La telecamera nei videogiochi, da God of War a Death Stranding

La narrazione nei videogiochi verso una nuova maturità.

Speciale di Leonardo Alberto Moschetta

Cinema e videogiochi. Un tema che trova infinite iterazioni che emergono naturalmente, ancor più quando i testi videoludici presentano una forte componente narrativa. Il videogioco è, come il cinema, un audiovisivo e utilizza pertanto un analogo linguaggio fatto di inquadrature, musica, dialoghi, effetti sonori, con l’aggiunta della peculiarità rappresentata dall’interattività.

La peculiarità dell’audiovisivo cinematografico, per molti teorici e studiosi di cinema, è invece rappresentato dal montaggio. Il montaggio filmico rappresenta una vera e propria riscrittura del film, una rielaborazione della sceneggiatura originale al fine di costruire senso narrativo ed emozioni. Esso ha rappresentato la trasformazione del cinema da mero ritrovato tecnologico a vero e proprio linguaggio artistico, grazie a pionieri del cinema quali Edwin S. Porter, David Wark Griffith e George Meliés. Fino a quel momento infatti (intorno agli anni dieci del ventesimo secolo) il cinematografo dei fratelli Lumiere viveva solo ed unicamente di piano sequenza: un’unica inquadratura che rappresenta da sola una sequenza narrativa compiuta, senza alcuno “stacco”.

È attraverso la grammatica del montaggio che il cinema si è trasformato nella settima arte, ciò non vuol dire però che il piano sequenza sia sparito dalla cinematografia mondiale con l’avvento del montaggio. Il piano sequenza nel cinema è anzi stato spesso scelto dai registi per garantire la visione in tempo reale dell’intero film (tempo del film uguale al tempo della storia) o di una parte dello stesso. In altri casi per sperimentare virtuosismi meramente estetici ma di grande impatto. Sono molteplici gli esempi nella storia del cinema di film interamente in piano sequenza: da Nodo alla Gola di Alfred Hitchcock (1948) a L’arca russa di Aleksandr Sokurov (2002) fino al vincitore dell’oscar 2015 Birdman di Alejandro González Iñárritu. Ma anche di singole scene divenute iconiche proprio grazie all’utilizzo del piano sequenza: l’inquietante passeggiata in triciclo per le stanze dell’Overlook Hotel in Shining (1980) di Stanley Kubrik o la scena di apertura de L’infernale Quinlan di Orson Welles.

The Shining (1980. Regia di Stanley Kubrick)

Ebbene, pensiamo ora al videogioco, ma non alle sequenze di intermezzo non giocabili, pensiamo alle vere e proprie sequenze di gameplay. Converrete che ogni iterazione di gioco, ogni partita, è in realtà un piano sequenza. Mentre giochiamo l’azione non può essere temporalmente frammentata o il gameplay ne risulterebbe compromesso. Sin dai tempi di Pacman o Space Invaders l’unica interruzione, l’unico “stacco” possibile al piano sequenza del gameplay è rappresentata dal game over o dal passaggio ad un livello successivo.
Insomma, per sua natura, il videogioco, nella sua iterazione più pura, non può che essere un piano sequenza.
Eppure, nel corso della storia del medium videoludico, man mano che il medium stesso ha cominciato ad esplorare le proprie capacità narrative, il montaggio ha fatto capolino, sorprendentemente, anche durante le fasi di gameplay. Un montaggio che non altera la continuità temporale dell’azione ma che alterna in continuazione le inquadrature, come al cinema, appunto.
Ed è proprio con l’alternanza di inquadrature fisse che, nel corso degli anni novanta, il videogioco decide di compiere un passo deciso verso l’audiovisivo cinematografico, in cui è l’autore/regista a decidere cosa mostrare o non mostrare allo spettatore, decidendo di conseguenza quali informazioni comunicargli e quando.

La sublimazione massima di questa costruzione narrativa “in game” è sicuramente rappresentata dai principali esponenti del genere dei survival horror della seconda metà degli anni novanta: Alone in the Dark, Resident Evil, Silent Hill e altri. Proprio i primi capitoli dell’opera più famosa del game designer Shinji Mikami (Resident Evil) rappresentano l’esempio più lampante.
In Resident Evil Mikami lavora come farebbe un attento regista di cinema, utilizzando in maniera funzionale alla creazione della suspance il fuoricampo, la successione di campi e piani e l’angolazione della telecamera, secondo i precisi stilemi dell’horror cinematografico. Prendiamo ad esempio una delle sequenze più celebri dell’amato Resident Evil 2, quello del primo incontro del protagonista Leon Kennedy con il “Licker”.
La sequenza inizia nella sala d’attesa della centrale di polizia di Racoon City, apparentemente disabitata. All’ingresso nella stanza l’inquadratura mostra Leon (o Claire ovviamente!) inquadrato in campo largo, frontalmente, in modo da limitare fortemente il grado di conoscenza del giocatore. Il fuoricampo diventa così fondamentale nella costruzione della suspance, in quanto nel relativo controcampo, oscuro al giocatore, potrebbero essere nascoste minacce di cui egli è ignaro. Proseguendo e facendo avanzare il protagonista l’alternanza dei punti macchina continua questo meccanismo di costruzione della suspance alternando addirittura inquadrature dall’esterno della centrale di polizia, attraverso le finestre, in cui il giocatore ha un margine visivo praticamente nullo.

Se in un’ottica di costruzione della tensione questo ammiccamento al linguaggio filmico risulta estremamente efficace, lo stesso non si può dire sul piano prettamente ludico, dal momento che il giocatore è spesso disorientato dai continui cambi di inquadratura. Non è un caso infatti che proprio la serie di Resident Evil, con il suo quarto capitolo, abbia riscritto totalmente il paradigma del genere, abbandonando le inquadrature fisse che erano state il marchio di fabbrica della serie per portarla nella modernità attraverso una telecamera alle spalle del protagonista estremamente ravvicinata. Il gameplay riafferma così prepotentemente la sua leadership sulla narrazione e con esso il videogame afferma, con orgoglio, la sua peculiarità linguistica, quella del piano sequenza. Nessuna frammentazione, nessun limite al punto di vista del giocatore che ora può orientare lo “sguardo” dove preferisce. Oggi non esiste un action adventure o survival horror (a meno di scelte volutamente “vintage”) che adotti una successione di inquadrature fisse. Nessun titolo ormai sacrifica una telecamera libera sull’altare della narrazione, nessuno adotta un “montaggio in game”.

Uno degli ultimi titoli ad adottare una sequenza di camere fisse è stata la saga di God of War, fino a God of War: Ascension per PS3. Ma con l’ultimo capitolo delle avventure di Kratos, quel God of War per PS4 che sta catalizzando l’attenzione del pubblico internazionale, il totale ripensamento del gameplay ha spinto l’utilizzo del piano sequenza ad un nuovo livello. Il piano sequenza è qui totale, non solo durante il gameplay, ma anche durante le sequenze non interattive, nelle quali la camera virtuale, posta normalmente alle spalle del giocatore, si muove ad inquadrare il nuovo centro dell’azione senza mai alcuno stacco. Un’unica ininterrotta sequenza senza soluzione di continuità tra gioco e cut-scene, complice anche l’unità di tempo del racconto.
Cory Barlog ha dichiatato: “ L’idea era quella di raccontare una storia molto intima, da una prospettiva tanto ravvicinata da non abbandonare mai il protagonista.” Una scelta autoriale, sicuramente, che il game designer ha perseguito con estremo rigore, dopo il rifiuto da parte di Crystal Dynamics, studio nel quale Barlog ha lavorato dal 2012 al 2013, di adottare tale tecnica per il primo reebot della saga di Tomb Raider.

God of War (2018)

Quello dell’ultimo God of War non è il primo caso di cutscene interamente in piano sequenza e in piena continuità con la parte giocata. Già Hideo Kojima, forse il game designer a cui più di tutti si riconosce lo status di autore, per l’ultimo capitolo della saga di Metal Gear Solid, The Phantom Pain, ha adottato il medesimo linguaggio e, da quanto visto finora, adotterà una soluzione analoga per il suo prossimo Death Stranding. E ancora il recente Hellblade, che con God of War ha diversi punti di contatto sia in termini ludici che di setting.

Da questi esempi si potrebbe quasi desumere che il videogioco stia rifiutando il montaggio, anche laddove il suo utilizzo non comprometterebbe l’esperienza prettamente ludica, al fine di affermare la propria peculiarità di linguaggio e, con essa, la propria autonomia rispetto all’audiovisivo tradizionale, la propria dignità di medium altro, con un proprio modo di raccontare storie.
È piuttosto facile immaginare che la strada intrapresa da questi titoli non sarà per forza quella dell’intera industria videoludica. Eppure sembra assolutamente certo che il videogioco sia entrato in una nuova fase di maturità narrativa e, attraverso i team di sviluppo e i game designer più coraggiosi, non abbia paura di intraprendere il proprio cammino verso una più spiccata autorialità.

Di seguito il video che sintetizza quanto scritto nel testo!

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