase a effetto sulla confezione). Riscoprire questo approccio al videogioco, più libero dal punto di vista mentale e anche più sano, più indipendente e più limpido, sarebbe la controparte ideale a una maggior trasparenza da parte di sviluppatori e publisher. In un contesto del genere, dove chi crea giochi lo fa con l’obiettivo di proporre esperienze indimenticabili e chi li acquista è spinto da sentimenti più che da ragionamenti, forse ci sarebbero molti meno problemi legati alle vendite al Day one.
Un esempio in tal senso è rappresentato da Nintendo. È proverbiale tra i gamer la politica dei prezzi del colosso giapponese. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, come si dice, che Nintendo abbassi drasticamente il prezzo di un gioco, tanto meno di una console. Se questa linea viene ritenuta svantaggiosa per i clienti, è altrettanto vero che è l’unica strada percorribile per avere un mercato più pulito e onesto.
Non importa se The Legend of Zelda: Breath of the Wild sia uscito quasi quattro anni fa: è quasi impossibile trovarlo in offerta. Lo stesso dicasi per le altre grandi esclusive Nintendo, che ricevono al massimo limature impercettibili sul prezzo. Ecco allora che un giocatore non può non rendersi conto del valore reale di un gioco e può indirizzare meglio la sua decisione di acquisto. Non solo, ma in questa situazione le vendite non hanno un peso diverso al Day one o anni dopo, dal momento che il prezzo richiesto al cliente è il medesimo, proprio perché ciò che il gioco ha da offrire non cambia nel tempo. Un discorso perfettamente chiarito nelle recenti dichiarazioni dello storico presidente Satoru Iwata.
Nessuno sarebbe d’accordo se PlayStation o Xbox adottassero la stessa politica commerciale. Si avvierebbe una serie di proteste e petizioni tali da portare all’ennesima retromarcia con la coda tra le gambe, come accaduto di recente con la chiusura degli store PlayStation 3 e Vita. Eppure sul lungo termine ne gioverebbero tutti: chi crea giochi con guadagni spalmati nel tempo (nessuno può negare che Nintendo venda, e anche molto) e chi li compra con qualche assicurazione qualitativa in più e con qualche recriminazione in meno nel caso di progetti accantonati, come quello di Days Gone 2.